Comunità Terapeutica “inclusiva” o “esclusiva” per il trattamento della “doppia diagnosi” in residenzialità
di Massimo Clerici
Il Trattamento Residenziale Comunitario (TRC) è universalmente
indicato, in letteratura, come il più adatto per il trattamento dei pazienti
con “doppia diagnosi”, a patto che si realizzi una valida “integrazione” tra
l’approccio terapeutico al disturbo psichiatrico e quello al disturbo da uso di
sostanze. Il termine "integrazione", peraltro, pone alcuni problemi
fondamentali a livello di:
1. , non ha competenze nella
cura di pazienti che hanno – contemporaneamente - disturbi su entrambi i versanti
della doppia diagnosi. Si verifica, infatti, che se l'operatore possiede
competenze sul versante della dipendenza, si trova spesso disorientato, invece,
sul versante psicopatologico (la follia e la sua “incomprensibilità”). Formazione
professionale di uno staff che, spesso Tale disorientamento non di rado
suscita angosce e difese reattive sia a livello personale che - a cascata -
sull'istituzione comunitaria. In caso contrario, se l'operatore può mettere in
campo competenze sul versante psicopatologico, non di rado si trova
disorientato sul versante della dipendenza (il comportamento di abuso e il
rapporto esclusivo con la sostanza). Tale disorientamento suscita, questa
volta, sentimenti di manipolazione e di esclusione dalla relazione con conseguenti
difese espulsive e moraleggianti. Gli elementi che si possono ritenere
qualificanti per la formazione dello staff, rispetto ai deficit professionali
citati si collocano ai seguenti livelli:
-
relazione con il paziente: operatore come strumento
per favorire sia una alleanza terapeutica, sia l'identificazione con modelli
relazionali positivi;
-
utilizzo di psicofarmaci: il solo ambiente
comunitario non è esaustivo del trattamento della sofferenza psicopatologica di
cui il paziente é portatore;
-
ruolo del metadone: farmaco in grado di
operare su quelle forme di malessere sintomatologico non accessibili da altri
strumenti terapeutici il cui impiego non è mai da proscrivere ideologicamente;
-
flessibilità del setting
comunitario:
la comunità terapeutica si caratterizza come "laboratorio relazionale" per la sperimentazione di modelli
esistenziali meno rigidamente ripetitivi e disadattavi;
-
programma
terapeutico-riabilitativo individualizzato: centratura sulla personalizzazione e
sull’adattamento delle tecniche riabilitative impiegate;
-
consapevolezza del grave
disturbo psicopatologico all’interno di un percorso di cura che precede/segue la permanenza in
comunità;
-
attenzione al lavoro di rete con i Servizi delle Tossicodipendenze (SerT) e con
i Servizi del Dipartimento di Salute Mentale (DSM), nonché eventuali reti
naturali presenti sul territorio per la continuità del percorso terapeutico;
-
condivisione (nel sottosistema staff e nel sottosistema utenti) degli obiettivi
da raggiungere (contratto terapeutico e personalizzazione);
-
valutazione d'esito degli interventi erogati in regime di residenzialità e verifica nel
tempo dei risultati (follow-up).
2) Forme di delega, spesso operate dai Servizi
invianti, che si esprimono nei seguenti livelli:
-
appropriatezza degli invii: non di rado si verifica che l'invio avvenga
secondo modalità strumentali (dell'équipe curante o del paziente) senza un
appropriato periodo preliminare di preparazione al percorso di cura;
-
mandato terapeutico vs controllo sociale: l'invio avviene secondo
una implicita richiesta, da parte dell'équipe curante o da altre agenzie
sociali, di un esclusivo contenimento socio-sanitario;
-
comunità come “ultima spiaggia”: quando l'invio è il risultato di una
collusione tra l'utente che ha sperimentato diversi fallimenti terapeutici e
l'équipe curante che ha cortocircuitato le proprie risorse terapeutiche e non è
più in grado di progettare altre forme di intervento.
3) Una migliorata capacità di individuazione della
comorbidità nelle sue più diverse
sfaccettature che non risulta capace, però di modificare il modello rigido di
trattamento o di riabilitazione
La
specializzazione o meno del luogo di cura: comunità “inclusiva” vs comunità
“esclusiva”?
Una premessa importante a questo tema può essere
ritrovata nel fatto che l'individuazione e l’accettazione della tipologia della
“dualità”, nell’ambito dei pazienti con disturbi da uso di sostanze, abbia
permesso, in questi ultimi anni, la riconversione di molte comunità in evidente
crisi progettuale. Negli anni duemila, infatti, la residenzialità comunitaria
non è più considerata lo strumento privilegiato di intervento nel campo della
tossicodipendenza e ciò ha indotto, almeno per le comunità più rigide
ideologicamente, un consistente calo di invii e non minori difficoltà
economiche (rette) ed organizzative (adeguamento di “grandi” programmi a
“piccole” utenze). La riscoperta di un nuovo gruppo - apparentemente
"omogeneo" - di tossicodipendenti (i cosiddetti duali) permetterebbe,
almeno teoricamente, la risoluzione di questo problema. Ma questa premessa
implica, come sempre, anche una serie di considerazioni problematiche:
1. Le comunità tendono ad
includere nelle loro strutture sia tossicodipendenti con manifesto disturbo
psicopatologico, sia tossicodipendenti in cui la sostanza é l'elemento
qualificante nella definizione del loro stato di sofferenza psicologica. Ciò
produce un effetto di distorsione della percezione della “normale”
tossicodipendenza in quanto si banalizza la sofferenza della persona e si
dimentica l'esistenza di un'organizzazione di personalità e/o di un disagio
psicologico che necessitano comunque di un riconoscimento e, di conseguenza, di
un trattamento professionale clinico e pedagogico.
2. Da sempre, la
tossicodipendenza è un sintomo e perciò il disagio sottostante non può essere
affrontato con pretese di esclusiva ristrutturazione rieducazionale;
l'esperienza ha mostrato chiaramente che l’aspetto educativo non può essere
sempre così risolutivo come si prevedeva un tempo.
3. Il fatto di considerare la
tossicodipendenza come un epifenomeno sintomatico, porta a ritenere che il
grave disagio sottostante (sia che arrivi a strutturarsi in forme
psichiatricamente riconoscibili e descrivibili, sia che venga decapitato o
silenziato dalle sostanze e quindi non riesca ad esprimersi con chiarezza)
richieda un'attrezzatura adeguata per essere affrontato efficacemente e
appropriatamente.
4. Proprio per questo si può
ritenere che per le caratteristiche della dualità, nonché dei luoghi di cura ad
essa dedicati, sia necessario pensare ad una comunità terapeutica di tipo
“esclusivo”. Le categorie qualificanti di questo modello potrebbero essere le
seguenti:
-
La comunità terapeutica come
spazio/tempo:
·
inizialmente transizionale, con attività autocentrate e interne alla
comunità;
·
successivamente orientato verso il tessuto sociale.
-
La comunità terapeutica con
una cornice di riferimento:
·
il concetto di programma individualizzato risulta centrale;
·
il concetto di programma articolato sui piani della terapia, della
riabilitazione e del reinserimento (compatibilmente con il livello di
funzionamento globale della persona).
-
La comunità terapeutica con
una serie di categorie di riferimento:
·
la relazione operatore-paziente
·
la relazione paziente-paziente
-
La comunità terapeutica con
una strumentazione adeguata:
·
sull'asse farmacologico
·
sull'asse sostitutivo
·
sull'asse psicologico-psicoterapeutico
·
sull'asse psichiatrico
·
sull'asse pedagogico
·
sull'asse ludico-ricreativo
·
sull'asse dell'impegno performativo (reinserimento)
Ipotesi di
modello comunitario
Questo modello di comunità
terapeutica - di tipo esclusivo - si rifà ad una cornice teorica relativa ad
alcuni concetti della psichiatria di comunità (territorialità, integrazione dei
servizi sia pubblici che del privato sociale [rete], programma articolato in
tre livelli quali terapia, riabilitazione e reinserimento) e della
psicopatologia psicodinamica (la relazione, il sintomo come spia di un
conflitto e/o di un deficit, l’impiego della persona dell'operatore come
strumento terapeutico). All'interno di questa cornice teorica l'accento è posto
sul concetto della riabilitazione relazionale. Esistono diversi concetti di
riabilitazione; in questo caso è l'aggettivo "relazionale" a definire
il concetto di riabilitazione, in quanto in grado di porre l'accento non tanto
sul compito (performance) quanto piuttosto sul fare insieme (relazione).
Infine, l'ipotesi di un modello di comunità di tipo esclusivo pone l'accento,
secondo la nostra opinione, su un modello istituzionale volto alla
multidimensionalità epistemologica del fenomeno della dualità. Tale modello
istituzionale si declina e si operazionalizza sui tre livelli di intervento
citati (terapia-riabilitazione-reinserimento) che vanno ad interessare sia il
mondo interno che la parte sana dell'utente.
Rifacendosi, come detto, ad una cornice relativa ad alcuni concetti della psichiatria di comunità, questo modello di CT di tipo esclusivo si rifà, in primis, alle categorie qualificanti della:
1. Territorialità, intesa come rispetto dell’appartenenza socioculturale del paziente.
Pertanto, la stessa struttura comunitaria diventa uno dei luoghi della cura. Si
può pensare così ad una sequenza terapeutica che in un primo momento enfatizzi
l’abitare come esperienza curativa e, in un secondo momento, un graduale e
compatibile spostamento del focus del trattamento verso il territorio di
appartenenza.
2. Rete,
ovvero che percorre potenzialmente tutto l’organismo sociale senza separatezza
e limitazioni. La comunità terapeutica si integrerebbe con le Agenzie presenti
sul territorio in una interazione che supera sia le tradizionali divisioni fra
privato e pubblico, sia le divisioni fra funzioni affidate a soggetti
istituzionali e a soggetti extra-istituzionali.
Ma altrettanto importanti risultano, per un
programma di trattamento individualizzato che agisca sui piani della terapia,
della riabilitazione (relazionale) e del reinserimento, i già citati livelli di
intervento per i quali si rinvia alla declinazione operativa della psicopatologia
psicodinamica. Le sue categorie qualificanti sono:
1. La relazione intesa nella sua accezione di alleanza terapeutica e di
rapporto “reale”. Il rapporto “reale” comprende i due significati di:
- rapporto reale
come realistico, cioè orientato realisticamente (in contrapposizione al
termine transfert che indica un rapporto deformato e irreale);
- rapporto reale come genuino, autentico
(in opposizione ad artificioso, forzato, falso).
2.
La comprensione del sintomo come
spia del conflitto e/o di un deficit.
3. L’utilizzo della persona
dell’operatore (in quanto persona) come strumento terapeutico: l’operatore
di comunità che diventa consapevole delle emozioni e dei comportamenti in lui
suscitati dal paziente cerca di utilizzarli come elementi di costruzione di una
buona relazione.
Infine, le categorie
qualificanti della riabilitazione relazionale che possono essere considerate in
questo contesto sono:
1. La qualificazione
dell’aggettivo “relazionale” come accento non tanto sul compito (performance)
quanto sull’aumento della capacità di costruzione delle relazioni
interpersonali.
2. Il concetto di laboratorio relazionale inteso nel
senso di contesto spazio-temporale dove l’individuo fa esperienza delle diverse
componenti della relazione al fine di verificare i suoi stili relazionali nel
tentativo di renderli meno rigidi, meno ripetitivi e più flessibili sia da un
punto di vista emotivo-affettivo che comportamentale.
Ipotesi
di modello curativo
Questo modello non può prescindere
dall’individuazione di alcune categorie che lo definiscono e che sono collocate
a diversi livelli dell’istituzione e che riteniamo fondanti per un modello
esclusivo di cura:
1° livello: il paradigma culturale. Questo paradigma comporta l’adesione al
modello conoscitivo multidimensionale
che si fonda sulla necessaria co-presenza ed integrazione delle diverse aree
del sapere. Quindi, non esiste un solo modello conoscitivo, sia esso di matrice
biologica, psicologica, socio-pedagogica e - di conseguenza - un solo strumento
(un farmaco, un approccio psicoterapeutico, un’organizzazione comunitaria, un
modello pedagogico-educativo) come “unico strumento terapeutico”.
2° livello: le
diadi dell’offerta istituzionale. L’istituzione dovrebbe essere in grado di
riconoscere le forme implicite ma reali di proposta (istituzionale) che
offrirebbe all’utente e le conseguenti risposte di cura secondo le seguenti
diadi:
custodialismo/controllo
assistenza/accudimento
riabilitazione/cambiamento sociale
terapia/cambiamento personale
La proposta istituzionale dovrebbe essere calibrata
sulla situazione reale dell’utente. Un’apparente proposta di cura che avesse
una risposta differente rispetto alla diade (ad esempio, proporre una
riabilitazione e limitarsi ad un accudimento), potrebbe colludere con le
richieste dell’utente stesso (ad esempio, ricercare una forma di assistenza
travisandola per una situazione di cambiamento sociale). La mancata conoscenza
di ciò che implicitamente guida l’istituzione nelle sue proposte e,
conseguentemente, l’assenza di una chiara contrattazione, genererebbe
situazioni di fraintendimento e di collusività con le aspettative implicite
dell’utenza stessa.
3° livello: la
transizionalità e la graduazione di supporto. Il programma di trattamento può essere
orientato verso un’elevata transizionalità
(programmi organizzati in maniera tale da trasmettere con chiarezza e
coerenza il messaggio della provvisorietà della situazione residenziale) oppure
verso una non transizionalità (programmi
che hanno l’obiettivo di promuovere la sicurezza, la stabilità e il senso di
proprietà nella vita degli utenti. Un alto livello di transizionalità, che
caratterizza il programma di trattamento è, in genere, inversamente
proporzionale al livello di supporto di cui necessita il paziente nella
residenza comunitaria ed ha una ricaduta sugli obiettivi per quanto riguarda:
-
l’esplicitazione di una intenzione di evoluzione verso un aumento
dell’autonomia e della contrattualità del paziente,
-
la sua potenziale dimissione,
-
le pratiche che privilegiano contesti di vita comuni all’esterno della
residenza,
-
le procedure di collaborazione con soggetti diversi.
Di conseguenza, il rapporto tra transizionalità e
livello di supporto condiziona gli scambi tra la dimensione “istituzione della
comunità” e la realtà sociale extra-istituzionale: essi sono quindi più
facilmente intensi quando c’è alta transizionalità.
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