PROCESSI TERAPEUTICI NELLA COMUNITÀ ALLOGGIO E NEL GRUPPO APPARTAMENTO DEL PORTO ONLUS.
AUTORITÀ E HOLDING PER PROMUOVERE CRESCITA INDIVIDUALE E MENTALIZZAZIONE.[1]
Anno 13, n. 56, Dicembre 2013
Marta Abbondanza, Matteo Biaggini, Alessandro Cerutti, Palmina Mucci, Francesco Nicola Pirisino, Alessandra Verardo [2]
La grandezza non conta. Guarda me: giudichi forse me dalla grandezza? Non dovresti farlo infatti, perché mio alleato è la Forza[3], ed un potente alleato essa è!
Yoda, Grande Maestro Jedi
1. Introduzione
Il
nostro contributo si propone di descrivere come sia possibile
realizzare un intervento terapeutico di comunità, psicodinamicamente
orientato, per sostenere e incrementare i processi maturativi
nell’individuo, e il suo reinserimento sociale e lavorativo, in
un’organizzazione con un grado di media intensità terapeutica, media
protezione, e alta competenza dell’équipe. Nel fare questo, abbiamo
scelto di mettere in luce la dinamica esistente tra due funzioni che
nella loro reciproca articolazione possono essere immaginate come i due
vettori fondamentali che sostengono questo processo: autorità e holding[4], riferendoci con questo secondo termine all’importanza di tenere nella mente il gruppo dei residenti e le individualità che lo compongono, con efficacia e continuità. Su
uno sfondo così definito, descriveremo quindi l’articolazione del
trattamento, il lavoro clinico dell’équipe curante nei suoi aspetti
psicodinamici e di competenza psichiatrica, la leadership, la dimensione
gruppale e la creatività con la quale è possibile ravvivare le proposte riabilitative.
L’intento
sotteso allo scritto è anche quello di descrivere in che modo l’Unità
di Fase Avanzata (Comunità Alloggio) e La Casa al Centro (Gruppo
Appartamento), si inseriscano in un processo di cambiamento dei
residenti che, nella maggior parte dei casi, viene impostato e sostenuto
inizialmente nelle due grandi unità terapeutiche ad alta protezione del
Porto - l’Unità per Disturbi da Psicosi e l’Unità per Disturbi di
Personalità - che sono in definitiva i nostri principali “invianti”.
Metteremo quindi in luce in che modo sia necessario e anche possibile
favorire dinamiche istituzionali funzionali, svelando e ridimensionando
quelle disfunzionali, per mantenere vivo questo processo di cura che si
regge sull’integrazione e la condivisione di due fasi successive e
consequenziali della terapia di comunità.
2. Caratterizzazioni
della psico-terapia di comunità nella Comunità alloggio e nel Gruppo
Appartamento: una dialettica sostenibile tra materno e paterno.
La Comunità Terapeutica: Holding e Autorità per incrementare i processi di mentalizzazione
La
Comunità Terapeutica si caratterizza da sempre per il fatto di
richiedere ai pazienti il riconoscimento della propria responsabilità
nel percorso di cura, e non può quindi prescindere dal promuovere un
loro autentico coinvolgimento nella terapia. Originando da una premessa
culturale e metodologica di questo tipo, essa si propone di conseguire
il maggiore grado di benessere psichico dei suoi membri, sforzandosi di
coniugare l’esigenza di affrontare problematiche cliniche complesse con
l’obiettivo di promuovere una visione democratica e rispettosa della
cura. L’intento di evitare una concezione impositiva della terapia non
equivale a escludere il concetto di autorità dalla comunità terapeutica,
intesa come “organizzazione sociale per la cura”. Tale proposito
rimanda piuttosto alla necessità di armonizzare con efficacia questo
elemento, in un contesto di terapia che si sforza continuamente di
produrre risposte adeguate ai fenomeni di alienazione che caratterizzano
intensamente questo periodo storico; una fenomenologia del disagio che è
sempre più pervasa da evidenti e estese problematicità, e che sconfina
dalla dimensione strettamente psichica e/o psicopatologica, in un’area
di disadattamento sociale che include anche il ricorso a condotte
antisociali, come evento circoscritto (talvolta anche molto grave), o
come modalità ricorrente del vivere.
Come
può inserirsi, dunque, il concetto di autorità in una visione integrata
e complessa del processo psicoterapeutico, così come viene posto in
essere nelle nostre unità? L’etimologia del termine ci viene in aiuto
per rispondere a questo interrogativo. Autorità deriva dal termine auctor, a sua volta riconducibile al verbo augere auctum,
che significa “accrescere”, “aumentare” e “rafforzarsi”: in definitiva
favorire la crescita. Quindi il campo semantico del termine auctoritas ci
fa capire come questo concetto sia strettamente connesso all’origine,
alla fondazione di un ordine e alla sua durata nel tempo. Vi è però
un’ulteriore radice etimologica del termine, accanto ad auctor e ad augere: è augur,
termine latino che designa colui che pronostica il futuro interpretando
segni attraverso una tecnica che si spinge oltre la dimensione della
quotidianità, e quindi di ciò che è attuale, aprendosi a possibili
cambiamenti e trasformazioni. Si tratta quindi di un concetto che non
può non evocare alcune delle caratteristiche tradizionalmente fondanti
la comunità terapeutica che, per quanto attiene allo specifico della
comunità Il Porto, trovano piena espressione nella funzione delle
diverse unità a residenzialità leggera che accompagnano i residenti all’uscita dall’istituzione.
Nell’introduzione
ad un convegno organizzato dalla nostra istituzione nel 2012, avente
come relatori Robert Hinshelwood e Salomon Resnik, proprio Resnik ci
offre una riflessione sulla polarità materno-paterno, e su come essa
possa declinarsi all’interno della comunità terapeutica:
“Platone nel suo Timeo
suggerisce che tutta la materia o la realtà umana richiedono un
contenitore, un “corpo”. Nel contributo che Cornford dà alla
comprensione del Timeo, egli spiega come Kora significhi camera, ma anche culla, e secondo Platone aveva anche il significato di colei che cura.
Il contenitore primordiale corrisponde quindi all’idea di recipiente.
Personalmente ho appreso che per Platone la funzione di contenimento è
materna, ma la forma di un oggetto o di un essere vivente, il suo ordine
strutturale, dobbiamo nominarlo paterno.”
E ancora:
“Sono
convinto che esistano altre personificazioni del Super-io, che non si
definiscono esclusivamente in quanto dispotiche e critiche, ma che
possono assumere i caratteri di un padre o di una madre che
incoraggiano. A sostegno di questa tesi c’è tutto il lavoro di ricerca
svolto da Melanie Klein su questo tema, che ci autorizza a parlare oggi
di funzioni Super-egoiche paterne e materne. È implicito che la funzione
Super-egoica agisca in svariati modi nella vita normale ed anche nella
patologia psicosociale, nelle sue manifestazioni tipiche di questo
periodo storico: un fenomeno che è inevitabilmente oggetto
dell’intervento messo in atto dalla comunità terapeutica.”
Indubbiamente le nostre unità, aprendosi in modo più sistematico e determinato alla realtà esterna al ventre comunitario[5] incarnano
spontaneamente una funzione tradizionalmente paterna d’incontro con il
mondo. La sfida consiste nell’esercitare questa funzione armonizzandola
con altre che sono fondanti per un approccio psicoterapeutico al disagio
psichico: il bisogno di holding e sostegno, e la valorizzazione delle
risorse individuali come argine ai fenomeni di alienazione cui,
soprattutto i nostri pazienti, saranno sempre esposti nel corso della
propria vita.
Soffermiamoci
ora su alcuni aspetti del nostro intervento che più chiaramente mirano
ad incentivare l’autonomizzazione dei pazienti, e che esercitano una
forza che si contrappone dinamicamente alle difese che possono nel tempo
cronicizzarli nel proprio disadattamento. Tra questi aspetti, eccone
alcuni molto significativi:
· Sviluppare
una relazione più matura con la propria condizione di disagio, in cui i
bisogni di dipendenza e di autonomia trovino un equilibrio e
un’armonizzazione sostenibile.
· Rafforzare la propria tenuta agli eventi stressanti, e fare ricorso a difese e strategie di coping più evolute.
· Emanciparsi
gradualmente dalla dimensione gruppale così avvolgente - che
caratterizza le prime fasi del trattamento in comunità - per assecondare
o coinvolgersi, in modo più convinto, in un processo di individuazione e
di interpretazione autentica e personale della propria vita futura
fuori dall’istituzione.
· Vivere un’esperienza di disillusione tollerabile e funzionale al cambiamento e alla maturazione[6]
A
titolo esemplificativo abbiamo scelto, tra gli altri, quattro obiettivi
del trattamento chiaramente riconducibili a un esercizio dell’autorità
costruttivo, evolutivo e incoraggiante. D’altro canto, una definizione
del concetto di autorità e della sua funzione nel contesto della terapia
di comunità sarebbe incompleta, se non prendessimo in considerazione i
suoi risvolti più problematici e di difficile gestione. Tale
problematicità, inoltre, è innegabilmente determinata anche dalla crisi che ha riguardato e riguarda l’espressione dell’autorità nella fase storica che stiamo vivendo.
Responsabilità,
autonomia, solitudine, richiesta di farsi carico dei bisogni altrui e
inviti ricorrenti a essere franchi e trasparenti, tolleranza della
diversità e del conflitto, rispetto delle regole che sono date dall’alto
ma che anche il gruppo dei residenti si dà, apertura a nuove esperienze
lavorative e sociali: si tratta di ingredienti ineliminabili in questa
fase della terapia, che sono vissuti nella loro ruvidezza e spigolosità,
in quanto estremamente impegnativi. Ci riferiamo quindi a tutti quegli
aspetti che inducono il paziente a ricorrere all’originaria grandiosità
narcisistica[7],
per proteggersi dai sentimenti di inadeguatezza che, nel periodo
conclusivo della precedente fase di terapia in comunità, avevano
opportunamente lasciato spazio ad una germinale autostima e fiducia
verso il futuro.
È
noto a tutti come gli ostacoli alla crescita siano determinabili a una
specifica dinamica conflittuale tra istanze interne, o espressione di
una distorsione nell’identità del paziente, o comunque riconducibili a
un dinamismo psichico che si esprime nella “formazione di un sintomo”.
D’altro canto, oggi i clinici dispongono di un costrutto teorico che li
aiuta a comprendere a fondo le difficoltà dei “pazienti difficili”: ci
riferiamo al concetto di mentalizzazione[8],
che si rivela particolarmente efficace proprio perché integra al suo
interno una visione di deficit e una di conflitto, mettendole
dinamicamente in relazione tra loro. Se in effetti i pazienti sono
evidentemente gravati da un deficit
di mentalizzazione, non riuscendo a rappresentarsi efficacemente il
proprio stato mentale e quello altrui, tale limite si spiega non solo
come deficit strutturale, ma
anche come difesa dal dolore suscitato dal pensare le proprie
esperienze traumatiche. Le carenze sperimentate nella relazione primaria
di accudimento determinano un’alterazione dello sviluppo psichico del
paziente, che da quel momento in avanti si difenderà dal pericolo di
rappresentarsi mentalmente ciò che agisce nella mente del care-giver, in
quanto potenzialmente ri-traumatizzante. L’effetto “paradossale”
consiste in un’esperienza di vita segnata da continue possibili
riattualizzazioni del trauma, e dalle “fughe dissociative” che il
soggetto mette in atto per difendersi da questo, molto spesso ricorrendo
alle sostanze stupefacenti.
Se,
parafrasando Bateman e Fonagy (2006), la terapia di questi pazienti
consiste nel “mettere a disposizione una presenza mentale per
incrementare la mentalizzazione”, allora si può cogliere la relazione
esistente tra holding, insight e mentalisation, individuando
un percorso che attraversa questi diversi momenti, e che originandosi
nelle due Unità principali (Unità per Disturbi da Psicosi e Unità per
Disturbi da Personalità), si concretizza nel passaggio nelle Unità più
piccole e autonome. Se la prima fase di questo percorso si fonda
prevalentemente sull’esercizio di holding, la seconda è certamente
caratterizzata da un potenziamento progressivo delle competenze
mentalizzanti. Da questa prospettiva, i momenti di insight[9]
possono essere immaginati come ponte tra l’holding e la
mentalizzazione, e quindi come propedeutici al passaggio a questa
seconda fase del trattamento in comunità. Al tempo stesso, e non in
contraddizione con quanto affermato, holding e mantalisation rimangono
dinamicamente legati tra loro anche nel qui ed ora della relazione
terapeutica, laddove la tensione verso la mentalizzazione può andare
incontro a momenti di regressione a livelli di funzionamento psichico
inferiori. Ci riferiamo a quei momenti di alterazione dello stato di
coscienza o - utilizzando un linguaggio più affine agli studi più
recenti sul funzionamento della mente - ai fenomeni di regressione a
stati dissociati del sé, che richiedono un efficace intervento di
holding per arginare la frammentazione psichica, e porre le basi per una
ricomposizione delle funzioni mentalizzanti. Al riguardo è molto chiaro
Antonello Correale, quando descrivendo “la funzione a posteriori”
sembra proprio indicare il recupero delle funzioni mentalizzanti in
seguito al momento critico regressivo:
La
funzione a posteriori subentra dopo, cioè quand’è passato l’elemento
turbolento e si è ricostituita una certa possibilità di analizzare
insieme che cosa è successo. “Adesso che sei ritornato tu, puoi anche
provare a chiederti se ti sei accorto che di crisi così ne hai avute
molte altre”. È essenziale distinguere il momento in cui si può fare
questo discorso: una cosa è parlare con una persona che in quel momento è
"dimezzata" e una cosa è farlo quando ha recuperato le sue funzioni,
perlomeno in una certa misura. (2001)
Dall’holding che tiene assieme
la frammentazione del paziente nel momento critico, al recupero della
possibilità di “vedere” e “afferrare” quanto è accaduto (insight), alla
mentalizzazione come ripristino e incremento della possibilità di
attribuire significato all’esperienza e apprendere da questa. Una
sequenza che descrive la progressione individuabile nel percorso
terapeutico nel suo complesso, attraverso le diverse unità in cui il
paziente è ospitato, ma anche nell’orizzonte temporale più ristretto
rintracciabile in ognuna di queste fasi della terapia di comunità.
Ma ritorniamo ai sussulti emotivi che agitano il mondo interno dei nostri pazienti. Nel contesto della terapia - a
maggior ragione una volta che si intraprende questa fase del
trattamento comunitario in ambito di residenzialità leggera –
inevitabilmente si esercitano spinte e pressioni che giungono a
sollecitare soprattutto l’integrità del sé dei residenti più immaturi,
difensivamente aggrappati ad una visione adolescenziale della propria
esistenza, anche quando questa è già andata incontro a vicende che
drammaticamente introducono il ruolo dell’autorità e della legge (ad es.
il t.s.o. oppure il carcere, per citarne solo alcune).
È
significativo che questa risonanza emotiva, intrisa di vittimismo se
non di vera e propria persecutorietà, si attivi in un contesto
relazionale in cui l’équipe non è unilateralmente mossa dalla necessità
di “mettere alla corda” i pazienti, premendo sull’acceleratore
dell’assunzione di responsabilità e dell’esercizio di competenze. Questo
aspetto è certamente presente e caratterizza questa fase del
trattamento in modo evidente, ma è inserito in una visione
psicoterapeutica che prevede anche l’esercizio di una funzione di
contenimento che ha coloriture più materne, e che si concretizza, ad
esempio, nella presenza mentale continua, volta a regolare l’intensità
del trattamento e le sue espressioni. Un aspetto, questo, che è ben
evidenziato dal servizio di reperibilità telefonica, come avremo modo di
vedere più avanti.
Si
comprende, quindi, come l’autorità entri necessariamente in gioco nel
processo di cambiamento, non solo nei suoi risvolti più oggettivi e
inevitabili, ma anche e potentemente attraverso le vicende transferali e
fantasmatiche che la riguardano; anche per queste ragioni essa deve
essere attentamente e continuamente modulata. Solo in questo modo il
paziente è in grado di stabilire e sostenere un rapporto con questa
funzione che lo spinge a crescere ed emanciparsi.
Su
un piano più strettamente clinico, non crediamo sia possibile muoversi
nel terreno della responsabilità, con persone che si sostengono facendo
appello a difese considerevolmente immature, senza immergersi in una dimensione sadica
di aspetti che attengono a categorie quali il dovere, il limite, il
farsi carico delle esigenze dell’altro, l’auto-controllo e il controllo,
la scelta, i legami. Non si può in sostanza evitare il confronto con
distorsioni della struttura di personalità dei pazienti che tendono a piegare l’insieme
di esperienze e vissuti riconducibili a queste categorie, verso una
persecutorietà carica di sofferenza, rabbia e paura. Una scena clinica è
al riguardo assolutamente emblematica:
E.
è un giovane da poco maggiorenne, ha un passato segnato da condotte
turbolente e conflittuali, in famiglia e non solo, che sono sconfinate
in una prematura antisocialità. È ospitato nella nostra unità in un
momento molto difficile del gruppo dei residenti e dell'équipe: i
residenti si stanno organizzando come una sorta di banda delinquenziale
che aveva preso di mira un capro espiatorio da "espellere". L'équipe era
in una fase delicata di riorganizzazione, essendo rimasta
temporaneamente priva della figura del medico psichiatra. C'erano tutte
le ragioni, come si può ben comprendere, per essere seriamente
preoccupati.
Ed
è proprio la critica che E. muove al suo staff di riferimento: "M., sei
troppo serio!". Non molto tempo dopo E. interrompe il suo percorso per
demotivazione, e torna momentaneamente a vivere i suoi giorni
all'insegna della “disperata” grandiosità che lo aveva contraddistinto
precedentemente al suo ingresso in comunità, e che spesso lo faceva
sconfinare nell'antisocialità vera e propria. Successivamente veniamo a
conoscenza del fatto che ha ripreso un percorso riabilitativo in un contesto diverso rispetto alla nostra comunità terapeutica.
Alcuni
anni dopo E. telefona in comunità chiedendo di parlare con il suo
ex-staff di riferimento. Sta vivendo una vicenda oggettivamente dolorosa
e, alla luce della sua storia di vita abbandonica, profondamente
significativa; è deluso e disperato, e chiede in lacrime: "ti rendi
conto di come mi posso sentire in questo momento, ancora una volta?"
L'episodio
mette in luce, nel confronto tra due diversi momenti, come l’esperienza
che si fa dell’autorità e della propria responsabilità, ed anche del
proprio “bisogno di empatia”
sia inevitabilmente segnata anche da evidenti ambivalenze, insofferenze
e contraddizioni, che diventano oggetto della terapia ed entro un certo
limite richiedono di essere accolte. A quanto pare E., in un momento molto delicato della propria vita, cerca una persona sufficientemente seria da poter comprendere seriamente
- potremmo dire anche autenticamente - il momento che sta vivendo. E la
identifica proprio in colui che aveva così aspramente criticato due
anni prima perché "era troppo serio". È proprio questa serietà
- che incarna l'importanza che riconosciamo alla responsabilità, al
rispetto delle regole e dell’Altro, che a due anni di distanza sembra
essere riconosciuta come un valore. Al tempo stesso, quella serietà,
in quel momento, era vissuta dal paziente come un aspetto
insostenibile. Egli ci stava inconsapevolmente indicando che non può
esserci terapia, e quindi assunzione di responsabilità e autorità, se
non avviene una sintonizzazione efficace con il paziente. E, non ultimo,
stava sottolineando come entri in gioco il corpo nella relazione, anche e soprattutto in comunità terapeutica, e come il viso possa
rivelare stati d’animo che pur essendo congrui e dotati di senso nella
mente del terapeuta, non sono necessariamente sostenibili e pensabili
dalla mente del paziente in quel dato momento.
Crediamo
che la maturità di un’équipe risieda anche nella capacità di tenere
assieme i due vertici del problema, - ovvero il confronto con l’autorità
come elemento che favorisce la crescita da un lato, e la capacità di
accogliere il limite del paziente dall’altro - senza oscillare tra
l’autoritarismo, e la perdita di autorevolezza e fiducia nel
trattamento.
D’altro
canto, ogni riflessione, anche quella più strettamente clinica, che
prenda in considerazione i modi possibili, o gli ostacoli, che entrano
in gioco nella possibilità di costruire un’alleanza terapeutica con i
nostri pazienti, non può prescindere da un’analisi del mondo in cui
questi, i curanti, e la comunità terapeutica sono immersi. In un
illuminante saggio dal titolo “L’epoca delle passioni tristi”, gli
autori Migule Benasayag e Gèrard Schmit ci offrono acute riflessioni
sulla natura della crisi che tutti – pazienti e terapeuti – devono
fronteggiare. Crisi che, inevitabilmente, è anche riferibile alle figure
di autorità.
“ci
troviamo spesso ad affrontare delle situazioni tragiche (e comiche allo
stesso tempo), dovute alla mancanza di un contesto familiare
strutturante, che porta l’adolescente a tentare, come diciamo in gergo,
di “farsi il suo Edipo con la polizia”: il giovane che deve esplorare la
sua potenza, sperimentare i limiti della società, che deve insomma
affrontare tutte le funzioni tipiche dei riti di passaggio
dell’adolescenza occidentale, non trovando un quadro familiare
sufficientemente stabile, sposta la scena nella città, nel quartiere....
Nello
spazio familiare, le trasgressioni e i conseguenti richiami all’ordine
sono normali nel corso dell’educazione, e costituiscono una sorta di
gioco tra desiderio e principio di realtà. Ma trasportate nei quartieri,
le trasgressioni perdono la loro dimensione simbolica e ludica, e
diventano semplicemente dei reati, punibili dalla società. (2005)
Un contesto familiare strutturante, come sfondo per la realizzazione di processi psicoterapeutici, nel quale l’autorità si inserisce non come reazione autoritaristica alla dimensione caotica, disperante e autolesionistica ben rappresentata dai nostri pazienti più problematici, bensì
come incoraggiamento e accompagnamento verso un atteggiamento più
maturo a fronte della problematicità della propria esistenza. Senza
dubbio ci sentiamo di definire in questi termini ciò che da anni
cerchiamo di realizzare nelle varie Unità della nostra comunità, ed in
modo particolare in quelle che preludono all’uscita. Tuttavia, ci appare
evidente come la sana ambizione di promuovere un cambiamento in un contesto familiare strutturante
così definito, fronteggi una difficoltà aggiuntiva determinata dal
fatto che questa struttura è ormai orfana di una funzione paterna
autorevole che prescinda sia noi che i pazienti, ovvero di uno sfondo
valoriale e di senso che sia in qualche misura condivisibile, seppur da
prospettive così distanti. È come se questa funzione debba essere
ri-creata, nutrita e preservata ripetutamente e continuamente,
recuperando e mantenendo un’autorevolezza che poggia su valori che non trovano più spontaneamente riscontro
nella realtà in cui il microcosmo comunitario è immerso. Il
disorientamento non è più confinato nei nostri pazienti, e non è solo
arginabile con le nostre competenze: è una perdita di senso che
attraversa ogni aspetto della realtà, e che continuamente ci interroga.
Un aspetto che, probabilmente, richiede di essere decifrato e affrontato
rifacendosi a paradigmi diversi, per quanto integrabili e non in
antitesi tra loro.
Anche in questo consiste la nostra sfida, ovvero nel rendere rappresentabile ai
pazienti che ciò che ci sforziamo di realizzare in comunità ha un
nucleo di senso che potranno rintracciare - nonostante tutto - in
futuro, nella propria storia, come alternativa vitale alla condizione di
alienazione in cui sono stati costretti, e nella quale hanno anche
scelto di rifugiarsi. Per essere credibili in questa impresa, dobbiamo
aver maturato una rappresentazione del mondo e un rapporto con il mondo
che ci permetta di sentirci autorevoli nella proposta che facciamo ai
nostri pazienti. A prescindere da quale sarà la loro scelta.
L’importanza del legame.
Esiste
un’altra forma di “fraintendimento” che entra in gioco nella relazione
con i pazienti, e che frequentemente è oggetto di riflessione e
confronto con loro, sulla quale ci sembra opportuno soffermarci. Ci
riferiamo alla dinamica esistente tra il soddisfacimento dei propri
bisogni di autonomia, e i legami. Ancora Benasayag e Schmit (2005) ci
aiutano a definire i contorni del problema: prendendo spunto da quello
che potrebbe essere il motto dell’attuale ideologia dominante
nell’ambito del lavoro terapeutico e medico-sociale, ovvero “lavorare
per l’autonomia delle persone”, gli autori scelgono di ricordarci – un
po’ provocatoriamente – come si esprimeva Aristotele al riguardo:
“Aristotele,
contraddicendo il senso comune, spiega che lo schiavo è colui che non
ha legami, che non ha un suo posto, che si può utilizzare dappertutto e
in diversi modi. L’uomo libero invece è colui che ha molti legami e
molti obblighi verso gli altri, verso la città e verso i luoghi in cui
vive”
I
due autori intendono mettere in luce lo sbilanciamento che si crea per
via dell’enfasi posta sull’autonomia e sulla forza anche in ambito
psicoterapeutico. È loro opinione che tale atteggiamento rischi di
confermare in molti casi il fallimento dei pazienti, riaffermando la
loro dipendenza e incapacità. Le vicende dei nostri pazienti sono tutte
inevitabilmente segnate da legami e rapporti che hanno generato
insicurezza e smarrimento, a prescindere dalle responsabilità in gioco.
Anche per queste ragioni, essi non sono spesso in grado di mentalizzare
(o rappresentarsi) un’esperienza del legame che non oscilli tra
idealizzazione e svalutazione. Spesso, nel nostro “contesto familiare strutturante”, la nostra visione
dei legami e della loro funzione, che inconsapevolmente richiama
l’interpretazione di Aristotele, viene vissuta alla luce dei suoi
risvolti persecutori e giudicanti. Dalla nostra prospettiva, avere dei
legami e prendersene cura, intende alimentare uno sfondo di fiducia e
sicurezza che è il terreno sul quale promuovere libertà e autonomia.
Dalla prospettiva di una discreta parte dei residenti, è un’imposizione
autoritaria e un disconoscimento delle loro potenzialità, e non di rado
viene etichettata come controllo.
Si crea quindi una divaricazione tra un’autorità che intende
incoraggiare e promuovere una maturazione che non si limiti
esclusivamente al rafforzamento dell’Io, bensì ad un miglioramento
sostenibile della condizione di vita dell’individuo, attraverso una
valorizzazione e una manutenzione dei legami e delle affinità elettive,
ed i pazienti che tendono a rifugiarsi in una rassicurante e
persecutoria (i paradossi del sintomo…) percezione dell’altro in quanto
autoritario e infantilizzante. Anche in questo caso la distorsione di significato che affrontiamo ha un’origine duplice: affonda in una patologia che è frequentemente ascrivibile ad un contesto familiare de-strutturante,
ma anche ad un contesto sociale caratterizzato diffusamente dalla
perdita delle certezze, in cui la dipendenza è ormai connotata quasi
esclusivamente in termini negativi e fallimentari. La deriva, che ci
troviamo a dovere energicamente contrastare, è una forma di dipendenza
rabbiosa e senza speranze, che rende difficile immaginare la possibilità
di uno scambio vitale autentico. Non è superfluo ricordare, ancora una
volta, come la costruzione e la manutenzione dei legami - che non può
eludere l’esperienza dell’autorità e della responsabilità - si trova a
fare i conti con un deficit strutturale nei nostri pazienti, il cui
“tessuto psichico”, ossia la trama psichica con la quale è possibile
integrare le proprie esperienze senza rifugiarsi difensivamente in stati
dissociati della mente, è fortemente compromessa. La disponibilità mentale dell’équipe, il suo tenere nella mente i pazienti, corrisponde al fornire loro i filamenti
per integrare questa trama psichica, promuovendo e rafforzando la
mentalizzazione, così che possano fare un’esperienza del vivere che non
sia nuovamente e inevitabilmente traumatizzante.
Ci
sembra importante mettere in luce questi aspetti, che caratterizzano
così significativamente lo sfondo psichico e sociale in cui ci troviamo a
lavorare con i pazienti, perché nell’asimmetria che
inevitabilmente entra in gioco nella relazione tra l’équipe terapeutica e
i residenti, queste tematiche sono spesso vive e presenti, e richiedono
di essere gestite facendo appello a tutte le proprie competenze
psicoterapeutiche, ma anche ad una sufficiente chiarezza sulla natura
della crisi in cui tutti siamo immersi, che è anche crisi delle figure di
autorità. Una crisi che si riverbera sul destino della comunità,
implicitamente rivalutandone il valore della testimonianza se, come
afferma senza mezzi termini Massimo Recalcati:
“Il
padre che oggi viene invocato non può essere il padre che ha l’ultima
parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo
un padre radicalmente umanizzato, vulnerabile, incapace di dire qual è
il senso ultimo della vita, ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso”. (2013)
3. L’Unità di Fase Avanzata (Comunità Alloggio). Descrizione e organizzazione del trattamento.
Collocata
nel sottotetto della villa principale, in un confortevole alloggio,
l’Unità ha un’organizzazione che prevede la condivisione di
responsabilità e di autorità secondo un modello familiare, con
l’assegnazione di compiti e attività orientati alla riappropriazione di
abilità e all’autonomizzazione dei residenti.
L’équipe e il contesto
L’équipe
si compone di 5 psicologi, di cui uno responsabile dell’unità, e di un
medico psichiatra referente clinico. Tutti i componenti del gruppo di
lavoro sono anche psicoterapeuti o si stanno formando per diventarlo.
Gli psicologi forniscono una copertura oraria dal lunedì al venerdì,
dalle 10.00 alle 20.30. Una reperibilità telefonica è disponibile,
quando gli operatori non sono presenti nell’unità, nell’arco delle 24
ore 7 giorni su 7: permette ai residenti di contattare un operatore per
consultarsi in caso di difficoltà, traendone aiuto e sostegno, ed è un
servizio importante per mantenere attiva un’efficace comunicazione trai
pazienti e l’équipe. Il medico psichiatra, psicoterapeuta, è presente in
due giorni della settimana per un totale complessivo di 5 ore. In
totale l’unità offre 100 ore settimanali di presenza degli operatori, e
può ospitare fino a 7 pazienti.
Tutte
le attività giornaliere sono organizzate e distribuite secondo un
modello familiare, con condivisione dei compiti e delle responsabilità.
Definizione dei Progetti di Reinserimento e analisi delle risorse.
I
progetti di reinserimento possono differire in modo significativo da
caso a caso in relazione all’insieme complessivo delle risorse,
personali e non, di cui il paziente dispone al momento del trattamento e
successivamente alle dimissioni. Con il termine risorse intendiamo
riferirci a una complessità di fattori la cui attenta valutazione è alla
base di una progettazione realistica e ben calibrata del progetto di
reinserimento all’esterno della comunità. Nel momento in cui il paziente
viene inserito a tutti gli effetti nella nostra unità, viene stipulato
un nuovo contratto in cui vengono definiti con chiarezza gli elementi
del progetto terapeutico e gli obiettivi condivisi dal paziente e
dall’équipe.
Le variabili da analizzare al fine della progettazione del trattamento sono le seguenti:
· L’inquadramento diagnostico
· Il grado di compensazione psichica raggiunta dal soggetto
· I cambiamenti maturativi realizzati dal paziente nella precedente fase di trattamento.
· La motivazione al trattamento.
· Il quadro complessivo delle abilità pratiche, relazionali, lavorative.
· Le competenze sviluppate in termini di mentalizzazione e controllo degli impulsi
· L’insieme delle difese cui fa ricorso il soggetto e il grado di maturità delle stesse.
· L’autonomia economica ed abitativa di cui dispone il soggetto
· Le risorse impiegabili dal servizio inviante nella presa in carico successiva alla conclusione del percorso.
· Le
caratteristiche attuali del nucleo familiare, e i risultati conseguiti
attraverso gli incontri di consulenza familiare, durante la precedente
fase del trattamento, nelle due principali unità della comunità (Unità
per Disturbi da Psicosi e Unità per Disturbi di Personalità).
Reinserimento sociale e lavorativo.
L’équipe
si occupa in modo specifico di progetti di reinserimento nella vita
sociale, familiare, lavorativa, con il maggiore equilibrio possibile e
sostenibile per la persona. All’interno dell’unità, i residenti si
occupano in autonomia della preparazione dei pasti, delle pulizie
quotidiane e della spesa settimanale. La gestione del denaro diviene
progressivamente autonoma, così come l’assunzione della terapia, con
modalità diverse a seconda dei casi.
Tutti
i residenti sono impiegati in tirocini lavorativi, che in gran parte si
svolgono all’esterno della comunità, in contesti diversi (ristorazione,
associazioni, ecc.). I tirocini sono finalizzati alla riacquisizione di
competenze lavorative e sociali, e sono finanziati da donazioni che la
comunità riceve dalle Fondazioni San Paolo e CRT. Un membro dell’équipe
progetta e supervisiona ogni inserimento lavorativo.
Lo
spazio riservato ai gruppi terapeutici è ridotto, rispetto alle due
grandi unità della comunità, proprio perché i residenti possano disporre
del tempo necessario da dedicare al lavoro e alla vita all’esterno.
Terapia
L’intervento
terapeutico integra la dimensione individuale e quella di gruppo,
secondo un modello ampiamente condiviso, finalizzato a incrementare
l’efficacia del trattamento.
a) La terapia individuale
Lo
psicologo di riferimento del paziente è la figura che porta avanti
questo aspetto del trattamento, regolando l’intensità e la natura
dell’intervento in funzione delle caratteristiche del soggetto e degli
obiettivi del progetto di reinserimento. In pazienti con aspetti di
fragilità psicotica, o con aspetti di debolezza dell’Io, il lavoro è
prevalentemente supportivo e finalizzato al contenimento dell’ansia
suscitata dalla convivenza in un piccolo gruppo in condizione di
significativa intimità.
In
pazienti più strutturati l’intervento potrà prevedere un’esplorazione
intrapsichica più estesa e approfondita, finalizzata ad una ulteriore
comprensione delle modalità relazionali utilizzate dal paziente in
gruppo, nel contesto familiare, sociale e lavorativo.
Lo
sviluppo delle competenze mentalizzanti è l’obiettivo comune a tutti i
progetti individuali, calibrato in funzione delle caratteristiche
specifiche di ogni paziente.
In
termini più generali, la natura dell’intervento potrà avere, a seconda
dei casi, caratteristiche prevalentemente psicoedeucative, o rivestire
finalità più esplicitamente terapeutiche, quando ambisce a promuovere un
cambiamento più profondo nel paziente. In alcune circostanze potrà
mirare a costruire una concreta motivazione e disposizione nel soggetto a
intraprendere una vera e propria psicoterapia dopo le dimissioni, se
esisteranno le condizioni minime indispensabili, anche economiche,
perché questo possa realizzarsi.
b) I Gruppi
Nell’arco
della settimana si svolgono due gruppi. Come detto, la frequenza dei
gruppi è sensibilmente minore rispetto alle due Unità ad alta protezione
della comunità (Unità per Disturbi da Psicosi ed Unità per Disturbi di
Personalità ), così da non interferire con la necessità dei residenti di
dedicare tempo al lavoro o alla formazione in ambiti esterni alla
comunità. Il gruppo
organizzativo, che in passato era condotto dagli operatori, è stato
sostituito da un momento di riunione autogestito dai residenti, che si è
rivelato più funzionale al mantenimento di un atteggiamento attivo e
propositivo.
I due gruppi terapeutici assolvono alle seguenti finalità di base:
· Creare
e preservare un’atmosfera di gruppo che faciliti nei membri
l’espressione e il riconoscimento degli affetti e dei vissuti, anche in
relazione agli altri componenti del gruppo, senza che questo venga
vissuto come un attacco all’integrità del Sé.
· Rendere
i membri consapevoli delle dinamiche che governano il gruppo, dinamiche
le quali, se non affrontate, possono frequentemente compromettere il
clima relazionale fino a renderlo difficilmente tollerabile nel lungo
periodo.
· Favorire
nei membri una maggiore attenzione e consapevolezza, rispetto al modo
in cui si manifestano e riattualizzano, nelle interazioni gruppali,
aspetti del proprio mondo interno, così da divenire progressivamente più
adattabili e meno inclini a ripetere gli stessi pattern relazionali una
volta usciti dalla comunità.
· Condividere
e discutere situazioni problematiche comuni in questa fase del
trattamento (gestione dei momenti di vuoto, gestione della crisi,
resistenza a movimenti regressivi nel gruppo), prendendo in
considerazione possibili strategie di coping e di risoluzione di
problemi, adeguate ad ogni situazione.
Lo
psicologo di riferimento orienta il lavoro terapeutico con il paziente,
integrando con continuità e coerenza il piano individuale con quello
gruppale. Il fine è quello di promuovere e consolidare una funzione
autoriflessiva e mentalizzante, attraverso l’esercizio di automonitoraggio e self-agency[10]: un obiettivo fondamentale e indubbiamente gravoso, se consideriamo la fatica e il dolore che può comportare il fatto di farsi carico
delle proprie scelte e del proprio disturbo, in pazienti che hanno alle
spalle esistenze gravemente segnate da vicende traumatiche, nel corso
delle quali è stata agita un’ingente distruttività.
c) Per Quali Pazienti?
In
Unità di Fase Avanzata il gruppo dei residenti è sensibilmente
responsabilizzato e autonomizzato relativamente al buon esito del
percorso di cura. Per queste ragioni i pazienti che ne entrano a far
parte devono possedere risorse che compensino adeguatamente gli aspetti
di fragilità e dipendenza, così da non costituire un peso insostenibile
per il gruppo stesso. Indubbiamente, un fattore favorevole per il buon
esito del percorso nell’unità è l’esistenza di un’indicazione
progettuale che indirizzi fin dall’inizio il reinserimento all’esterno
della comunità.
Quali
sono invece gli elementi problematici che potrebbero costituire una
controindicazione all’inserimento? Proviamo ad elencarne alcuni:
- Disposizione a stabilire rapporti parassitari con il gruppo
- Impossibilità a sostenere le sollecitazioni emotive suscitate dalla convivenza in appartamento
- il persistente abuso grave di droghe, alcool e farmaci
- tentativi di suicidio realizzati nell’ultimo periodo o in modo compulsivo.
- tratti di personalità di impronta gravemente persecutoria o tendenza ricorrente a sviluppare vissuti di questo tipo.
- Pazienti
non sufficientemente organizzati e deficitari, a tal punto da
sviluppare una dipendenza eccessiva o imprescindibile da un Io
ausiliario.
Per
quanto riguarda la valutazione del paziente in vista di un possibile
inserimento, riteniamo fondamentale prendere in considerazione una
complessità di elementi a favore e a sfavore dell’ipotesi d’ingresso. Ad
esempio, in un paziente la propensione all’isolamento e all’essere poco
partecipe alla vita del gruppo non rappresenta necessariamente una
controindicazione all’inserimento, ma lo rende certamente difficilmente
integrabile se coesiste con una tendenza evidente a disattendere gli
impegni e a trasgredire, perché questo contribuisce ad aumentare i
vissuti di rabbia e insicurezza nel gruppo. Al contrario, un paziente
che non abusa di sostanze e non ha condotte di natura antisociale, anche
se tendenzialmente passivo e ritirato, può rappresentare una risorsa in
un gruppo che viene sensibilmente responsabilizzato rispetto alla
necessità di mantenere l’ordine e la sicurezza dei suoi componenti. Al
tempo stesso, alcune manifestazioni autolesionistiche di natura
impulsiva e provocatoria (ad esempio il tagliarsi o ricorrere ad abuso
di alcool e altre sostanze in modo non compulsivo) vanno sempre valutate
alla luce della natura del rapporto che il residente stabilisce col
gruppo e con la struttura: se il paziente, di base, ha un atteggiamento
autenticamente collaborativo e partecipe, il gruppo sarà in grado di
assorbire più facilmente i momenti di crisi. Al contrario, in pazienti
che tendono a stabilire un rapporto di dipendenza immatura e
parassitaria, le crisi portano a un lento processo di logoramento che
sovente esita con le dimissioni del paziente, e in alcuni casi può
indurre una deriva regressiva e deresponsabilizzante nel gruppo.
Un
altro fattore in gioco di indubbia importanza è la leadership. In un
gruppo così ristretto, la presenza di un leader negativo può generare
situazioni estremamente difficili e di grande invivibilità. Al contrario
una leadership positiva, che incarni i valori fondamentali della
comunità, è senza dubbio un elemento di sicurezza che permette di
arginare i movimenti di gruppo più regressivi o disgreganti.
I
pazienti autori di reato rappresentano una casistica specifica, alla
quale vengono però applicati gli stessi criteri valutativi. L’esperienza
che il Porto ha maturato nel corso degli anni nel trattamento di questi
pazienti, ha ulteriormente messo in luce la necessità di valutare la
condotta antisociale nel contesto del quadro clinico, e anche in
relazione alla condizione di vita nella quale si trovava il soggetto al
momento del reato. Di norma il reato si genera nel contesto di un quadro
clinico grave, in stretta connessione con uno stato di serio scompenso
psichico. La stabilizzazione clinica del paziente in seguito al reato, è
una condizione di base necessaria perché possa essere inserito nel
setting comunitario, dopo un periodo di custodia in O.P.G., o in seguito
al trasferimento dal carcere. Dopo l’assessment diagnostico iniziale
realizzato dal Servizio Accettazione, viene definito un progetto
terapeutico in carico ad una delle due grandi unità ad alta protezione,
nel corso del quale potranno crearsi le condizioni per progettare una
seconda fase di trattamento nella comunità alloggio. Evidentemente con
questo non s’intende ridimensionare la gravità del reato, tutt’altro: il
nostro obiettivo e definire e realizzare condizioni di cura che
ridimensionino e stabilizzino ancor più il quadro clinico, con
un’attenzione specifica riservata agli aspetti psicopatologici e
personologici che furono da sfondo alla condotta antisociale. Con
un’impostazione di questo tipo, sarà anche possibile investire sugli
aspetti più sani del paziente, che potranno trovare nel trattamento in
ambito di residenzialità leggera un successivo momento di verifica e di
consolidamento. Il fatto che non vi sia sempre una stretta correlazione
tra la gravità del reato, e le caratteristiche che favoriscono un
passaggio nell’Unità di Fase Avanzata, trova riscontro in una casistica
opposta a quella descritta, ad esempio in quei casi di grave disturbo di
personalità in cui l’antisocialità viene messa in atto occultamente,
non di rado dissimulata da una fittizia adesione al trattamento.
Pazienti con tali caratteristiche, in passato, possono essere entrati
solo marginalmente in conflitto con la legge esterna, e non dovrebbe
destare stupore il fatto che non abbiano procedimenti penali a carico.
Tuttavia, sono persone la cui condotta va attentamente monitorata,
essendo potenzialmente improntata allo sfruttamento e in casi limite al
sadismo. Per queste ragioni, sono difficilmente integrabili in un’unità
nella quale i residenti sono chiamati a farsi carico della sicurezza e
del rispetto delle regole, in assenza degli operatori.
Alla
luce dell’esperienza maturata in questi anni di lavoro, ci sembra
infine essenziale sottolineare un aspetto che incide fortemente
sull’esito del percorso dei nostri pazienti. Il passaggio in U.F.A.
implica inevitabilmente la rinuncia ad un insieme di vantaggi secondari e
la necessità di maturare un atteggiamento più responsabile e meno
passivo nei confronti del proprio disagio. Questo è senza dubbio uno dei
risvolti del processo di responsabilizzazione che implica più fatica
per il residente e che, in alcuni casi, può determinare un movimento
regressivo. In questo senso, questa fase del percorso di cura
rappresenta un momento di verifica fondamentale, non solo rispetto alle
abilità e ai cambiamenti maturati dal paziente precedentemente, ma anche
rispetto alla sua effettiva disponibilità e capacità di coinvolgersi in
una relazione terapeutica caratterizzata da una dipendenza più matura e
da minore passività.
4. Dalla comunità alloggio al Gruppo Appartamento “La Casa al Centro”.
Descrizione, organizzazione e finalità terapeutiche.
Storia, contesto e organizzazione del trattamento
L’aver
definito con sempre maggiore chiarezza, nel corso degli anni di lavoro,
gli obiettivi, le modalità e le possibili evoluzioni della fase di
trattamento comunitario in Unità di Fase Avanzata, ha fatto sì che
prendesse gradualmente forma una nuova prospettiva terapeutica per i
nostri residenti. La “Casa al Centro”, inaugurata nell’ottobre del 2011,
nasce con l'intento di offrire ai pazienti un'ulteriore possibilità di
convivenza abitativa in condizioni di maggior autonomia. Si tratta di un
appartamento che può accogliere fino cinque residenti tra coloro che
hanno portato a termine il percorso terapeutico nell’Unità di Fase
Avanzata, o che sono stati ospitati nella stessa unità per essere
oggetto di un adeguato periodo di valutazione. La scelta del nome non è
casuale: rimanda sia alla collocazione fisica della Casa, nel centro
storico della Città di Moncalieri e non distante dalla sede centrale
della comunità, ma anche al rapporto particolare che si crea tra i
pazienti e il luogo che abitano. Come abbiamo visto, in Unità di Fase
Avanzata il paziente è collocato al centro di una casa-alloggio di medie
dimensioni, a sua volta posta nel centro dell'area della comunità, e in
questo contesto meno istituzionale inizia a fare un’esperienza di
convivenza che lo accompagna verso un reinserimento all'esterno; nel
passaggio al Gruppo Appartamento, la casa - con tutto ciò che questa
determina per l'individuo in termini di relazioni, responsabilità e cura
- diviene gradualmente un elemento al centro
della vita della persona. Sono quindi incrementati i processi di
autonomizzazione e responsabilizzazione dei residenti, orientando ancor
più i progetti individuali all'autonomia abitativa e lavorativa, con
un'attenzione particolare alla necessità di riappropriarsi del ruolo di
cittadino disinvestendo per quanto è opportuno quello di paziente. Il
ricorso alle proprie risorse economiche per sostenere una
parte delle spese previste per gestire la casa (vitto e utenze) segna
in modo chiaro il passaggio a questa fase di maggiore indipendenza;
contribuisce inoltre ad abbassare sensibilmente la retta a carico dei
servizi curanti, e si traduce quindi nella possibilità concreta di poter
prolungare il proprio percorso di cura e di sostegno al reinserimento.
L’équipe terapeutica e la continuità terapeutica
Un
valore aggiunto dei progetti di cura e reinserimento realizzati nel
gruppo appartamento è la continuità terapeutica. Infatti è la stessa
équipe, composta da 5 psicologi e uno psichiatra, che ha seguito il
residente in Unità di Fase Avanzata, a farsi carico di questa nuova fase
del percorso. I residenti dell’appartamento usufruiscono di un
intervento complessivo da parte degli operatori di circa 25 ore
settimanali (con 2 ore di consulenza psichiatrica), con una
disponibilità telefonica nell’arco delle 24 ore, 7 giorni su 7, volta ad
offrire un sostegno psicologico in momenti di difficoltà, che non è
comunque da intendersi come equivalente ad un servizio di pronto
intervento. Parte della copertura oraria viene utilizzata per le
consuete attività terapeutiche, che hanno luogo nella sede della
comunità: colloqui con lo psicologo di riferimento, con il medico
psichiatra, e ulteriori attività di gruppo o individuali. Il restante
monte ore permette di essere presenti in appartamento, dal lunedì al
venerdì, generalmente durante l’ora della cena, e per lo svolgimento di
un gruppo con cadenza settimanale.
Organizzazione della quotidianità e vita nell’appartamento
Una
volta trasferitisi nella casa, i residenti possono continuare a
usufruire di tutte gli interventi e le attività terapeutiche,
riabilitative e di svago previste dal progetto comunitario, così come
delle opportunità di reinserimento lavorativo offerte dalla nostra
istituzione: colloqui, borse lavoro, gruppi terapeutici, attività
ludico/riabilitative, incontri con i familiari e i servizi invianti. La
vita nell’appartamento è scandita da una ritmicità di eventi meno
incalzante rispetto all’Unità di Fase Avanzata: non è prevista
un’organizzazione metodica dei turni di preparazione dei pasti e di
pulizia, e i residenti provvedono alla gestione dell’appartamento in
modo più spontaneo e autonomo, e gestiscono il budget per la spesa
settimanale. Sono naturalmente liberi di “occuparsi dell’organizzazione”
secondo esigenze condivise, ma questo tipo di supporto non è introdotto
“dall’alto” per iniziativa degli operatori, né è previsto dal contratto
iniziale. I residenti trascorrono buona parte della giornata fuori
dall’appartamento, sia perché sono impegnati nel lavoro o nei rispettivi
tirocini lavorativi, sia per poter raggiungere la comunità secondo gli
impegni previsti dal programma individualizzato: colloqui con gli
psicologi o lo psichiatra, eventuali attività che si svolgono in
comunità (attività artistiche, artigianali, tirocini interni, attività
di gruppo aperte a tutti i residenti) e, solo in casi specifici, per
l’assunzione della terapia farmacologica che di norma viene assunta in
autonomia. La presenza degli operatori è più rarefatta rispetto a quella
prevista nell’unità di fase avanzata, ed è principalmente indirizzata a
rilevare e registrare l’atmosfera
che si crea nel piccolo gruppo di residenti, così come i segnali di
difficoltà che possono richiedere un intervento più attivo da parte
dell’équipe. L’obiettivo è non sostituirsi ai pazienti, consolidando in
loro una fiducia nella possibilità di autodeterminarsi nel problem solving quotidiano,
individualmente e in gruppo. Il gruppo che si svolge in appartamento
con cadenza settimanale, così come i colloqui con gli psicologi di
riferimento, sono funzionali a preservare e incrementare le competenze
riflessive (mentalizzanti) dei pazienti, promovendo self-agency (ossia il riconoscersi come protagonista delle proprie azioni) (Fonagy 1999),
e consolidando la capacità del paziente di autodeterminarsi, in quanto
soggetto finalmente dotato di un’intenzionalità originante da un sé
sufficientemente integrato.
Il gruppo terapeutico
Il
gruppo terapeutico è l’unica attività strutturata che ha luogo
nell’appartamento, ed è condotto da un operatore
psicologo-psicoterapeuta dell’équipe. Essendo anche l’unica attività di
gruppo specifica che vede coinvolti i residenti dell’appartamento, si
pone come strumento versatile e sempre sensibile alle necessità
pregnanti in un dato momento. È condotto con un approccio di tipo
psicodinamico, ed è naturalmente indirizzato ad affinare ancor più le
competenze riflessive dei suoi membri. Rappresenta la naturale
continuazione dell’attività terapeutica di gruppo svolta in Unità di
Fase Avanzata[11],
offrendosi come contenitore e rilevatore di una dimensione emotiva
densa e non sempre facile da esplicitare, come facilitatore di una
maggior grado di insight (riconoscimento degli affetti, definizione dei
sentimenti, e chiarificazione sulle dinamiche gruppali in gioco), e
infine come fattore che fortifica ulteriormente la mentalizzazione.
Il gruppo settimanale, quindi, è un altro elemento importante che permette all’équipe di tenere nella mente
questo piccolo gruppo di residenti, e ai residenti di continuare a
mentalizzare quanto stanno sperimentando e vivendo in quanto individui e
membri di una collettività. L’équipe può decidere di cambiare l’orario e
il giorno di svolgimento perché non si sovrapponga agli impegni di
lavoro dei residenti, ma questo non ridimensiona in nessun modo
l’importanza di questo momento, visto il ruolo fondamentale che riveste
nel mantenere una continua sintonizzazione con lo stato mentale e
affettivo dei suoi membri, in questa fase delicata di re-immersione
nella vita esterna al contesto comunitario. È in questo contesto che ci
si fa carico di mentalizzare e “maneggiare” (handling)
i delicati equilibri che dinamicamente si “creano e disfano” nella
convivenza quotidiana, che richiedono con continuità una manutenzione
attenta e discreta. Non ultimo, il gruppo diviene occasione di
condivisione e confronto sugli eventi di cui il percorso di
emancipazione di ognuno dei residenti si costella.
Incrementare autonomia e self-agency, e gestire i momenti di crisi.
Come
abbiamo visto, nella successione delle diverse fasi di trattamento
della Comunità Il Porto, l’Unità di Fase Avanzata introduce – con
finalità terapeutiche - un elemento di forte differenziazione rispetto
alle due grandi unità ad alta protezione: l’assenza. Per
la prima volta da quando sono ospitati in comunità, i residenti si
trovano a convivere trascorrendo molte ore senza la presenza degli
operatori (dalle 21.00 alle 10.00 del giorno seguente, e dal venerdì
sera al lunedì mattina). Naturalmente la possibilità di fare riferimento
all’operatore reperibile, così come la collocazione della comunità
alloggio dentro i confini
della sede principale dell’istituzione, rende sostenibile questo
importante mutamento del setting, garantendone le valenza evolutiva. Con
il passaggio al gruppo appartamento, ci si appresta a fare esperienza
di una maggiore gradazione di questa assenza, ovvero di un diradarsi ulteriore della presenza
degli operatori, che corrisponde ad un altro step evolutivo rispetto a
quella garantita in Unità di Fase Avanzata. E, per la prima volta, i
residenti si trasferiscono al di fuori dei confini comunitari, nel centro
della città. Tale presenza non ha come finalità principali il
controllo, né è mossa dalla necessità di sostituirsi al residente in
aspetti di deficienza o inabilità. Piuttosto è funzionale a preservare
la possibilità dell’équipe di “tenere nella mente” i pazienti anche in
questo contesto di elevata autonomia abitativa e sociale. Ci sembra
interessante mettere in luce come un’équipe terapeutica possa gestire in
modo dinamico l’assenza (con finalità evolutive ed emancipative) e la presenza, presenza che con il passare del tempo si modifica da una holding forte e concreta, ovvero un con-tenere nei confini rassicuranti dell’istituzione e della cura, accessibile
in modo immediato nelle 24 ore, fino ad una prossimità che gradualmente
diviene sempre più mentale, e quindi mentalizzante. Tale processo si
modula indubbiamente con il progressivo sviluppo di una costanza di
oggetto nei pazienti, e con un incremento della possibilità di farsi carico del compito gravoso di pensare e mantenere nella mente
la propria complessità, assumendosi la responsabilità di ciò che
comporta nel contesto della propria vita relazionale, lavorativa,
affettiva.
Alla
luce di queste considerazioni, si comprende quali possano essere gli
elementi che definiscono la condizione di base necessaria a realizzare
un passaggio del paziente in questa unità. Tali caratteristiche sono
ovviamente commisurate a una popolazione di pazienti multiproblematici:
· Un
condizione di equilibrio psichico apprezzabile, che trovi un suo
riscontro anche in una stabilità nella vita relazionale, e in quella
lavorativa o di studio.
· L’emancipazione, comprovata nel tempo, dal ricorso alle sostanze stupefacenti come sistema privilegiato di “auto-cura”.
· Un’alleanza
terapeutica forte, che deve prevedere un’effettiva assunzione di
responsabilità da parte del paziente, e che non sia quindi vissuta in
termini eccessivamente passivi e dipendenti.
· Una
progettualità condivisibile con i servizi invianti, che permetta di
concepire questa fase della cura come propedeutica ad un effettivo
reinserimento del paziente in ambiti non istituzionali.
In
questo contesto, dunque, gli aspetti di preoccupazione “più materna”
sono presenti nella misura in cui permettono di controbilanciare un
forte investimento sulla mentalizzazione e sul farsi carico della
propria problematicità. La mentalizzazione si rivela strumento
indispensabile per “destreggiarsi” nel contesto sociale esterno, ed è
strettamente implicata in un processo complessivo di riconoscimento di
autorità e di assunzione di responsabilità. E, d’altra parte, questo
percorso di emancipazione implica un’esperienza sempre più impegnativa
dell’autorità: di quella personale, come detto, intesa in quanto
necessità di farsi carico della complessità delle propria condizione. Ma
anche dell’altrui autorità: del datore di lavoro; del servizio curante
di riferimento che progressivamente “ritorna in scena” come
interlocutore fondamentale per il paziente; dei genitori, con i quali è
sempre in itinere un processo di emancipazione impegnativo e doloroso.
Tutto questo sullo sfondo di un contesto sociale sempre meno
facilitante: che è anche occasione di crescita ed emancipazione, ma
indubbiamente non “spalanca le porte” al reinserimento.
Edward Shapiro (2011)[12],
ci ricorda che “la resistenza al trattamento è in buona parte
determinata da una fondamentale sfiducia verso coloro che rivestono una
funzione di autorità”, ossia da una radicale sfiducia verso figure di
attaccamento che hanno compromesso le possibilità di crescita e
integrazione del paziente. Possiamo perciò cogliere l’importanza che può
rivestire per un paziente multiproblematico e complesso, come quelli
che ospitiamo nella nostra istituzione, giungere a questa fase
“ulteriormente avanzata” della terapia di comunità: il gruppo
appartamento è in primo luogo un’ulteriore possibilità terapeutica, ma
rappresenta anche un momento di verifica che restituisce la portata del
cambiamento realizzato dal paziente, e con il paziente.
È, in definitiva, la cartina tornasole del lavoro terapeutico che il
paziente ha potuto fare, anche in relazione a questa tematica così
difficile e ostacolante la crescita: il rapporto con l’autorità.
L’integrazione
con la fase precedente del trattamento, che ha luogo nella comunità
alloggio, è indubbiamente un punto di forza. Come già sottolineato, il
fatto di continuare ad essere seguiti dalle stesse figure curanti,
determina una base sicura per potersi approcciare a una condizione di
vita ad alto grado di autonomia. Al tempo stesso, la comunità alloggio
si offre come contesto per poter riaccogliere i residenti
dell’appartamento in momenti particolarmente delicati. Quando ci sono
segnali di malessere che richiedono un più consistente esercizio di
“holding” e sostegno, ma anche in momenti di particolare stress
psichico, in relazione ad eventi di vita difficili, come quando si
vivono difficoltà nei rapporti affettivi o in ambito lavorativo, e in
occasione di lutti. L’esperienza ci dimostra come la possibilità di
essere riaccolti in Unità di Fase Avanzata, anche per pochi giorni,
permette al residente di ritrovare in tempi brevi lo stato d’animo e le
motivazioni per fare ritorno in appartamento.
Nella
nostra visione, quindi, il Gruppo Appartamento deve essere propedeutico
allo svincolo definitivo dei residenti dall’istituzione, e intende in
definitiva riprodurre una condizione abitativa e terapeutica molto
simile a quella che i pazienti potranno potenzialmente vivere in futuro,
in una propria abitazione, o in un appartamento assistito, facendo leva
su un rapporto di cura con i servizi ambulatoriali di riferimento
vissuto in termini non più passivi, e maggiormente responsabili. In
questo senso dunque, con la Casa al Centro si conclude e perfeziona una
processo terapeutico in cui prende gradualmente forma e si sostanzia un
soggetto dotato di un’intenzionalità più matura e coesa, e attraverso il
quale è anche possibile impegnarsi per riappropriarsi di un ruolo di
cittadinanza attiva.
5. Modalità di condivisione della leadership in una piccola équipe terapeutica
“Perché vi sia un’équipe è necessario che il suo capo sia convinto che ve ne possa essere una”
Paul Claude Racamier – Lo Psicoanalista senza divano
Come
si configura la leadership in una piccola équipe ad alto grado di
professionalità e competenze, come quella che ha in carico i destini di
un’unità come la nostra? Tra gli innumerevoli contributi teorici che
hanno analizzato questo aspetto così rilevante per il processo
complessivo di gestione della cura, abbiamo scelto di riferirci a quanto
scrive Paul Claude Racamier nel suo fondamentale lavoro “Lo
psicanalista senza divano” (1982). Ci sembra infatti che l’autore si
soffermi su specifiche funzioni e qualità della leadership che, seppur
generalizzabili ad altri contesti, più di altre si prestano a
descriverla nel contesto della nostra unità. In particolare ci sembra
pregnante il concetto presenza del leader, come viene declinato da Racamier:
“Se
è certamente utile che un osservatore dalla sguardo acuto ma amichevole
venga ad illuminare l’équipe su ciò che le può eventualmente sfuggire,
non crediamo però che un accorto leader istituzionale possa e debba
isolarsi nel ruolo di semplice osservatore. L’osservazione è necessaria,
ma non è sufficiente. Bisogna forse ricordare anche che la presenza non
è attivismo?” (1982)
La
presenza del leader, dunque, richiede un attento dosaggio, sensibile
alle situazioni in cui “l’urgenza e le difficoltà la esigono con
fermezza”, ma anche disponibile all’occorrenza a divenire più discreta.
Certamente questa presenza deve avere, pur nell’adattarsi flessibilmente
alle situazioni, carattere di continuità. Ed è proprio per garantire
questa continuità, che “conviene che i leader siano più di uno, cosa che
attutisce e nello stesso tempo cancella il contraccolpo delle vacanze e
di altre assenze, sia nei confronti dell’équipe che nei confronti dei
malati.” (1982)
Seguendo
il filo di questo ragionamento, si può giungere a cogliere quale sia
l’atteggiamento interiore del leader che rende possibile l’esercizio di
una presenza così definita. Il leader – afferma Racamier - “deve sentirsi utile senza credersi indispensabile, e disponibile senza aver bisogno di ritenersi infallibile.”
Il fatto che egli - proseguendo nel suo discorso - dia molto valore
alla “sapienza” dell’analista per poter assumere e mantenere questo
atteggiamento di base, ci fa capire come alcune delle qualità di base
siano indispensabili ad esercitare una buona leadership in un contesto
di questo tipo. Crediamo che nell’insieme egli intenda riferirsi ad un
atteggiamento maturo che integri consapevolezza del limite e istanze
propositive, umiltà e capacità di investire nella crescita del proprio
gruppo di lavoro, competenze autoriflessive e autocritiche e
disponibilità a valorizzare i followers.
La
condivisione della leadership, dunque, è anche un aspetto importante
che ne garantisce il continuo “dosaggio”, calibrato in funzione delle
esigenze dell’équipe. Nell’organizzazione della nostra unità,
l’esercizio della leadership da parte di tutti gli operatori è un
aspetto indispensabile per poter svolgere il servizio di reperibilità. I
residenti hanno infatti la possibilità di contattare l’operatore che
sta svolgendo il turno di reperibilità, usufruendo di ascolto e supporto
in caso di difficoltà. Attraverso i contatti con i residenti in assenza
degli operatori, il reperibile assolve a questa funzione, ed esercita
inoltre un “contenimento mentale”, quando i pazienti sono
da soli nell’unità o nei giorni in cui si spostano per soggiornare
nelle proprie case o altrove. In assenza dell’équipe, il reperibile mantiene
una rappresentazione mentale della condizione del gruppo e dei singoli,
preoccupandosi di avere con i pazienti i contatti necessari a questo
scopo. Questo tipo di responsabilità è già in sé sufficiente a
promuovere nell’operatore un processo di autonomizzazione dal leader, o
meglio di assunzione della leadership così condivisa. Questo aspetto
trova massima espressione nella gestione della crisi
durante il servizio di reperibilità stesso, o in altri momenti in cui
ci si trova da soli in turno nell’unità. Prendere in esame il problema e
i rischi e valutarne l’entità, reperire le risorse e decidere che tipo
di intervento mettere in atto, sono tutti aspetti che – di fatto – fanno
sì che il reperibile eserciti, in questi frangenti specifici, una
funzione molto importante che fa parte del processo più complessivo
della “direzione della cura”. Lo fa nella misura in cui gli viene
riconosciuta l’autorità di farlo, ha la possibilità di esercitarla, ed è
ben consapevole di quali sono confini e limiti della sua autonomia di analisi e decisione.
Il
leader, dunque, è veramente tale se è in grado di promuovere la
leadership, non interpretandola in termini personalistici, ma creando i
presupposti per un suo esercizio condiviso tra i membri del gruppo di
lavoro. Ce lo ricorda ancora Racamier, quando afferma che “è impossibile
dirigere una qualsiasi équipe se non si crede nelle capacità effettive e potenziali di coloro che dobbiamo guidare”. (1982)
Avendo
così tratteggiato l’atteggiamento interiore di un buon leader, ci
sembra importante approfondire quello che comporta l’esercizio della
leadership di una piccola équipe nel rapporto con soggetti istituzionali
più “grandi” e con maggior “potere”. Il problema non è circoscritto
alla nostra èquipe, nel contesto della Comunità Il Porto, ma è
generalizzabile ad ogni situazione in cui le proprie possibilità di
sopravvivenza dipendono dall’invio di pazienti ad opera di committenti
esterni, o comunque quando la propria offerta terapeutica deve trovare
un riscontro e una “desiderabilità” da parte di altri soggetti
depositari della cura o di un disagio. La carenza di potere ed autorità è
a nostro avviso un aspetto che non è esclusivamente oggettivo, e che
prescinde la dinamica del gruppo di lavoro. L’”empowerment” e
l’autorità, e quindi l’autorevolezza di un gruppo di lavoro, sono anche
espressione dei processi di funzionamento interni al gruppo, oltre che
degli esiti terapeutici conseguiti. Questi aspetti si influenzano
reciprocamente in modo circolare, ma ci preme qui mettere in risalto
l’importanza dell’atteggiamento che il gruppo e il suo leader maturano e
assumono nel tempo, per fronteggiare un vissuto di precarietà e di
rischio rispetto alla propria sopravvivenza. Indubbiamente va tenuto ben
presente il pericolo di ricorrere a forme di isolamento,
autoconsolatorie, difensivamente narcisistiche e vittimistiche, con
aspettative poco mature. Se il gruppo si fossilizza in questa condizione
è destinato a morire. Al contrario, se contribuisce ad avviare e
mantenere vivo un processo in cui ci si confronta apertamente con gli
interlocutori sui contenuti della propria offerta di cura, sulla visione
e sulla concezione del metodo terapeutico che si intende applicare, è
costretto a definirsi di più, creando i presupposti perché la questione
dell’invio, così importante per la sopravvivenza dell’unità, venga
affrontata da entrambi i soggetti coinvolti, in modo più responsabile,
consapevole, e più aderente ai bisogni dei pazienti. Naturalmente questo
processo di riconoscimento della propria autorità, e quindi di crescita
e sviluppo della propria autorevolezza, si fonda anche sulla
possibilità di comporre un gruppo di lavoro in cui competenze e
caratteristiche personali si armonizzino il più possibile. Al tempo
stesso, esso deve trovare riscontro e valorizzazione in chi presiede
alla definizione dei progetti terapeutici di tutti i pazienti che
vengono inseriti in comunità, il quale dovrà avere ben presente - fin
dall’inizio - il passaggio all’Unità di Fase Avanzata e alla Casa al
Centro, in quanto prospettive evolutive funzionali a incrementare i
risultati conseguiti dai pazienti nella prima fase del trattamento.
6. Il lavoro clinico dell’equipe curante
Dal
momento che un gruppo di lavoro declina la propria attività a seconda
del paziente cui si rivolge considerandone la diagnosi, la storia, le
aspettative, le risorse e più
in generale la sua unicità, tratteremo qui due aspetti del lavoro
clinico che trasversalmente interessano la cura dei pazienti che vengono
presi in carico dalla nostra équipe, soffermandoci sui processi
inerenti l’integrazione e la responsabilità.
Il
fatto che quattro occhi siano meglio di due è quello che il buon senso
ci suggerisce attraverso un detto quanto mai popolare. Ma come integrare
gli sguardi che provengono da vertici osservativi differenti è cosa
assai complessa. Per vertice osservativo intendiamo non soltanto la
prospettiva culturale, potremmo dire dipendente dalla propria formazione
in campo clinico, dalla quale lo sguardo proviene, ma anche l’insieme
delle condizioni interne ed esterne che rendono ciascun membro di
un’equipe in un dato momento il portatore di un punto di vista unico e
irripetibile, altrettanto quanto parziale e mancante[13].
All’interno di un’istituzione che ha per missione la cura di persone
che molto soffrono da un punto di vista psichico, lo sforzo continuo cui
il gruppo di lavoro è chiamato a sottoporsi ha a che fare con la
costante re-visione di quegli oggetti parziali che ciascun paziente
mette nei propri curanti, sperando (spesso inconsciamente) che essi
siano in grado di restituirglieli maggiormente integrati e pertanto meno
angoscianti.
Nel
nostro caso esiste una sorta di complicazione al problema già complesso
dell’integrazione, che si colloca a monte dell’ingresso di ogni nuovo
paziente. Di fatto, la maggior parte dei residenti che giungono
nell’Unità di Fase Avanzata ha alle spalle una parte significativa del
proprio percorso di cura, poiché proviene da una delle due unità a
maggior contenimento presenti nell’istituzione. Questo implica che al
proprio arrivo nella nostra Comunità Alloggio la persona abbia già
intessuto una relazione di fiducia con un’equipe e tracciato, almeno
idealmente, un progetto di cura di sé di cui come nuova equipe dovremo
adesso occuparci. È evidente che a noi giunga, assieme al nuovo
paziente, anche l’idea che di lui un intero gruppo di lavoro esprime
quando ci presenta il caso. Ecco dunque delinearsi fin dal principio la
necessità di tenere a mente
il punto di vista degli invianti interni all’istituzione, mentre
proviamo a costruire con il paziente una relazione che possa condurci ad
una nostra visione di lui come singoli terapeuti da un lato, e come
equipe curante dall’altro. La ricchezza di informazioni di cui i
colleghi sono depositari facilita il processo d’inserimento, ma in
seconda battuta è anche il pre-giudizio con cui dobbiamo
fare i conti quando ci sediamo di fronte a lui per la prima volta e più
tardi, quando iniziamo a vedere degli aspetti che tale giudizio non
conteneva, si può rivelare una potenziale fonte di conflitto nella
misura in cui il gruppo, non disposto a confrontarsi con la molteplicità
del mondo interno, si polarizzi divenendo portavoce di quegli oggetti
parziali cui accennavo in precedenza.
L’attenzione
con cui monitoriamo la possibilità che si verifichino processi
scissionali tra i gruppi è la medesima che tentiamo di riservare
a quelli che possono potenzialmente svilupparsi all’interno
dell’equipe. All’instaurarsi di tali dinamiche concorrono fattori
inconsci, spesso attivati da condizioni proprie della nostra
organizzazione interna, visto che ciascun membro dello staff diviene il
riferimento principale di uno o più pazienti all’atto della stipula del
contratto.
Facendo
accenno agli studi di Bion, Antonello Correale (2006) suggerisce
l’importanza di tale riferimento come mediatore dell’investimento
affettivo che il paziente grave opera sull’istituzione e in assenza del
quale, in risposta alle sue aspettative, il gruppo istituzionale
potrebbe rispondere con le modalità dell’assunto di base. Non possiamo
però tralasciare il fatto che sostenere un rapporto preferenziale può
portarci a rimanere invischiati nei processi di idealizzazione e
svalutazione che il paziente ripropone continuamente. Per questi motivi
assume per noi molto rilievo quella parte del lavoro d’equipe che si
realizza negli staff meeting, allorquando fantasie e visioni personali
trovano uno spazio di condivisione e parola, quando la circolazione
delle emozioni, specie quelle più violente, viene finalizzata alla costruzione d’immagini che rendono sostenibile
la carica affettiva sottostante; in altre parole quando il linguaggio
simbolico integra, caricandoli di significato, i differenti segni
lasciati dal paziente nel mondo interno di ciascun terapeuta.
È
nel momento in cui riusciamo ad averne una visione d’insieme, che
diveniamo capaci di immaginare per il paziente un progetto terapeutico
realizzabile; ma affinché la nostra non rimanga semplicemente
l’intuizione di un percorso, occorre che sia egli stesso a coglierne il
senso e a farlo proprio, avviando il faticoso processo della propria
responsabilizzazione.
Eppure,
affrontando il tema della cura del paziente grave, dobbiamo ammettere
che una quota di questa gravità possa derivare dalla tendenza delle
istituzioni, che appartengono al circuito psichiatrico, ad assecondare
il processo di totale delega che il paziente e la sua famiglia operano
rispetto alla presa in carico di sé. La malattia mentale può contagiare
in diversi modi un’equipe, ad esempio condizionandone la cultura nella
direzione di un giustificazionismo incondizionato che vede nei
comportamenti disfunzionali del malato solo e sempre una vittima da
santificare (Correale 2006).
Il
rischio di questo atteggiamento è quello di uno stallo del processo
terapeutico. L’equipe va incontro a sentimenti di onnipotenza che la
passività del paziente frustra di continuo. Ridistribuire i compiti tra
residenti e staff è un antidoto all’annichilimento ed apre uno spazio di
lavoro in cui tutte le figure coinvolte nella terapia sono chiamate ad
uno sforzo di creatività in merito a cosa fare di quello che a priori
possiedono: la responsabilità della cura.
Una
grossa fetta del lavoro quotidiano con i residenti ruota attorno a
questo tema. Chiediamo loro di occuparsi della casa autogestendo un
gruppo organizzativo, e di imparare a scegliere come sfruttare il tempo
libero lasciando che il week-end sia autonomamente riempito con
iniziative personali o di gruppo, delle quali veniamo aggiornati tramite
il servizio di reperibilità o all’interno di quei gruppi che prevedono
la nostra presenza. L’operatore di riferimento affianca il proprio
paziente in tutti quegli ambiti ai quali fino adesso si è affacciato
come spettatore, riconoscendogli la possibilità di cambiare il proprio
ruolo e costruendo con lui le competenze necessarie a sostenerlo. Se ad
esempio prima gli si comunicava il giorno e l’ora di una visita
dentistica, ora gli si chiede di prenotarla egli stesso.
L’assunzione
di responsabilità concerne per il paziente una faticosa ridefinizione
di sé, ma anche il terapeuta non è esente da questa fatica nella misura
in cui deve tollerare di essere uno strumento a servizio dell’Altro; un
Altro cui occorre lasciare uno spazio d’azione per prove ed errori che
il più delle volte è utile non vengano anticipati dalla saggezza del medico.
È, per così dire, il nostro turno di spettatori: attenti ai sentimenti
che il protagonista ci suscita, capaci di una visione critica dello
spettacolo, ma consapevoli di dover sostare in prima fila, alla giusta
distanza dalla scena.
L’equipe
è ancora una volta il contenitore che rende possibile tutto questo
perché accoglie le nostre preoccupazioni mentre lasciamo che il paziente
faccia esperienza di sé, perché ci permette di dar voce all’ansia
evitando di agirla, perché è in sostanza il luogo in cui trasformiamo la
fatica che il nostro ruolo comporta in un progetto condiviso.
7. La gruppalità nella residenzialità leggera della Comunità Il Porto
L’importanza
dei gruppi come strumento di lavoro psicoterapeutico è un dato ormai
corroborato da lunghi studi. Alcuni di questi evidenziano lo stretto
collegamento tra la qualità delle emozioni, gli stati mentali, le
connessioni sinaptiche e le relazioni sociali (Siegel, 2001). Vi è
dunque la possibilità di apprendere e di evolvere in ogni stadio della
vita. Pertanto, anche nell’ambito della residenzialità leggera, la
dimensione gruppale non viene sottovalutata, sia per quanto riguarda la
vita quotidiana, che i momenti di terapia settimanale: due gruppi
nell’Unità di fase Avanzata e uno nella Casa al Centro. Avendo già
delineato la specificità dell’intervento nel Gruppo Appartamento
(paragrafo 4), prenderemo ora in esame il lavoro inerente l’Unità di
Fase Avanzata.
Se
consideriamo la terapia di comunità complessivamente come una lunga
terapia di gruppo, è possibile affermare che il lavoro in Unità di Fase
Avanzata è principalmente inerente l’ultima fase della vita gruppale,
sebbene la specificità di gruppo aperto
in comunità renda le fasi che qui descriveremo in sequenza, ricorrenti e
non linearmente consecutive. Nel primo periodo, che normalmente viene
trascorso in una delle due unità ad alta protezione, il lavoro si
concentra sul coinvolgimento dei membri, sull’aiutarli ad accettare di
essere parte di un gruppo e sull’impegnarli a partecipare. È un lavoro
sull’identità del gruppo, sulla costruzione dei confini, sulla coesione.
Potremmo dire sulla possibilità di condividere il timore di non essere
accettati. Una fase che il gruppo attraversa e ri-vive ad ogni nuovo
ingresso. Segue uno stadio in cui emergono le differenze e con queste i
conflitti, il bisogno di affermarsi e di essere riconosciuti nella
propria diversità. Il lavoro è sull’esplorazione del conflitto e sulla
tollerabilità delle differenze, ed è preparatorio a processi di
elaborazione più profondi e delicati. Si inizia dunque a lavorare sulla
consapevolezza di poter essere capiti dagli altri nelle proprie
differenze e difficoltà, comprendendone le implicazioni relazionali e,
di conseguenza, comprendendo meglio e più introspettivamente se stessi e
gli altri. È un’esperienza nuova per la maggior parte dei pazienti e
costituisce, come ogni acquisizione di consapevolezza, un fattore che
potenzia il cambiamento. Giungiamo così all’ultima fase, quella in cui è
implicato maggiormente il lavoro dell’Unità di Fase Avanzata. Dopo
essersi fusi e confusi nella
vita di grandi gruppi, dopo aver ritrovato qualche principio di
differenziazione, dopo aver accettato la propria differenza e lavorato
con quella degli altri, inizia ora la strada dell’autonomia. Se
all’inizio il gruppo doveva necessariamente inglobare l’individuo
limitandone l’autonomia per tutelarlo da gravi pericoli - come l’uso di
sostanze o comportamenti autodistruttivi- ora deve lentamente restituire
ogni individuo a se stesso. Il lavoro è sull’accettazione della propria
responsabilità e sul riconoscimento dell’importanza degli altri, di
quanto ricevuto dal gruppo e di quanto è possibile restituire. Ci si
avvicina al momento della separazione, con tutte le complesse
implicazioni emotive che questa comporta.
Negli
incontri di gruppo strutturati si nota l’emergere di temi nuovi
rispetto a quelli discussi nelle Unità precedenti. In particolare, per
via della fase conclusiva di un percorso svolto in comunità e durato a
volte anche alcuni anni, i membri del gruppo si trovano a tratti alle
prese con un bilancio complesso della propria storia e con
l’elaborazione di quelli che I.Yalom (1995) chiama i “fattori esistenziali” della terapia di gruppo: il senso del limite, della solitudine, della libertà.
Durante
un incontro in cui si stava parlando della programmazione del proprio
tempo libero, delle ambivalenze connesse al desiderio e alla rinuncia,
Sara[14]
racconta esplicitamente la paura della solitudine pensando alla
difficoltà di costruirsi attivamente una vita personale esterna alla
comunità. È questo uno dei risvolti più temuti dell’autonomia, e il
condividerlo è indubbiamente un elemento di progressione essenziale.
E’
utile osservare come la discussione si sviluppi spesso attorno a tre
interessanti polarità: la vitalità e il limite della malattia; il
rifiuto e l’affido; lo svincolo e la gratitudine.
Esempio.
I
compiti di autonomia e responsabilità sollecitano una maggiore
identificazione nelle parti sane della personalità. In un incontro di
gruppo Simona, alle prese con l’inizio di una borsa lavoro esterna alla
comunità, chiede al gruppo un maggior riconoscimento dei suoi aspetti
vitali: “non sono solo una tossica!” e richiama tutti su questo punto
ricordando una recente uscita in un luogo affollato e divertente: “se
non provavo a parlare io c’era un silenzio di tomba tra noi!”. Il
bisogno di alimentare la propria vitalità è forte, ma nello stesso tempo
questo sforzo deve essere integrato con la consapevolezza di limiti,
spesso ancora molto ingenti, che frustrano aspettative troppo elevate.
La convivenza con questi aspetti e la possibilità di integrarli è uno
dei compiti emotivamente più complicati per i residenti dell’Unità di
Fase Avanzata. In un altro incontro, Piero racconta dell’imbarazzo
provato nel rifiutare una birra in un bar in cui era invece normale il
contrario. Il desiderio di un’inafferrabile ed effimera normalità è
messo alla prova dalla necessità di accettare la propria differenza e
specificità.
L’altra
polarità di lavoro, inestricabilmente connessa alla precedente,
riguarda l’affidarsi a qualcuno per superare le proprie difficoltà o, al
contrario, rifiutare questa possibilità in nome di una presunta
indipendenza finalmente conquistata. L’equipe, come tutto il gruppo dei
residenti, è spesso oggetto della proiezione di queste dinamiche
tipicamente connesse al processo della separazione e, residenti e staff,
condividono l’esperienza di venire ricercati e rifiutati a fase
alterne, come su una oscillante altalena. Per molti pazienti aver
strutturato una dipendenza sana è già una conquista, ora sono chiamati
ad un compito superiore: gestire con maggiore responsabilità la propria
autonomia. Quest’ambizione tanto agognata sottende tuttavia la rinuncia
ad una relazione con una figura di aiuto (e con la stessa comunità nel
suo complesso) ritenuta onnipotente, da cui ci si aspetta una illimitata
sollecitudine per realizzare i propri desideri. Si tratta ora di
elaborare questa perdita. È la premessa per costruire un’identità più
autonoma e capace di “annunciare un nuovo progetto, una nuova capacità
creativa” (Ricciardi, 1989). Dopo essersi immersi,
dopo aver riconosciuto la propria differenza, dopo aver preso
consapevolezza di dover convivere con alcuni limiti, ci si trova di
fronte alla possibilità di potersi dire che non si è più completamente
dipendenti, ma neppure davvero autosufficienti. L’autonomia non è
l’assoluta libertà sognata, ma neppure la solitudine silenziosamente
temuta: è la capacità di vivere con maturità l’interdipendenza. È la
possibilità di lasciare un gruppo, una famiglia, un luogo di cura e di
appartenenza per tentare di costruire nuove appartenenze. Il gruppo è
stato interiorizzato, seminato e radicato nella storia di cura del
paziente, e può ora provare a riprodursi anche esternamente alla
comunità. Si tratta della grande sfida dell’Unità di Fase Avanzata, che
ovviamente non può che fare i conti con i limiti altrettanto grandi
imposti dalla patologia di alcuni pazienti e che pertanto trova a volte
una realizzazione più piena, altre invece una realizzazione solo
parziale, ma comunque importante.
Esempio:
Ugo
è un paziente che ha svolto un lungo percorso e che mantiene da tempo
con adeguatezza una borsa lavoro esterna culminata in un’assunzione, ma
sperimenta la difficoltà di dare una senso alla sua vita al di là del
lavoro. Ugo risiede ora nel Gruppo Appartamento, ma continua a
partecipare ad uno dei gruppi che si svolgono in Unità di Fase Avanzata.
Racconta che quando torna nella Casa al Centro
si sente a volte depresso, vuoto, solo, ed è attraversato da antiche
tentazioni. Seppure li abbia contenuti ed elaborati, è ancora in parte
afflitto dai suoi complessi psicologici e tanto vorrebbe essere parte di
un gruppo quanto ne teme le implicazioni di giudizio per i suoi
trascorsi e i suoi limiti. In qualche modo sta cercando di coltivare
delle relazioni esterne alla comunità, ma non gli bastano del tutto. La
cura e lo sviluppo di tutte le appartenenze che a mano a mano vengono a
formarsi esternamente alla comunità è parte del lavoro dei residenti e
dell’equipe dell’Unità di Fase Avanzata: il lavoro, gli amici, futuri
luoghi di sostegno, ovviamente la famiglia e tutti i servizi curanti.
Che
cos’è in fondo la guarigione per pazienti gravi, si chiedono G. Lo Coco
e G. Lo Verso (2006), se non la possibilità di “costruire progetti
terapeutici che coinvolgono diversi soggetti e gruppi ritenuti
significativi entro i piani di esperienza del singolo paziente”. È il
lavoro di rete, su un gruppo più ampio della comunità, specificità più
che mai percorsa nell’Unità di Fase Avanzata.
Il
riconoscimento della propria interdipendenza permette a questo punto un
vero svincolo, con l’espressione anche di forme di gratitudine verso il
gruppo e verso la comunità in generale. Si tratta della terza polarità
prima accennata.
Esempio:
Nonostante
la poca loquacità e il carattere un po’ rude, Leonardo non manca ogni
tanto di adornare con qualche sua piccola pianta le mensole dell’Unità:
ha sempre detto di essere in comunità per via degli obblighi impartiti
dal Tribunale più che per suo desiderio, ma non dimentica di comunicare
con quei piccoli gesti spontanei e silenziosi tutta la sua gratitudine
per un luogo che alla fine lascia non senza qualche lacrima.
La gratitudine può esplicitarsi anche in momenti di gruppo allargati, come l’Assemblea di Comunità, un large group quindicinale
che raccoglie tutti i residenti delle tre Unità con la partecipazione
del Presidente della Comunità, della Governante della Casa e degli
operatori in turno. In questo contesto, talvolta i membri dell’Unità di
Fase Avanzata riescono a rivestire un ruolo di maggiore responsabilità
sostenendo il lavoro degli operatori e restituendo
alla comunità e ai nuovi giunti gli apprendimenti faticosamente
raggiunti. Nei casi migliori si assiste all’assunzione di un ruolo
simile a quello descritto da C. Neri (2004) quando parla del “Genius
loci” dei gruppi, colui che riesce a “costruire e mantenere l’identità
del gruppo e confermare nei suoi membri il senso di appartenenza”.
Un’ultima
dimensione della gruppalità vissuta nell’Unità di Fase Avanzata
riguarda l’autonomia del gruppo nella sua complessità. L’assenza dello
staff nelle ore notturne e nei week end obbliga il gruppo a costruire
una propria esistenza autonoma dall’istituzione e a responsabilizzarsi.
Anche in settimana alcuni aspetti della convivenza sono delegati ai
residenti senza mediazione degli operatori, come accade per quanto
riguardo la spesa e la costruzione dei turni dei lavori in casa. Il
numero limitato di pazienti permette lo sviluppo di una certa intimità
nel gruppo che si coniuga con quella della casa. Quando l’operatore
chiude la porta per terminare il turno e lascia i residenti per la notte
intuisce a volte l’attivazione di una diversa dinamicità determinata
proprio dal suo assentarsi.
La sperimentazione dell’autonomia passa indubbiamente attraverso questa
prima forma condivisa di indipendenza. Nei momenti migliori, il gruppo
riesce ad esercitare una funzione Super-egoica che vicaria quella dello
staff: accade ad esempio quando l’operatore reperibile chiama in
struttura e il residente che risponde sa fornire informazioni su come
stanno i compagni, dove sono e quale clima si respira nell’unità.
Naturalmente questo movimento verso l’assunzione di autorità e
responsabilità non è né spontaneo né scontato, e necessita di una
continua manutenzione da parte degli staff e dei membri più esperti del
gruppo. Nello stesso tempo è forte la ricerca di una differenziazione
rispetto agli altri membri e il bisogno di luoghi, tempi e modalità
individuali di sperimentare la vita, iniziando così il processo di
svincolo dalla comunità.
Emerge
con chiarezza, dunque, come il lavoro con i gruppi in Unità di Fase
Avanzata non possa prescindere da un’autentica condivisione - in quel
gioco di risonanze e rispecchiamenti che è il motore della terapia di
gruppo e più genericamente della gruppalità spontanea in comunità- del
senso del percorso svolto fino qui e dell’apertura a nuove
progettualità. È un processo tanto complesso per il gruppo dei residenti
quanto per il gruppo degli operatori e per la comunità intera, chiamata
a confrontarsi anch’essa con le proprie aspettative ed ambizioni e, al tempo stesso, con i propri limiti e la propria finitezza.
8. Consulenza psichiatrica nella fase avanzata della terapia
Il
passaggio nell’Unità di Fase Avanzata rappresenta per i pazienti un
momento molto delicato, talvolta idealizzato come raggiungimento di un
obiettivo definitivo verso il reinserimento nel contesto sociale e
familiare. Qui vengono a riproporsi modalità relazionali che da una
parte devono fare i conti con il passato, e dall’altra con le nuove
acquisizioni frutto della terapia.
Per
queste ragioni lo psichiatra, in un contesto di questo tipo, ha l’onere
di accompagnare l’evoluzione del paziente dal punto di vista
psicopatologico, condividendo con i colleghi dell’equipe curante il
percorso terapeutico.
È
questa la fase in cui la relazione con il paziente assume delle
connotazioni peculiari rispetto a quella che ha caratterizzato il
trattamento in precedenza, nelle unità di provenienza: essendo
sicuramente meno frequente e intensa, si può riproporre l’eventualità
che si sviluppi la scissione psicologica buono/cattivo nella percezione
che il paziente ha dell’équipe. Per ridurre questo rischio, il colloquio
psichiatrico si svolge alla presenza dell’operatore di riferimento o
talora del responsabile di struttura, connotandosi in questo modo come
un momento importante d’integrazione con finalità terapeutiche.
Il
processo d’integrazione si realizza pienamente nello staff meeting,
dove è possibile visualizzare l’insieme complessivo di problematiche
psicopatologiche, relazionali, ambientali che di volta in volta possono
assumere carattere di urgenza operativa. Non meno importante è la
presenza dello psichiatra negli incontri periodici con gli invianti,
dove è possibile condividere, pur nelle rispettive responsabilità,
l’iter del percorso di cura e della sua conclusione.
Durante
il trattamento in Unità di Fase Avanzata e nel Gruppo Appartamento, è
indubbiamente fondamentale problematizzare con il paziente gli aspetti
diagnostici e farmacologici emersi in precedenza, per verificare e
chiarire eventuali dubbi e incertezze, facendo chiarezza su eventuali
comportamenti contraddittori e non collaborativi. Per quanto attiene
alla terapia farmacologica, i pazienti vengono sollecitati alla
responsabilizzazione nell’assunzione, che
implica un grado di attenzione sufficiente alla prescrizione ed alla
posologia, ed anche l’impegno a segnalare eventuali effetti collaterali,
dubbi o talora desideri di affrancamento.
Ovviamente
tutto questo deve tener conto delle peculiari caratteristiche
psicopatologiche, cognitive e di elaborazione del paziente. In
particolare, la patologia borderline ha portato, negli ultimi anni, ad
un’importante richiesta di trattamento in comunità, e presenta risvolti
di natura psichiatrica e psicologica che richiedono una valutazione
costante, attenta e flessibile del trattamento, soprattutto nella fase
avanzata.
In letteratura i pareri degli psichiatri sono spesso contraddittori. Per alcuni – come Robert Hinshelwood (2012), ad esempio - i
farmaci dovrebbero essere usati con senso della misura, al fine di
potersi coinvolgere in modo attivo nel processo terapeutico in comunità,
e facendo attenzione a non colludere con l’aspettativa inconscia del
paziente di essere considerato esclusivamente in quanto malato, e non in
grado di sviluppare una consapevolezza di sé. Racamier considera il
farmaco come “mediatore relazionale e veicolo fantasmatico”, mentre
Zapparoli e in particolar modo Vender, sottolineano l’importanza di
fattori aspecifici nella farmacoterapia, intesi come aspetti relazionali
connessi con la prescrizione. Soloff, importante ricercatore in ambito
farmacologico, sostiene che “se un paziente borderline risponde in
maniera eclatante alla terapia farmacologica, probabilmente la diagnosi
non è esatta.” Dall’esperienza di molti anni in ambito comunitario
questa deduzione è oggetto di verifica continua. In effetti egli intende
riferirsi al fatto che, a differenza di altre condizioni
psicopatologiche in cui la farmacoterapia ha un ruolo importante nel
stabilizzare e risolvere la sintomatologia, in questa area diagnostica
il farmaco deve adeguarsi sensibilmente ai diversi stati di allarme
vissuti dal paziente.
La
consulenza psichiatrica in questo specifico contesto, anche nei suoi
risvolti farmacologici, si configura come intervento specifico per una
tipologia di pazienti con i quali, a prescindere dalla diagnosi con cui
sono stati invitati in comunità, si lavora prevalentemente e in modo
intensivo sui tratti che ne caratterizzano la struttura di personalità, e
sulle modalità comportamentali e relazionali che ne conseguono. Per
queste ragioni l’apporto farmacologico viene progressivamente e
gradualmente ridimensionato, una volta accertata la possibilità e
l’opportunità di farlo, adeguandolo il più possibile in funzione delle
esigenze essenziali di ogni paziente.
9. Nonostante il Maestrale
Il fatto che la nostra équipe sia riuscita ad immaginare di realizzare un’esperienza riabilitativa e terapeutica (ovvero correttiva),
che avesse al centro una vacanza primaverile di alcuni giorni in barca a
vela, è da valutarsi anche come l’esito di un lungo impegno messo in
campo per anni da un gruppo di lavoro. Questa passione si è tradotta
nella possibilità di mettere assieme risorse umane e professionali, di
affinare una metodologia di lavoro, e di acquisire l’autorevolezza e
l’autostima necessaria per ridurre il più possibile gli aspetti di
disorganizzazione, caoticità e incoerenza con i quali un’équipe
inevitabilmente si confronta nel suo percorso di maturazione. Andando a
ritroso nel corso degli anni, è difficile ricordare una situazione in
cui potesse spontaneamente manifestarsi il desiderio di un’esperienza di
questo genere, con gli stessi presupposti. Ci piace considerare questo
evento anche come esito del lavoro svolto nel tempo per costruire un
contesto di cura sufficientemente sano da far emergere gli aspetti più
vitali e curiosi dei nostri pazienti.
Da
circa trent’anni in Europa si pensa alla vela non solo come un’attività
di svago e divertimento. La navigazione a vela, soprattutto come
complessa sequenza di esperienze coinvolgenti in mezzo alla natura, si
presta ad essere un fertile contesto ed un efficace modello di
formazione per lo sviluppo delle competenze comportamentali ed
emotivo-relazionali. Da questo vertice, l’outdoor in barca a vela è un
acceleratore delle dinamiche interpersonali e decisionali e i processi
di riabilitazione e risocializzazione trovano in esso una sofisticata
applicazione. Le primissime opportunità in questo senso nascono in
Svezia da una esperienza conclusasi
con sorprendente successo, legata a un progetto di recupero di ragazzi
considerati difficili e socialmente non inseriti.
Così
anche per gioco, ma soprattutto interessati a questo nuovo indirizzo,
in grado di offrire un supporto terapeutico inusuale, abbiamo volto lo
sguardo verso il mare. Insieme.
L’idea
nasce dall’esigenza di restituire ad uno specifico gruppo di pazienti
uno spazio vitale adatto al confronto con situazioni esperienziali al di
fuori della cosiddetta “area di comfort”
abituale (la Comunità), evidenziando le proprie modalità di reazione
alle situazioni impreviste. La navigazione a vela, infatti, offre una
situazione coinvolgente, un contesto relazionale informale, una dinamica di gruppo molto intensa,
dove le abilità di decisione, cooperazione, leadership e comunicazione
si offrono in un “laboratorio” di interazione con l’ambiente che stimola
l’osservazione e la riflessione individuale e di gruppo. Inoltre la
vita in barca a vela riduce le distanze psicologiche
tra i partecipanti, favorendo la conoscenza reciproca e lo scambio di
feed-back. Verificando l’utilità di uno scambio di “critiche
costruttive” e di ruoli per potenziare l’efficacia del gruppo, favorisce
i processi di co-costruzione dello stesso.
Ogni
contesto naturale o artificiale esercita una pressione sull’individuo
stimolando sensazioni e stati d’animo interni. La riabilitazione,
attraverso uno strumento esclusivo come quello da noi collaudato,
raccoglie il contributo dell’ambiente, e un ambiente ricco di stimoli,
pulito e netto nei suoi elementi caratterizzanti, è la cornice ideale
per il recupero delle persone che hanno compromesso il contatto con il
mondo reale e vivono soltanto un mondo interno caotico ed angosciante.
La visione del mondo, e di se stessi nel mondo, da una barca a vela in
navigazione è interamente nuova, gli elementi naturali e l’uomo si
compenetrano, le regole sono essenziali e percepibili, comprendono tutto
e sono istintivamente comprensibili.
Uno
degli aspetti fondamentali del nostro lavoro è stato il coinvolgimento
attivo dei partecipanti: compito degli psicologi è stato quello di
facilitare la comunicazione, gli aspetti relazionali, gestire le
dinamiche che si sono create all’interno del gruppo favorendo
l’elaborazione dei vissuti dell’esperienza ed i riflessi che questa ha
avuto nel percorso di attivazione psicosociale della persona.
Partecipazione attiva nell’elaborazione e costruzione del progetto in
tutte le sue specifiche fasi: dalla discussione allargata della
proposta, che suscita grande interesse e curiosità, fino alla sua
concreta realizzazione e attuazione finale.
Infatti,
dal primo momento in cui questa proposta è stata formulata ai
residenti, è nata l’esigenza di parlare di questo progetto attraverso
una modalità corale, focalizzando numerosi gruppi sulla pianificazione
dello stesso. Abbiamo proposto loro una trasferta di cinque giorni in
Sardegna, di cui tre in barca a vela con uno Skipper e la traversata in
nave per raggiungere l’isola per cinque pazienti dell’Unità di Fase
Avanzata (quattro uomini e una donna) e due operatori psicologi.
I
nostri pazienti, consapevoli della portata di questo impegno, sia come
investimento mentale che economico, hanno risposto fin da subito con un
grado di coesione e responsabilità elevato. Partendo da un importante
contributo dell’istituzione, si è scelto di attivare le risorse interne
all’unità. I pazienti si sono adoperati con noi per trovare soluzioni
efficaci per poter contribuire, secondo la loro disponibilità economica,
all’iniziativa. Tutto il gruppo ha deciso di rinunciare per un mese e
mezzo ad un contributo economico ad esso destinato nel fine settimana
per attività ludiche e ricreative. Vi è stata una maggiore attenzione
nelle spese e consumi generali della casa ed ogni residente ha, a sua
volta, contribuito con una propria quota alle spese del viaggio. Il
budget è stato completato da un ulteriore quota prelevata dalla cassa
interna dell’Unità.
Un’organizzazione
responsabile e attenta ai bisogni dei pazienti, avvalorata da un
progetto desiderato e pensato, che ha però lasciato spazio al confronto
creativo attraverso una distribuzione efficace di compiti e
responsabilità, ha sancito un’operatività inaspettata, produttiva e
finalizzata. È stato interessante osservare nel corso di questi gruppi
un crescendo di interesse e di entusiasmo finalizzato ad un obiettivo
condiviso. Inoltre la maggior parte dei pazienti non aveva mai avuto
un’esperienza di questo tipo. Quattro su cinque non avevano mai solcato
il mare, motivo per cui la sola traversata in nave dal porto di Livorno a
quello di Golfo Aranci è stato motivo di stupore gioioso che ci ha
avvicinati empaticamente alle loro emozioni. Uno dei pazienti, stimolato
dalla novità e dalle dimensioni della nave, fino ad allora solo
immaginata, non ha chiuso occhio nel corso della traversata per
conoscerne e fotografarne ogni anfratto. Nel frattempo gli altri, non
meno insonni, fantasticavano su paesaggi raccontati e situazioni
impreviste. Un prologo durante il quale si sono delineati contorni più
chiari ma armoniosamente permeabili rispetto al consueto regime della
relazione Operatore-Paziente. L’approccio con l’imbarcazione e lo
Skipper, ha così consolidato il significato della nostra presenza,
tracciando gli elementi base della costituzione di un equipaggio.
Navigare a vela, infatti, non è solamente spostarsi sull’acqua
attraverso un apparato galleggiante, ma impone una disciplina a un
gruppo d’individui affiatati tra loro.
L’equipaggio
dell’imbarcazione è un insieme di individui che lavorano in perfetta
armonia e sintonia con gli eventi, attenti agli stimoli per cercare di
raccogliere ogni segnale importante della barca e del mare, pronti
all’azione sincronica per governarla sulla rotta desiderata. Il nostro
gruppo-equipaggio, coordinato dallo skipper e composto da cinque
residenti e due operatori psicologi, ha rappresentato, per il suo
specifico mandato riabilitativo, un esperimento potenzialmente
rinnovabile.
La
collaborazione di queste otto persone unite dalla condivisione di un
obiettivo, attraverso l’identificazione di ruoli e funzioni, ha permesso
lo sviluppo di specifici elementi terapeutici gruppali utili al singolo
partecipante, e al conseguimento di risultati positivi di gruppo. I
fattori in gioco quali l’appartenenza e la coesione d’insieme,
l’apprendimento interpersonale, il comportamento imitativo e
l’altruismo, sono contributi fondamentali al progetto di cura dei nostri
pazienti. In questo senso la barca si è palesata come “acceleratore
sociale”, moltiplicatore delle dinamiche di gruppo: seguendo queste
coordinate l’esperienza velica si accosta alla
terapia in senso stretto e dà un senso compiuto al concetto di
integrazione. La riabilitazione deve mettere in azione o recuperare gli
aspetti fisici e fisiologici, gli elementi cognitivi e quelli emotivi e
cercare di favorire una crescita sintonica, o maggiormente integrata,
tra aspetti sani e disadattivi, tra loro in continuo equilibrio dinamico
per il conseguimento di una condizione di benessere, e di maggiore
maturità. Governare il timone sotto raffica improvvisa, in particolare
quando a soffiare è il maestrale che ci ha accolti, e contemporaneamente
cazzare una scotta, significa agire su timone e cime, ma anche pensare e
prevedere la reazione della barca e dell’equipaggio. Ognuno di noi non
ha solo dovuto organizzare le proprie azioni con quelle dei compagni, ma
si è continuamente sottoposto a circostanze di navigazione dove pensare
e agire procedono all’unisono. Il fare riabilitativo, insieme al
sostegno partecipato degli operatori, ha autorizzato, in presa diretta,
l’esercizio sostanziale per il recupero, il consolidamento o la scoperta
di abilità e competenze dei pazienti, per il sostegno delle funzioni
dell’Io. Le attività di gruppo indirizzate all’esecuzione di procedure e
all’esecuzione di comportamenti organizzati - in cui la dimensione
intrapsichica e quella interpersonale si intersecano - consentono, se
eseguite e completate con successo, di ampliare positivamente la
percezione di sé con una benefica ricaduta sull’autostima.
I compiti corretti e reiterati facilitano nel tempo la nascita di una
maggiore motivazione spontanea all’azione, verso sfere di interesse più
personali e vicine alle reali possibilità dell’individuo.
Il
fondamentale coordinamento iniziale ad opera dello Skipper, ha permesso
di prefissare un traguardo e gli obiettivi intermedi affidandoli
all’equipaggio: dalla semplice ma necessaria manutenzione e preparazione
del mezzo, al rifornimento della cambusa, alla distribuzione dei
limitati spazi interni ed esterni fino alle manovre più impegnative in
acque libere. È stato entusiasmante, una volta mollati gli ormeggi,
scorgere gli sguardi stupiti e un po’ intimoriti, poi via via assorti e
complici, infine stremati ma fieri. Ognuno a rotazione ha potuto
sperimentarsi come timoniere, prodiere e addetto alle vele. Ognuno ha
potuto conoscere i processi e le progressioni di manovra, cercando di
soddisfare le regole di tecnica di conduzione e salvaguardia del singolo
e del gruppo. Nelle virate il timoniere agisce sulla barra mentre il
randista regola adeguatamente la tensione delle scotte, e il trapezista
controlla lo sbandamento dell’imbarcazione. Ognuno ha il proprio compito
e responsabilità in ogni manovra di governo dell’imbarcazione a vela.
Molti
dei nostri pazienti scelgono, o in passato hanno scelto, di vivere
esperienze emozionanti in situazioni ad alto rischio e spesso con la
complicità dei pari. Un’attività riabilitativa, come quella da noi
condivisa, rappresenta una stimolante opportunità di stare insieme, al
tempo stesso tutelata dalla partecipazione attiva degli operatori. Essa
raccoglie il bisogno dei pazienti di sperimentare la propria curiosità,
la voglia e paura di provare, il desiderio di intensità più che di
contenuto, trasformando l’attività in una palestra emotiva per la
percezione, il riconoscimento e l’eventuale apprendimento di maggior
controllo dei fenomeni emotivi. In questo senso aver suscitato la
curiosità dei pazienti è stato fondamentale per l’esito sia della
“spedizione”, che per gli effetti benefici che essa ha sortito in
ciascuno come fonte di motivazione ed investimento nel lavoro
terapeutico in corso. Questo viaggio ci ha permesso di osservare ed
apprezzare i nostri pazienti attraverso un setting unico, e ci ha
consentito di scorgere potenzialità e risorse inesplorate di cui il
gruppo ha potuto fruire nei mesi successivi al nostro rientro. Un
equipaggio che ha saputo godere della spinta vitale del contesto in cui
si è immerso. Non sono stati, infatti, meno importanti i momenti
“informali” come la sosta alla spiaggia del Principe in Costa Smeralda,
le cene e i pranzi sottocoperta, il pranzo in compagnia di una trentina
di altri velisti al Circolo Nautico de La Caletta che ci ha ospitati
come vincitori del primo premio di una miniregata. Una indimenticabile
cena a base di pesce in un piccolo ristorante sul golfo come premio
meritato all’equipaggio tutto. E ancora, fiaccati dal Maestrale prima e
dal Grecale poi, la decisione unanime di rinunciare al terzo giorno di
uscita in mare aperto e di esplorare, poco più a sud, con un breve
tragitto in macchina, alcune delle spiagge più belle del Golfo di
Orosei. Una visita a Lucca, dopo il nostro sbarco a Livorno e un
suggestivo passaggio a Porto Venere, hanno in parte mitigato un
sentimento di nostalgia che inevitabilmente ha pervaso il gruppo. Per
molti di loro, ma credo anche per noi operatori, avendo avuto la
possibilità di conoscerci ed apprezzarci nell’insolita veste di compagni
di viaggio, questo sentimento si è protratto per giorni. Ciò ha però
consentito, in tempi e modi differenti, di ricontattare sentimenti,
emozioni, vissuti e fantasie almeno per una volta alleggerite da spinte
mortifere cariche di angoscia, vergogna e indegnità.
10. Conclusioni
La
Comunità Terapeutica Il Porto nasce nel 1983. A distanza di trent’anni,
la nostra istituzione lavora per offrire risposte il più possibile
efficaci alle espressioni di grave disagio psichico prese in carico dal
Servizio Accettazione. I cambiamenti introdotti in comunità negli ultimi
anni sono stati orientati a offrire interventi terapeutici di alta
qualità, mantenendo un elevato grado di competenza delle diverse équipe
impiegate, con un tasso di turn-over degli operatori che è andato via
via riducendosi. L’Unità di Fase Avanzata, in passato, veniva percepita
dal resto della realtà comunitaria come un luogo non del tutto integrato
nel contesto, avendo un’organizzazione di base in cui era difficile
riconoscere elementi comuni alla prassi terapeutica impiegata nelle
altre due grandi unità. In realtà l’unità è stata fin dall’inizio
pensata non per riprodurre le stesse modalità di trattamento in un
contesto più piccolo, bensì per sfruttare le caratteristiche di questo
contesto al fine di realizzare una fase avanzata della terapia, offrendo
così un’ulteriore opportunità di crescita ai residenti della comunità.
Nel
corso degli anni, l’unità è divenuta una risorsa sempre più utilizzata,
perché è stato possibile definirne le funzioni e il valore, rendendoli
così più facilmente e realisticamente rappresentabili nella mente dei
colleghi che lavorano nelle due unità più grandi, e che sono tutt’oggi i
principali invianti dei pazienti che vengono presi in carico dalla
nostra équipe. Questo processo di crescita e consolidamento è poi
sfociato nell’apertura del Gruppo Appartamento “La Casa al Centro”, che
ha arricchito l’offerta terapeutica del Porto in contesti di residenzialità leggera.
Con
questo contributo abbiamo inteso offrire una descrizione dei contenuti
di questa offerta terapeutica e riabilitativa, soffermandoci sui
presupposti fondanti, sulla nostra interpretazione del trattamento,
sulle competenze e le metodologie utilizzate. Ma abbiamo anche cercato
di descrivere il processo di maturazione che ha portato una piccola
équipe a sentirsi, con il passare degli anni, maggiormente all’altezza
dei problemi che continuamente si trova ad affrontare.
Gli Autori
Marta Abbondanza è psicologa ad indirizzo clinico. Lavora al Porto dal 2005, precedentemente
presso l’Unità per Disturbi da Psicosi “Casa Madre” e, dal 2009,
nell’équipe che ha in carico la residenzialità leggera (Comunità
Alloggio e Gruppo Appartamento). Dal 2012 al 2013 ha ricoperto il ruolo
di Governante della Casa. Da tempo in formazione in ambito Junghiano, è
attualmente in training alla SGAI - Società Gruppoanalitica Italiana.
Matteo Biaggini
è psicologo ad indirizzo clinico, in training come analista presso il
Centro Italiano di Psicologia Analitica. Lavora al Porto Onlus dal 1999,
e dal 2000 fa parte dell’équipe che ha in carico la residenzialità
leggera (Comunità Alloggio e Gruppo Appartamento), di cui è anche
vice-responsabile. È responsabile delle attività culturali e
scientifiche promosse dall’istituzione, e redattore della rivista
Terapia di Comunità.
Alessandro Cerutti
è psicologo psicoterapeuta ad indirizzo gruppoanalitico, ed è membro
del Laboratorio di Gruppoanalisi di Torino. Lavora al Porto dal 2004,
precedentemente presso l’Unità per Disturbi di Personalità “Ex-
Scuderie” e, dal giugno 2012, nell’équipe che ha in carico la
residenzialità leggera (Comunità Alloggio e Gruppo Appartamento).
Palmina Mucci,
medico psichiatra e psicoterapeuta, con master di perfezionamento in
psicoterapia cognitiva, e master in psicoterapia cognitiva del disturbo
borderline di personalità (MIUR). Dal 1984 al 1988 lavora come
consulente psichiatra in strutture dell’Asl e convenzionate. Dal 1989 è
stato medico dirigente di ruolo presso l’SPDC di Molinette e Mauriziano,
operando anche nell’èquipe del servizio territoriale dell’Asl di
competenza. Dal 2001 lavora al Porto: fino al 2003 come consulente
psichiatra nell’Unità per Disturbi da Psicosi “Casa Madre”; successivamente,
dal 2006 in avanti, come Psichiatra Referente nell’équipe che ha in
carico la residenzialità leggera (Comunità Alloggio e Gruppo
Appartamento).
Francesco Nicola Pirisino
è psicologo di indirizzo clinico. Lavoro al Porto dal 2006, fino al
2009 presso l’Unita per Disturbi di Personalità (ex Scuderie), e dal
2010 nell’équipe che ha in carico la residenzialità leggera (Comunità
Alloggio e Gruppo Appartamento). È inoltre referente dei progetti di
reinserimento lavorativo dei pazienti delle suddette Unità.
Alessandra Verardo
è psicologa e psicoterapeuta, specializzata presso la SPP - Scuola di
Psicoterapia Psicoanalitica. Ha lavorato come psicologa in servizi di
tutela materno-infantile, e presso un Ser.T del territorio. Dal 1992
lavora al Porto Onlus, in precedenza nell’Unità per Disturbi da Psicosi,
e dal 2000, in qualità di Responsabile, nell’équipe che ha in carico la
residenzialità leggera (Comunità Alloggio e Gruppo Appartamento).
Bibliografia
Bateman A., Fonagy P., (2006), Il tratttamento basato sulla mentalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano
Benasayag M., Schmit G., L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005
Correale A, Area Traumatica e Campo Istituzionale, Borla, Roma, 2006
Correale A., Aloni A.M., Carnevali A, Di Giuseppe P., Giochetti N. (2001), Borderline. Lo sfondo psichico naturale. Borla, Roma.
Fonagy P. (1999b): “La teoria dell’attaccamento è proprio diversa da quella psicoanalitica? Punti di contatto e divergenze tra i due paradigmi”. In: Fonagy P., Target M.: Attaccamento e funzione riflessiva. Raffaello Cortina, Milano, 2001, pp. 3-26.
Fromm, M.G., La comunità terapeutica come ambiente di holding, in Terapia di Comunità, Anno 2013, n° 54, www.terapiadicomunita.org
Gedo, J.E., Al di là dell’interpretazione. Una nuova teoria della tecnica psicoanalitica, Astrolabio, Roma, 1986
Hinshelwood, R.D., Intervista a Robert Hinshelwood, a cura di Metello Corulli e Matteo Biaggini, in Terapia di Comunità, Anno 2012, n° 52, www.terapiadicomunita.org
Lo
Coco G., Lo Verso G., La cura relazionale. Disturbo psichico e
guarigione nelle terapia di gruppo, Raffaello Cortina, Milano, 2006
Neri C., Gruppo, Borla, Roma, 2004
Racamier P.C., Lo psicoanalista senza divano, Cortina, Milano, 1982
Recalcati M., Il Complesso di Telemaco, Feltrinelli, Milano, 2013
Ricciardi C., Il ruolo dell’aggressività nel processo di separazione, in AA.VV., La separazione, Borla, Roma, 1989
Shapiro, E. R., Resistenza al trattamento e autorità del paziente: il trattamento psicodinamico dell’Austen Riggs Center, in Terapia di Comunità, Anno 2011, n° 48, www.terapiadicomunita.org
Soloff, P.H., “Trattamenti somatici”, pp.613-643, in Oldham, J.M., Skodol, E.A., Bender, D.S., (a
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Siegel D.J., La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Cortina, Milano, 2001
Vender
S., La terra di nessuno fra psichiatria e psicoterapia. Terapia
bipersonale nella clinica psichiatrica, Bollati Boringhieri, Torino,
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Yalom I. (1974), Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Bollati Boringhieri, Torino, 1995
Zapparoli, G., La psicosi e il segreto, Bollati Boringhieri, Torino, 1999
[1] Questo
articolo intende descrivere alcuni aspetti clinici e metodologici della
vita di una Comunità Alloggio e di un Gruppo Appartamento, che
costituiscono gli ultimi passi del percorso di uscita dalla Comunità
Terapeutica con grado più elevato di intensità terapeutica (Unità per
Disturbi da Psicosi oppure Unità per Disturbi di Personalità). Il
lettore può consultare una breve Scheda Tecnica con i riferimenti per
approfondire la conoscenza del modello francese elaborato da Racameir e
Sassolas, e quello anglosassone che trova maggiore applicazione nel
trattamento comunitario dei pazienti ad alta intensità terapeutica. La
scheda presenta inoltre una quadro della normativa e degli accadimenti
nella Regione Piemonte, le modalità attuate dalla Comunità Il Porto
nell’avviare la Comunità Alloggio (Unità di Fase Avanzata ) e il Gruppo
Appartamento (La Casa al Centro). Può
quindi essere di utilità per il lettore, prima di approfondire la
lettura degli aspetti clinici, consultare la Scheda Tecnica a questo
indirizzo: http://www.terapiadicomunita.org/docs/Scheda Tecnica RL.doc.
La Scheda Tecnica è un documento che verrà di volta in volta aggiornato
per registrare i cambiamenti introdotti in quest’area di intervento del
Porto Onlus, e riportarà gli aggiornamenti legislativi in merito.
[2]
L’ordine degli autori è alfabetico e non riflette la sequenza dei temi
trattati nei vari paragrafi. Le note biografiche sugli autori sono in
calce all’articolo.
[3]
La “Forza” a cui ci si riferisce nella citazione è da intendersi come
espressione massima di saggezza, di una sapienza accumulata nel tempo
con pazienza, senza presunzione. Integra aspetti che fanno parte di
diverse religioni e filosofie, ed è anche una metafora della spiritualità. In alcune religioni si ritrova anche come concetto mistico di comunione fra gli uomini;
per esempio nella dottrina cristiana e induista si chiama Luce, nelle
dottrine taoiste e shintoiste si dice “possedere il Tao”. Non allude
quindi ad alcuna attitudine individualistica, onnipotente e grandiosa si
sé, al contrario si riferisce alla possibilità di un piccolo gruppo di
lavoro di sviluppare nel tempo competenze, equilibrio e autorevolezza.
[4] Il lettore può approfondire l’applicazione del concetto di holding alla comunità terapeutica consultando un articolo pubblicato nella rivista del Porto Onlus Terapia di Comunità ad opera di Gerard Fromm, intitolato “La Comunità Terapeutica come ambiente di holding”
[5] In analogia con il concetto di corpo evocato da Resnik
[6]
Se il lettore è interessato ad approfondire la teoria riguardo questo
aspetto del processo terapeutico, può riferirsi al lavoro di John E.
Gedo attorno al concetto di disillusione ottimale:
“La "disillusione ottimale" si riferisce al padroneggiamento non
traumatico di illusioni non realistiche, sia che queste fantasie
riguardino il soggetto stesso, o altri oggetti significativi”.
[7]
Facciamo riferimento in questo caso ad aspetti di grandiosità
narcisistica generalizzabili a diversi disturbi, e quindi non
esclusivamente al Disturbo Narcisistico di Personalità.
[8]
Per una trattazione approfondita del concetto di mentalizzazione il
lettore può riferirsi al lavoro di Anthony Bateman e Peter Fonagy. È
possibile trovare una descrizione di questo concetto e la bibliografia
relativa in un articolo di Metello Corulli, intitolato “Dalla cultura psicoanalitica alla cultura della comunità terapeutica. Frammenti di un discorso transgenerazionale”, pubblicato nella rivista Psiche – Rivista di Cultura Psicoanalitica (www.psiche-spi.it), n° 1, 2013.
[9]
Utilizziamo qui il termine riferendoci principalmente alle definizione
data da Giorgio Sacerdoti e Savo Spaçal (1985), che sottolineano
l’importanza di due significati convergenti: «il potere e l’atto di
vedere dentro a una situazione», e «l’atto di afferrare (apprehending)
l’intima (inner) natura delle cose». L’importanza dell’insight è dunque
quella di apertura ad un cambiamento del paziente.
[10]
L’automonitoraggio corrisponde al processo riflessivo sul proprio
comportamento. Con il termine self-agency si intende il riconoscersi
come protagonista delle proprie azioni.
[11] Il lettore può fare riferimento al paragrafo 3 e al paragrafo 7 per una descrizione più dettagliata e approfondita.
[12] Sul
tema dell’Autorità del paziente nei percorsi di curi suggeriamo la
lettura di un articolo di estremo interesse pubblicato nella rivista del
Porto Onlus Terapia di Comunità ad opera di Edward Shapiro, dal titolo “Resistenza al trattamento e autorità del paziente: il trattamento psicodinamico dell’Austen Riggs Center”
[13] Bion ha approfondito il concetto di cambiamento di vertici osservativi, ovvero di visioni prospettiche, che contribuiscono ad arricchire la conoscenza complessiva della vita psichica.
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