giovedì 9 gennaio 2014

Comunità Terapeutica “inclusiva” o “esclusiva” per il trattamento della “doppia diagnosi” in residenzialità



Comunità Terapeutica “inclusiva” o “esclusiva” per il trattamento della “doppia diagnosi” in residenzialità

 

  di Massimo Clerici

Il Trattamento Residenziale Comunitario (TRC) è universalmente indicato, in letteratura, come il più adatto per il trattamento dei pazienti con “doppia diagnosi”, a patto che si realizzi una valida “integrazione” tra l’approccio terapeutico al disturbo psichiatrico e quello al disturbo da uso di sostanze. Il termine "integrazione", peraltro, pone alcuni problemi fondamentali a livello di:

1.       , non ha competenze nella cura di pazienti che hanno – contemporaneamente - disturbi su entrambi i versanti della doppia diagnosi. Si verifica, infatti, che se l'operatore possiede competenze sul versante della dipendenza, si trova spesso disorientato, invece, sul versante psicopatologico (la follia e la sua “incomprensibilità”). Formazione professionale di uno staff che, spesso Tale disorientamento non di rado suscita angosce e difese reattive sia a livello personale che - a cascata - sull'istituzione comunitaria. In caso contrario, se l'operatore può mettere in campo competenze sul versante psicopatologico, non di rado si trova disorientato sul versante della dipendenza (il comportamento di abuso e il rapporto esclusivo con la sostanza). Tale disorientamento suscita, questa volta, sentimenti di manipolazione e di esclusione dalla relazione con conseguenti difese espulsive e moraleggianti. Gli elementi che si possono ritenere qualificanti per la formazione dello staff, rispetto ai deficit professionali citati si collocano ai seguenti livelli:

-       relazione con il paziente: operatore come strumento per favorire sia una alleanza terapeutica, sia l'identificazione con modelli relazionali positivi;

-       utilizzo di psicofarmaci: il solo ambiente comunitario non è esaustivo del trattamento della sofferenza psicopatologica di cui il paziente é portatore;

-       ruolo del metadone: farmaco in grado di operare su quelle forme di malessere sintomatologico non accessibili da altri strumenti terapeutici il cui impiego non è mai da proscrivere ideologicamente;

-       flessibilità del setting comunitario: la comunità terapeutica si caratterizza come "laboratorio relazionale" per la sperimentazione di modelli esistenziali meno rigidamente ripetitivi e disadattavi;

-       programma terapeutico-riabilitativo individualizzato: centratura sulla personalizzazione e sull’adattamento delle tecniche riabilitative impiegate;

-       consapevolezza del grave disturbo psicopatologico all’interno di un percorso di cura che precede/segue la permanenza in comunità;

-       attenzione al lavoro di rete con i Servizi delle Tossicodipendenze (SerT) e con i Servizi del Dipartimento di Salute Mentale (DSM), nonché eventuali reti naturali presenti sul territorio per la continuità del percorso terapeutico;

-       condivisione (nel sottosistema staff e nel sottosistema utenti) degli obiettivi da raggiungere (contratto terapeutico e personalizzazione);

-       valutazione d'esito degli interventi erogati in regime di residenzialità e verifica nel tempo dei risultati (follow-up).
 

2)       Forme di delega, spesso operate dai Servizi invianti, che si esprimono nei seguenti livelli:

-       appropriatezza degli invii: non di rado si verifica che l'invio avvenga secondo modalità strumentali (dell'équipe curante o del paziente) senza un appropriato periodo preliminare di preparazione al percorso di cura;

-       mandato terapeutico vs controllo sociale: l'invio avviene secondo una implicita richiesta, da parte dell'équipe curante o da altre agenzie sociali, di un esclusivo contenimento socio-sanitario;

-       comunità come “ultima spiaggia”: quando l'invio è il risultato di una collusione tra l'utente che ha sperimentato diversi fallimenti terapeutici e l'équipe curante che ha cortocircuitato le proprie risorse terapeutiche e non è più in grado di progettare altre forme di intervento.

3)       Una migliorata capacità di individuazione della comorbidità nelle sue più diverse sfaccettature che non risulta capace, però di modificare il modello rigido di trattamento o di riabilitazione

 

La specializzazione o meno del luogo di cura: comunità “inclusiva” vs comunità “esclusiva”?

Una premessa importante a questo tema può essere ritrovata nel fatto che l'individuazione e l’accettazione della tipologia della “dualità”, nell’ambito dei pazienti con disturbi da uso di sostanze, abbia permesso, in questi ultimi anni, la riconversione di molte comunità in evidente crisi progettuale. Negli anni duemila, infatti, la residenzialità comunitaria non è più considerata lo strumento privilegiato di intervento nel campo della tossicodipendenza e ciò ha indotto, almeno per le comunità più rigide ideologicamente, un consistente calo di invii e non minori difficoltà economiche (rette) ed organizzative (adeguamento di “grandi” programmi a “piccole” utenze). La riscoperta di un nuovo gruppo - apparentemente "omogeneo" - di tossicodipendenti (i cosiddetti duali) permetterebbe, almeno teoricamente, la risoluzione di questo problema. Ma questa premessa implica, come sempre, anche una serie di considerazioni problematiche:

1.       Le comunità tendono ad includere nelle loro strutture sia tossicodipendenti con manifesto disturbo psicopatologico, sia tossicodipendenti in cui la sostanza é l'elemento qualificante nella definizione del loro stato di sofferenza psicologica. Ciò produce un effetto di distorsione della percezione della “normale” tossicodipendenza in quanto si banalizza la sofferenza della persona e si dimentica l'esistenza di un'organizzazione di personalità e/o di un disagio psicologico che necessitano comunque di un riconoscimento e, di conseguenza, di un trattamento professionale clinico e pedagogico.

2.       Da sempre, la tossicodipendenza è un sintomo e perciò il disagio sottostante non può essere affrontato con pretese di esclusiva ristrutturazione rieducazionale; l'esperienza ha mostrato chiaramente che l’aspetto educativo non può essere sempre così risolutivo come si prevedeva un tempo.

3.       Il fatto di considerare la tossicodipendenza come un epifenomeno sintomatico, porta a ritenere che il grave disagio sottostante (sia che arrivi a strutturarsi in forme psichiatricamente riconoscibili e descrivibili, sia che venga decapitato o silenziato dalle sostanze e quindi non riesca ad esprimersi con chiarezza) richieda un'attrezzatura adeguata per essere affrontato efficacemente e appropriatamente.

4.       Proprio per questo si può ritenere che per le caratteristiche della dualità, nonché dei luoghi di cura ad essa dedicati, sia necessario pensare ad una comunità terapeutica di tipo “esclusivo”. Le categorie qualificanti di questo modello potrebbero essere le seguenti:

-       La comunità terapeutica come spazio/tempo:

·         inizialmente transizionale, con attività autocentrate e interne alla comunità;

·         successivamente orientato verso il tessuto sociale.

-       La comunità terapeutica con una cornice di riferimento:

·         il concetto di programma individualizzato risulta centrale;

·         il concetto di programma articolato sui piani della terapia, della riabilitazione e del reinserimento (compatibilmente con il livello di funzionamento globale della persona).

-       La comunità terapeutica con una serie di categorie di riferimento:

·         la relazione operatore-paziente

·         la relazione paziente-paziente

-       La comunità terapeutica con una strumentazione adeguata:

·         sull'asse farmacologico

·         sull'asse sostitutivo

·         sull'asse psicologico-psicoterapeutico

·         sull'asse psichiatrico

·         sull'asse pedagogico

·         sull'asse ludico-ricreativo

·         sull'asse dell'impegno performativo (reinserimento)

Ipotesi di modello comunitario

Questo modello di comunità terapeutica - di tipo esclusivo - si rifà ad una cornice teorica relativa ad alcuni concetti della psichiatria di comunità (territorialità, integrazione dei servizi sia pubblici che del privato sociale [rete], programma articolato in tre livelli quali terapia, riabilitazione e reinserimento) e della psicopatologia psicodinamica (la relazione, il sintomo come spia di un conflitto e/o di un deficit, l’impiego della persona dell'operatore come strumento terapeutico). All'interno di questa cornice teorica l'accento è posto sul concetto della riabilitazione relazionale. Esistono diversi concetti di riabilitazione; in questo caso è l'aggettivo "relazionale" a definire il concetto di riabilitazione, in quanto in grado di porre l'accento non tanto sul compito (performance) quanto piuttosto sul fare insieme (relazione). Infine, l'ipotesi di un modello di comunità di tipo esclusivo pone l'accento, secondo la nostra opinione, su un modello istituzionale volto alla multidimensionalità epistemologica del fenomeno della dualità. Tale modello istituzionale si declina e si operazionalizza sui tre livelli di intervento citati (terapia-riabilitazione-reinserimento) che vanno ad interessare sia il mondo interno che la parte sana dell'utente.




Rifacendosi, come detto, ad una cornice relativa ad alcuni concetti della psichiatria di comunità, questo modello di CT di tipo esclusivo si rifà, in primis, alle categorie qualificanti della:

1.       Territorialità, intesa come rispetto dell’appartenenza socioculturale del paziente. Pertanto, la stessa struttura comunitaria diventa uno dei luoghi della cura. Si può pensare così ad una sequenza terapeutica che in un primo momento enfatizzi l’abitare come esperienza curativa e, in un secondo momento, un graduale e compatibile spostamento del focus del trattamento verso il territorio di appartenenza.

2.       Rete, ovvero che percorre potenzialmente tutto l’organismo sociale senza separatezza e limitazioni. La comunità terapeutica si integrerebbe con le Agenzie presenti sul territorio in una interazione che supera sia le tradizionali divisioni fra privato e pubblico, sia le divisioni fra funzioni affidate a soggetti istituzionali e a soggetti extra-istituzionali.

Ma altrettanto importanti risultano, per un programma di trattamento individualizzato che agisca sui piani della terapia, della riabilitazione (relazionale) e del reinserimento, i già citati livelli di intervento per i quali si rinvia alla declinazione operativa della psicopatologia psicodinamica. Le sue categorie qualificanti sono:

1.       La relazione intesa nella sua accezione di alleanza terapeutica e di rapporto “reale”. Il rapporto “reale” comprende i due significati di:

- rapporto reale come realistico, cioè orientato realisticamente (in contrapposizione al termine transfert che indica un rapporto deformato e irreale);

- rapporto reale come genuino, autentico (in opposizione ad artificioso, forzato, falso).

2.       La comprensione del sintomo come spia del conflitto e/o di un deficit.

3.       L’utilizzo della persona dell’operatore (in quanto persona) come strumento terapeutico: l’operatore di comunità che diventa consapevole delle emozioni e dei comportamenti in lui suscitati dal paziente cerca di utilizzarli come elementi di costruzione di una buona relazione.

Infine, le categorie qualificanti della riabilitazione relazionale che possono essere considerate in questo contesto sono:

1.       La qualificazione dell’aggettivo “relazionale” come accento non tanto sul compito (performance) quanto sull’aumento della capacità di costruzione delle relazioni interpersonali.

2.       Il concetto di laboratorio relazionale inteso nel senso di contesto spazio-temporale dove l’individuo fa esperienza delle diverse componenti della relazione al fine di verificare i suoi stili relazionali nel tentativo di renderli meno rigidi, meno ripetitivi e più flessibili sia da un punto di vista emotivo-affettivo che comportamentale.

 


Ipotesi di modello curativo


Questo modello non può prescindere dall’individuazione di alcune categorie che lo definiscono e che sono collocate a diversi livelli dell’istituzione e che riteniamo fondanti per un modello esclusivo di cura:

1° livello: il paradigma culturale. Questo paradigma comporta l’adesione al modello conoscitivo multidimensionale che si fonda sulla necessaria co-presenza ed integrazione delle diverse aree del sapere. Quindi, non esiste un solo modello conoscitivo, sia esso di matrice biologica, psicologica, socio-pedagogica e - di conseguenza - un solo strumento (un farmaco, un approccio psicoterapeutico, un’organizzazione comunitaria, un modello pedagogico-educativo) come “unico strumento terapeutico”.

2° livello: le diadi dell’offerta istituzionale. L’istituzione dovrebbe essere in grado di riconoscere le forme implicite ma reali di proposta (istituzionale) che offrirebbe all’utente e le conseguenti risposte di cura secondo le seguenti diadi:

custodialismo/controllo

assistenza/accudimento

riabilitazione/cambiamento sociale

terapia/cambiamento personale

La proposta istituzionale dovrebbe essere calibrata sulla situazione reale dell’utente. Un’apparente proposta di cura che avesse una risposta differente rispetto alla diade (ad esempio, proporre una riabilitazione e limitarsi ad un accudimento), potrebbe colludere con le richieste dell’utente stesso (ad esempio, ricercare una forma di assistenza travisandola per una situazione di cambiamento sociale). La mancata conoscenza di ciò che implicitamente guida l’istituzione nelle sue proposte e, conseguentemente, l’assenza di una chiara contrattazione, genererebbe situazioni di fraintendimento e di collusività con le aspettative implicite dell’utenza stessa.

3° livello: la transizionalità e la graduazione di supporto. Il programma di trattamento può essere orientato verso un’elevata transizionalità (programmi organizzati in maniera tale da trasmettere con chiarezza e coerenza il messaggio della provvisorietà della situazione residenziale) oppure verso una non transizionalità (programmi che hanno l’obiettivo di promuovere la sicurezza, la stabilità e il senso di proprietà nella vita degli utenti. Un alto livello di transizionalità, che caratterizza il programma di trattamento è, in genere, inversamente proporzionale al livello di supporto di cui necessita il paziente nella residenza comunitaria ed ha una ricaduta sugli obiettivi per quanto riguarda:

-       l’esplicitazione di una intenzione di evoluzione verso un aumento dell’autonomia e della contrattualità del paziente,

-       la sua potenziale dimissione,

-       le pratiche che privilegiano contesti di vita comuni all’esterno della residenza,

-       le procedure di collaborazione con soggetti diversi.

Di conseguenza, il rapporto tra transizionalità e livello di supporto condiziona gli scambi tra la dimensione “istituzione della comunità” e la realtà sociale extra-istituzionale: essi sono quindi più facilmente intensi quando c’è alta transizionalità.

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