ATMOSFERA E GOVERNANCE DELLA CASA: UNA COMUNITÀ ITALIANA SUL MODELLO INGLESE
Anno 11, n. 49, Dicembre
2011
Federica Bileci
Relazione presentata alla Conferenza Annuale
dell'A.T.C. inglese, Settembre 2011, Birmingham
Federica Bileci, psicologa, ha lavorato
per circa dieci anni come operatrice psicologa nell'Unità per Disturbi di Personalità
della Comunità Il Porto di Moncalieri - Torino. Da circa 3 anni è Responsabile
del Governo della Casa presso la Comunità Il Porto
1. Introduzione
La mia presenza a questa conferenza e
indubbiamente riconducibile allo stretto rapporto che la Comunità Terapeutica
Il Porto, in cui lavoro da circa 12 anni, ha avuto negli ultimi 15 anni con la
cultura inglese inerente la comunità terapeutica e con alcuni dei suoi esponenti
di maggior rilievo. Robert Hinshelwood ha ricoperto ripetutamente funzioni di
supervisore per la nostra comunità in questi anni e tuttora sta supervisionando
periodicamente il nostro gruppo responsabili. Altri esponenti delle comunità
inglesi hanno collaborato con noi come supervisori, focalizzandosi su tematiche
istituzionali o più strettamente cliniche. Vorrei ricordare tra questi Kingsley
Norton, con il quale abbiamo avuto modo di collaborare in più di un'occasione,
ma anche Rex Heigh, Sandra Kelly e Jan Lees. Non ci siamo per altro limitati ad
avvalerci della consulenza di questi colleghi. Nel 2003 e nel 2004, infatti,
abbiamo preso parte al Progetto Community of Communities e stiamo tuttora
cercando di promuovere un progetto iniziale ad esso ispirato rivolto alle
comunità terapeutiche italiane. Attraverso la nostra rivista online
"Terapia di Comunità", ormai attiva da più di 10 anni, abbiamo
pubblicato numerosi articoli di autori inglesi. Alcuni anni fa abbiamo inoltre
acquisito i diritti di pubblicazione dei primi due volumi che fanno parte del
"Cassel Hospital Monograph Series", che abbiamo interamente tradotto
in lingua italiana e reso disponibili attraverso la nostra rivista. Ciò
premesso, dopo la nostra decisione di circa un anno fa di iscriverci nuovamente
all'ATC, e dopo avere riflettuto a lungo sul significato della nostra
partecipazione alla conferenza, non vorrei oggi limitarmi ad una sorta di
autocelebrazione del rapporto privilegiato che la nostra comunità ha stabilito
con il vostro movimento culturale, né tantomeno indugiare sul riconoscimento
che la nostra istituzione ha conseguito in quasi 30 anni di vita. Piuttosto,
preferirei provare a rispondere ad un interrogativo che ritengo di fondamentale
importanza: in che modo l'interesse per il vostro approccio al problema della
vita delle comunità terapeutiche si è tradotto in un effettivo miglioramento
nel nostro modo di concepire la cura in comunità? Oppure, volendo formulare
l'interrogativo in altri termini: quali sono stati gli interventi messi in atto
nella nostra comunità che le hanno permesso di maturare e di incentivare e
diffondere sempre più la cultura dell'indagine? E che importanza assume
il mio ruolo di Governante della Casa rispetto a tutto ciò? La cultura
anglosassone, con il termine housekeeper, indica la persona che in un
certo senso interpreta “l’anima della casa”, una persona che deve avere uno
sguardo sul clima e l'atmosfera. Metello Corulli, che dirige la nostra
istituzione dal 1997, ha da sempre riconosciuto un ruolo cruciale a questi
aspetti e per questo ha voluto introdurre questa figura collocandola "al
centro della vita della comunità". Negli ultimi anni, rivestendo questo
ruolo che prevede anche incarichi di tipo organizzativo e gestionale, sono
divenuta sempre più consapevole delle sue numerose sfaccettature: "l'anima
della casa", l'atmosfera, è influenzata da più aspetti della vita di
comunità, e al tempo stesso li influenza; è sensibile a tutto e
al contempo sensibilizza su tutto.
Chi ha esperienza di lavoro nelle
comunità sa bene quale sia l'importanza del clima, quanto questo influisca sul
benessere degli ospiti e sulla serenità di chi ci lavora. I momenti in cui in
comunità "si respira un buon clima" sono estremamente importanti, sia
dal punto di vista pratico che sotto il profilo simbolico: un buon clima
facilita i rapporti e fa sì che la vita di comunità possa svolgersi con
maggiore spontaneità e naturalezza. Permette anche di alleviare lo stato di
tensione, di far riposare l'anima, così da poter affrontare con maggiore
ottimismo e lucidità i momenti critici. Ma il buon clima, ha anche un profondo
significato simbolico: nella testa degli operatori e dei residenti rappresenta
anche il fatto che "si è lavorato e si sta lavorando bene", proprio perché
un buon clima, in una comunità che ospita persone profondamente disturbate e
sofferenti, non si crea e non si mantiene spontaneamente, ma è il risultato di
un grande investimento in termini di risorse umane, professionali, culturali e
naturalmente anche economiche. Per i residenti, com'è noto, una buona atmosfera
complessiva è ancor più importante perché può gradualmente e lentamente
alimentare in loro un sentimento di fiducia verso i rapporti umani e la
convivenza.
Credo che anche questo aspetto della
comunità terapeutica, la buona qualità dell'atmosfera che la caratterizza,
dipenda a sua volta da un ingrediente fondamentale che dovrebbe far parte
integrante della cultura che sostiene un'istituzione di questo tipo: il
coraggio. Mi riferisco al coraggio e alla convinzione di investire fortemente
su aspetti della vita e della terapia di comunità che permettono alla comunità
terapeutica di differenziarsi in modo significativo da una generica istituzione
di cura, come l'ospedale o la clinica. Per quanto sia convinta che la gran
parte di coloro che lavorano nelle comunità sappiano quale sia l'importanza
dell'atmosfera, credo che non sempre questo si rifletta nelle scelte
gestionali. Il fatto di avere assegnato ad una figura cardine, il ruolo di
“Governante della casa”, dandole una funzione di leadership all’interno del
gruppo responsabili, ha notevoli implicazioni di natura concreta e simbolica,
ed è anche un esempio di come abbiamo inteso reinterpretare al Porto la
"lezione inglese".
Questa scelta ha radici storiche,
infatti, il ruolo di Governante è stato introdotto per la prima volta 12 anni
orsono. La collega Alessandra Rabbia, ha saputo, nel corso degli anni,
costruire intorno a sé un ruolo che
integrasse gli aspetti concreti di gestione della “casa” e gli aspetti simbolici,
riflettendo così la visione olistica della presa in carico del paziente.
Traendo spunto dall’esperienza della collega e da queste riflessioni mi
piacerebbe darvi una descrizione del mio ruolo all’interno della Comunità
Terapeutica Il Porto, non limitandomi ai presupposti e alle considerazioni di
natura teorica, ma provando a comunicare e condividere la mia esperienza di
governante in una comunità italiana ispirata al modello inglese.
2.
La Comunità Terapeutica Il Porto
2.1.I nostri valori
La Comunità Terapeutica Il Porto si propone da sempre di coltivare un ideale terapeutico realistico e di sviluppare un’organizzazione sociale per la cura che favorisca al massimo il benessere dei suoi ospiti.
L’obiettivo prioritario delle
Comunità consiste nel cercare di alleviare la sofferenza che rende così
difficile l'esistenza dei nostri residenti. In questo senso riteniamo di
fondamentale importanza le relazioni umane ed il rispetto della dignità
personale. Ci proponiamo di aiutare i nostri ospiti a sviluppare le proprie
capacità, in un setting comunitario aperto, che favorisca l’attivazione delle
risorse personali un atteggiamento più responsabile verso della propria vita -
passata, presente e futura - e naturalmente rispetto al proprio bisogno di
terapia.
Se dovessimo riassumere in tre parole
i concetti chiave della nostra cultura, parleremmo di holding, insight e
mentalization.
2.2. Lo
staff
Attualmente l’intero staff della
Comunità è costituito da oltre ottanta operatori: psichiatri, medici,
psicologi, psicoterapeuti, educatori, infermieri, terapeuti della famiglia,
arte-terapeuti, artisti, artigiani, tirocinanti, volontari, personale
alberghiero ed amministrativo.
2.3. I
nostri pazienti
È noto che quando la patologia
psichiatrica, nella sua accezione più ampia, è ulteriormente gravata
dall’utilizzo o dall’abuso di sostanze, ci si trova ad affrontare un quadro
clinico di estrema complessità. L’esperienza di lavoro con questa tipologia di
problemi, ci ha permesso di focalizzare la nostra attenzione sulla presa in
carico integrata dei due aspetti, mantenendo al contempo ambiti di intervento
specifici. Per questo motivo attualmente in Comunità esistono tre equipe di
lavoro che operano in quattro differenti unità:
1) Unità per pazienti con Disturbi da
Psicosi (20 posti letto)
2) Unità per pazienti con Disturbi di
Personalità (20 posti letto)
3) Unità di Fase Avanzata (6 posti
letto)
4) Gruppo Appartamento (4 posti letto)
Le prime due Unità accolgono pazienti
con diagnosi psichiatrica, in gran parte con l'aggravante dall'abuso di
sostanze stupefacenti. I pazienti sono maggiorenni ed in prevalenza nella
fascia d’età compresa tra i venti e quarant’anni. Ogni gruppo di lavoro,
coordinato da uno psichiatra (Direttore clinico) e da uno psicologo
(Responsabile dell’ Unità), è composto da psicologi, psicoterapeuti, educatori
professionali, infermieri e medici notturni in guardia attiva, che garantiscono
la copertura del Servizio 24 ore su 24.
La Terza Unità è destinata a pazienti
che hanno raggiunto una buona consapevolezza delle proprie difficoltà ed un
adeguato livello di funzionamento, ma che necessitano ancora di una fase
intermedia di adattamento per raggiungere una più completa autonomia personale
e portare a compimento il reinserimento all'esterno della comunità.
La Quarta Unità, nasce recentemente
dall’esigenza di offrire un ulteriore spazio di supporto, attraverso l’apertura
di un Gruppo Appartamento collocato direttamente sul territorio, così da poter
sostenere ed affiancare efficacemente il processo di emancipazione e integrazione
nel tessuto sociale.
2.4. L’offerta dei servizi
Il primo periodo di permanenza in
Comunità è principalmente connotato da un’atmosfera di accoglimento e sostegno,
in cui le regole comuni hanno la funzione di offrire contenimento e protezione.
Successivamente il nostro intervento è mirato ad un maggiore coinvolgimento
nella vita comunitaria e ad un accompagnamento verso la riappropriazione di
capacità, abilità e responsabilità.
In generale le nostre attività si
possono suddividere in assemblee, gruppi e riunioni e si possono così
schematizzare:
-
programma
organizzato di incontri di gruppo con finalità psicoterapeutiche
-
attività
pedagogiche rieducative
-
attività
espressive a carattere artistico e Arteterapia
-
attività
di comunicazione verbale e non verbale
-
attività
occupazionali
-
assistenza
medica, trattamento psichiatrico e psicofarmacologico
-
colloqui
terapeutici individuali
-
consultazioni
di sostegno ai familiari
-
attività
didattiche e culturali.
Il Governo della Casa consiste principalmente nel definire, coordinare
e mantenere il setting comunitario, ovvero la cornice di lavoro in cui si
colloca il Progetto Terapeutico, che naturalmente è l’obiettivo prioritario e
fondante della Comunità stessa.
In linea generale, il mio ruolo di
governante risponde ad alcune necessità fondamentali della comunità; tra questi
spiccano:
- la manutenzione dei confini del sistema (con un' attenzione particolare ai versanti interni ed esterni)
- la valutazione attenta e sensibile della qualità delle relazioni e dei rapporti di convivenza
- l’individuazione dei bisogni e delle risorse necessarie a creare e mantenere un ambiente “sufficientemente buono” in cui residenti ed operatori possano vivere e progettare il processo di cura.
Un altro compito imprescindibile
previsto dal mio ruolo consiste nel complesso lavoro di traduzione pratica e
quotidiana dei valori fondanti la Comunità: la democrazia, la tolleranza, la
condivisione e il rapporto con la realtà esterna, ma anche la diffusione e
condivisione a più livelli delle strategie "politiche", sia quelle
rivolte al mondo interno che quelle più pertinenti alla realtà esterna,
attraverso le quali la Presidenza dirige l’istituzione.
Per operatori e residenti inoltre,
rappresento il collegamento diretto sia con il Gruppo Responsabili di cui
faccio parte, sia con la Presidenza, da cui funzionalmente dipendo. Andando un
po’ più nel dettaglio, Il mio ruolo si caratterizza principalmente per una
presenza costante in Comunità, attraverso il coordinamento di gruppi di lavoro
che si occupano in modo particolare della progettazione e gestione della
residenzialità, nonché delle attività risocializzanti e
riabilitative/occupazionali. A questo si somma la mia costante collaborazione
con i colleghi Responsabili delle tre Equipe, per quanto riguarda la gestione
del gruppo degli operatori e dei residenti, mentre con i Direttori Clinici
svolgo una regolare verifica del grado di compatibilità tra lo stile di vita
comunitario e le condizioni psicofisiche dei pazienti.
Infine il Governo della Casa presuppone
un costante passaggio d’informazioni con il Responsabile dell’Ufficio
Amministrativo e con il Capo del Personale dai quali dipendono due ingredienti
imprescindibili per il buon andamento della Casa: le risorse umane ed quelle
economiche.
Curare l’atmosfera, inoltre,
significa avere cura degli spazi, dell’ambiente e degli arredi, della casa
nella sua totalità, composta da due edifici di 2400 mq e 20.000 mq di giardino!
Il modo in cui io vivo questa funzione evoca la complessità e la fatica che
generalmente comporta l’avere in carico situazioni cliniche complesse. Anche in
questa situazione è necessario un atteggiamento vigile per evitare che aspetti
di mal curanza e disattenzione prevalgano, ostacolando il processo di
cambiamento e creatività.
3.
Il Governo della Casa: i Valori della
Comunità Terapeutica.
Uno dei compiti centrali della
Governante della Casa consiste nel difficile processo di traduzione, nella
pratica quotidiana, dei valori che sostengono la Comunità, e nel creare e
preservare le condizioni necessarie
perché questo processo di traduzione possa concretamente realizzarsi e
prolungarsi nel tempo.
In una Comunità terapeutica è
necessario creare un clima improntato alla democrazia, in cui tutti, residenti
ed operatori, abbiano la possibilità di partecipare alla progettazione e
gestione della vita comunitaria. Se è vero che sul principio tutti concordano,
nei fatti favorire la partecipazione implica sia mobilitare risorse, che per
definizione sono sempre scarse, sia far i conti con le difese.
In più occasioni ho sperimentato
quanto sia difficile coinvolgere residenti e operatori nella gestione
quotidiana della comunità. Prevale un atteggiamento sostanzialmente passivo, in
cui si attende che una fantomatica entità provveda a soddisfare bisogni e desideri.
La richiesta di partecipazione spaventa e quindi non è affatto scontato che di
fronte alla possibilità di esprimere il proprio punto di vista ci siano
risposte entusiastiche ed immediate.
A questo proposito mi piacerebbe
raccontarvi di una situazione, a mio avviso particolarmente significativa, che
ha richiesto un lungo lavoro di mediazione per poter favorire la nascita di una
nuova attività all’interno della Comunità.
All’inizio dello scorso anno la
Presidenza propone al Gruppo Responsabili e all’Assemblea dei Residenti, l’idea
di aprire, all’interno della Comunità, un’attività di ristorazione aperta al
pubblico. Dovete sapere che la nostra struttura è situata all’interno di un
grande parco, molto piacevole e molto gradito ai residenti per attività sportive,
passeggiate o momenti di svago. All’interno di questa area è presente anche un
boschetto dove, nei mesi estivi, viene allestita una caffetteria gestita dai
residenti in collaborazione con gli operatori che si occupano delle attività
occupazionali.
Nonostante la proposta abbia destato
sin da subito un discreto interesse, al contempo ha suscitato una condizione di
allarme, sia nei residenti che negli operatori. Non erano chiare le ragioni che
sostenevano una tale proposta: si trattava forse di un sogno nel cassetto della
Presidenza, di una bizzarria apparentemente immotivata, o del desiderio di
offrire delle opportunità lavorative e di formazione ai residenti?
Inizialmente mi confrontai con la
responsabile delle attività occupazionali e con il Gruppo Responsabili al
completo: eravamo d'accordo sul fatto che questa iniziativa potesse essere
buona opportunità per dare uno spazio di sperimentazione lavorativa a quei
residenti che, non essendo ancora pronti per un reinserimento sul territorio,
avevano bisogno di mettersi alla prova in un contesto di lavoro
"intermedio", nel quale potevano usufruire di una maggiore tutela e
di un adeguato sostegno.
All'epoca avevo intrapreso l’incarico
di governante da circa sei mesi, dopo aver lavorato per circa 10 anni come
operatrice psicologa in una delle due grandi equipe. In un primo momento pensai
che questa proposta avrebbe comportato per me una gran mole di impegni, con la
prospettiva di ritrovarmi a lavorare durante i week-end nel periodo estivo,
cosa che non mi capitava da molto tempo! Nonostante questo primo impatto la
proposta suscitava in me un sentimento di fiducia. Un progetto ambizioso che
avrebbe dato per una volta la possibilità a Noi,
Comunità terapeutica, di nutrire la
clientela. Saremmo riusciti a offrire uno spazio di piacere all’interno di un
luogo di sofferenza?
Credo che fossi molto attratta
dall’idea di rendere più permeabile la membrana protettiva della comunità,
creando le condizioni per vivere momenti d’incontro e per usufruire di spazi di
socializzazione nuovi. Si trattava di invitare in questo modo l'istituzione ad
aprirsi al mondo esterno, e attraverso questo incontro dare vita ad un
confronto per superare pregiudizi e diffidenze. Tuttavia mi trovai a
confrontarmi con un diffuso sentimento di diffidenza all’interno della
Comunità.
La proposta iniziò comunque a
prendere corpo ed io mi feci carico di delinearne le caratteristiche nei luoghi
preposti: assemblee di comunità, gruppo responsabili, gruppi organizzativi. Si
sarebbe trattato di un ristorante-griglieria aperto tre volte la settimana,
gestito in collaborazione con un ristoratore professionista che si sarebbe
occupato degli aspetti tecnici della ristorazione, della gestione, formazione e
contribuzione dei residenti al servizio e in cucina.
Contemporaneamente, in particolare
nei gruppi, continuavano a emergere sentimenti contrapposti: smarrimento,
paura, preoccupazione, scetticismo ma anche entusiasmo e interesse.
È stato molto complesso tentare di
mettere a fuoco le opinioni di ogni singolo individuo, residente o terapeuta
che fosse. Questa novità, la possibilità di aprire la comunità all’esterno,
aveva scatenato moltissime resistenze e aveva incoraggiato dinamiche
d’influenzamento reciproco, aumentando il senso complessivo di confusione.
Una parte dei residenti esprimeva sia
la preoccupazione all’idea che degli estranei potessero “invadere” i loro
spazi, osservandoli in maniera giudicante, sia l'invidia nei confronti delle
persone che sarebbero venute a "divertirsi" all’interno della
Comunità, percepita invece come "il luogo del malessere".
Chi, al contrario, pensava che
quest’attività fosse positiva ed evolutiva non si concedeva di esprimere la
propria opinione nel timore di ferire e rendere vulnerabili gli altri
residenti.
Io, che per via delle funzioni svolte
e del ruolo mi trovo spesso a operare "sui confini", potendo
osservare in modo partecipe le dinamiche interne alle equipe curanti, ma da una
prospettiva più decentrata, percepivo vivamente sia la spinta vitale verso un
cambiamento, sia le difese istituzionali sostenute da ansie di natura più
primitiva.
Si trattava con tutta probabilità di
un'ansia riguardante la Comunità stessa, e dava la misura di quanto questa
fosse percepita come “l’oggetto buono” dagli operatori e dagli ospiti. Percepivo,
quindi, il bisogno crescente di tenerla in ordine, ben funzionante, dal momento
in cui si temeva l’invasione di “oggetti cattivi” sotto forma di persone che
dall’esterno avrebbero potuto danneggiarla.
Cercai di favorire la comunicazione,
facilitare la partecipazione di tutti i membri e rendere possibile la
condivisione degli obiettivi sia da parte degli operatori che degli ospiti, ma
la confusione rendeva molto complesso il
mio compito.
Dalla necessità di mettere ordine in
questa confusione nacque, dunque, la proposta di fare un referendum, che
raccogliesse in maniera democratica e razionale le opinioni dei residenti,
dando così spazio ai diversi punti di vista e cercando al tempo stesso di
contenere l'emotività.
Il primo referendum della comunità fu
organizzato molto scrupolosamente: furono eletti degli scrutatori in
rappresentanza di ogni unità mentre io, in quanto Governante della Casa, svolsi
funzioni di Presidente di Seggio; vennero inoltre approntate delle liste per
verificare il grado ai affluenza al voto. Il referendum raggiunse quasi la
totalità del quorum ed ebbe esito positivo, destando stupore negli operatori
più scettici.
Solo in seguito alle votazioni mi
sono resa conto di come l’introduzione di quest’attività occupazionale avesse
modificato un’omeostasi che durava da anni in Comunità . Un’omeostasi che era a
quanto pare funzionale e volta al mantenimento di un immobilismo rassicurante.
Il cambiamento e lo stimolo sono
stati vissuti inizialmente come potenziale causa di crisi, momento di rottura
da una fase all’altra. Aprire le porte della Comunità poteva significare andare
verso una direzione ignota, fuori controllo. L’introduzione dell’aspetto del
piacere, inoltre, suscitava fantasmi ben più preoccupanti, soprattutto nei
confronti di quei pazienti che hanno problematiche correlate all’abuso di
sostanze.
Ho trovato veramente interessante ripensare a questa
vicenda alla luce delle osservazioni raccolte nel testo “Osservare le
organizzazioni” di Robert Hinshelwood e Wilhelm Skogstad. Il testo, infatti,
presenta un approccio originale che deriva dalla diretta osservazione partecipe
di alcune unità all’interno di istituzioni appartenenti al settore dei servizi
sanitari e sociali. Gli autori mostrano come sono riusciti a raggiungere una
conoscenza psicoanaliticamente orientata delle culture che si sviluppano
all’interno dei sistemi di cura. Tale conoscenza può essere usata per superare
le difficoltà che sorgono nelle organizzazioni.
Dagli studi di osservazione delle organizzazioni per la
salute mentale emergono alcune significative somiglianze con le tecniche
difensive dei sistemi di cura negli ospedali generali: in entrambi gli ambiti
esiste una tendenza di base al distanziamento emozionale. Tuttavia, nei
contesti psichiatrici, i metodi per prendere questa distanza (le tecniche
difensive), le ansie e i sottostanti atteggiamenti culturali che sembrano
dominare la vita della Comunità sono completamente diversi. L'approccio alla
cura di una persona mentalmente malata è molto particolare perché, in un certo
senso, la sofferenza è "localizzata" nella sua personalità. La
possibilità di dirottare l’attenzione sull’accudimento del corpo o di una parte
di esso, non è un’opzione prevista, come
avviene di consueto in un ospedale generale. Inoltre, sembra esserci una
rilevante differenza nel tipo di ansia: mentre nel reparto di medicina l’ansia
critica è che qualcuno muoia, nel contesto psichiatrico l’ansia è la paura
della follia. Si potrebbe dire che la follia è una specie di morte della mente. E in effetti alcune
delle cure sembrano dedicarsi a riportare alla vita certi aspetti della
persona, specialmente i suoi interessi sociali che spesso sembrano soccombere.
Tuttavia, ciò che mi ha colpito nella lettura di questo testo, è
un'affermazione che credo abbia molti punti di contatto con la nostra realtà,
in particolare rispetto a questa situazione specifica che vi ho descritto. In
uno degli studi si pone in rilievo come gli sforzi fatti dal personale per
rivitalizzare la vita del reparto e le relazioni interpersonali venissero
vanificati dal personale stesso. Questo fatto singolare sembrava motivato da
una paura fondata su un atteggiamento verso la vita, piuttosto che verso la
morte. In relazione con lo studio di Donati, (1989), Hishelwood ha postulato
che un atteggiamento culturale inespresso avesse assunto la forma di un mito
con queste caratteristiche:
"qualunque interazione
vitale porterà a un'espressione di follia. È la vitalità a essere temuta, non
la morte."
Il nostro referendum, tuttavia, aveva avuto esito
positivo. Questo risultato, a mio avviso, dimostrava che i residenti sentivano
di poter correre il rischio e che quindi si sentivano sufficientemente tutelati
all’interno della Comunità.
Il ristorante iniziò a prendere vita; la metà dei
residenti di tutte le strutture partecipò attivamente nell’organizzazione e
realizzazione di questo progetto e tutte le risorse della Comunità a poco a
poco si mobilitarono per sostenere concretamente la nascita di questa nuova
attività.
Furono
svolti dei colloqui di lavoro per valutare le competenze e le attese dei
residenti, e furono organizzare delle giornate di stage per avvicinarli alla
pratica lavorativa. Contemporaneamente all'intensificarsi di queste attività,
furono incrementati i gruppi di sostegno e i colloqui terapeutici per elaborare
e integrare i movimenti intrapsichici e relazionali suscitati nei pazienti dal
confronto con una realtà nuova.
Anche la lettura recente di un lavoro di Roger Kennedy
mi ha fatto pensare a come la nostra Comunità abbia appreso e rielaborato
aspetti fondamentali della cultura inglese, cercando di coniugarli con i propri
bisogni e valori di riferimento. Mi riferisco a un modello di Comunità che
"mette a disposizione un setting in cui si può dedicare attenzione a
quelle attività quotidiane che molti considerano ovvie e che rivestono invece
una grande importanza sia per risvolti intrapsichici che per quelli “esterni”;
attività nelle quali convergono le esperienze passate, le aspettative attuali e
la realtà esterna, e sulle quali possono focalizzarsi la psicoterapia e le cure
psicosociali. Avvenimenti quali cucinare, mangiare, nutrire, pulire, giocare,
lavorare possono divenire mezzi per analizzare le ragioni del crollo in
famiglie o individui affetti da disturbi psichici, oltre che permettere ai
nostri pazienti di riscoprire le loro capacità. Le attività quotidiane sono
sovente cariche di emozione e conflitto per questi pazienti, ma forniscono il
materiale che diviene poi uno dei principali agenti di trattamento e, si spera,
di cambiamento e trasformazione."
Torniamo ai tavoli del ristorante, dunque... L'attività
fu portata avanti con grande impegno per tutta l’estate con risultati positivi.
Per valutarne più obbiettivamente l’esito pensai di proporre sia ai colleghi
che al gruppo dei residenti un sondaggio attraverso il quale si chiedeva loro
di valutare l’esperienza e se fossero d’accordo sull'ipotesi di riproporla
l'estate successiva.
La maggior parte degli ospiti espresse parere positivo,
mentre solo cinque di loro portarono un parere contrario: una persona
denunciava di sentirsi a disagio, e due esprimevano dispiacere per aver dovuto rinunciare al boschetto nei
momenti di apertura del ristorante.
Quasi tutti i colleghi espressero una valutazione
positiva: condividevano l’idea di aprire la Comunità all’esterno e di offrire
un’esperienza e una possibilità di sperimentazione e risocializzazione per i
pazienti, in un ambito protetto supervisionabile dagli operatori. Inoltre
rilevarono che erano stati rispettati i confini della Comunità (riducendo il
senso d’invasione) e che vi era stata una buona partecipazione da parte degli
ospiti, non solo di chi svolgeva un tirocinio lavorativo, ma anche da parte di
quelli che sceglievano di vivere uno spazio di piacere, ad esempio recandosi a
cenare al ristorante in piccoli gruppi.
Ci fu una sola valutazione totalmente negativa, motivata
dalla considerazione che una sperimentazione lavorativa doveva necessariamente
avvenire in un ambiente esterno alla Comunità. Sei risposte invece prendevano
in considerazione aspetti positivi e critici: tra questi la gestione troppo
delegata all’esterno (al ristoratore), il fatto che fosse più opportuna
l’apertura di un'attività all'esterno dalla Comunità, e l'impressione che si
fosse trattato di un’esperienza a tratti stressante per i residenti, che
dovevano confrontarsi con ritmi serrati.
Il superamento, dunque, dell’ansia e della paura ha
permesso di ritrovare una pulsione vitale che ha promosso lo sviluppo di una
serie di iniziative e di idee successive.
Tuttora, un nuovo sguardo meno
impaurito e più vitale, ci sta permettendo di prestare più attenzione alle
potenzialità degli ospiti, agli aspetti sani e alle loro capacità su un piano
relazionale, emotivo, cognitivo e lavorativo, favorendo una maggiore
integrazione e un maggior grado di armonia tra gli aspetti disfunzionali e le
competenze degli ospiti.
In conclusione, prendersi cura dell'anima della casa,
interpretarla, significa anche custodirne lo spirito originario. Questo bisogno
fondamentale della comunità può generare un sistema di difese che ostacolano la
creatività e il cambiamento. Il fatto di reinterpretare creativamente questo
spirito originario, anche attraverso l'introduzione di nuove attività o
iniziative, è un segnale di vitalità della comunità che può suscitare angoscia
e preoccupazione in quanto, come abbiamo visto, vitalità, paura della follia e
morte sono categorie non così facilmente distinguibili in un'istituzione che
accoglie la sofferenza psichica. L'aver svolto in passato funzioni di cura in
comunità, così come il fatto di aver potuto lasciare questo compito ad altri
continuando rivestire un ruolo cardine al suo interno, mi ha probabilmente
aiutato ad affrontare questa complessità con un atteggiamento più costruttivo e
fiducioso. Spero vivamente di essere riuscita - condividendo con voi queste
riflessioni - a rendere l'idea dell'importanza che la Comunità Il Porto ha
riservato e sta continuando a riservare alla cultura dell'indagine come
elemento imprescindibile per affrontare la complessità.
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Rivista ufficiale della Comunità Terapeutica IL PORTO onlus
www.terapiadicomunita.org
Rivista ufficiale della Comunità Terapeutica IL PORTO onlus
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