domenica 8 febbraio 2015

LE ORGANIZZAZIONI COME CONTENITORE







LE ORGANIZZAZIONI COME CONTENITORE





Anno
14, n. 59, Dicembre 2014
Robert. D. Hinshelwood


Traduzione a cura di Matteo Biaggini


Relazione
magistrale presentata al Convegno Internazionale organizzato dall’Associazione
Mito & Realtà, intitolato Quotidianità ed emergenza. La manutenzione
del contenitore istituzionale
,
tenutosi a Milano il 26 settembre 2014.

Note biografice sull’autore in calce
all’articolo.



Terapia
di Comunità
Rivista
bimestrale di psicologia


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Rivista ufficiale della
Comunità Terapeutica
IL
PORTO onlus
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1.      Introduzione

In inglese, talvolta
diciamo a bambini quando diventano molto eccitati che si dovrebbero
“contenere”. Si tratta di un’affermazione utilizzata tutti i giorni e
comunemente dai genitori. Ma negli ultimi 50 anni, l’idea di contenere gli
stati emotivi ha acquisito un significato specifico per la psicoanalisi. Freud
scoprì che con la crescita, la mente dei bambini trovava modalità di
proteggersi per fronteggiare una varietà di esperienze, che sarebbero di
conseguenza riaffiorate nei sogni e nei sintomi. Ognuno quindi possiede una
mente inconscia, perchè tutti abbiamo avuto pensieri, sensazioni ed esperienze
terribili che devono essere isolati dietro un muro - un muro che Freud chiamò
rimozione.

Per molto tempo la
pratica della psicoanalisi si è focalizzata su questa protezione che le nostre
menti adottano per difendersi da ricordi dolorosi del passato, e da situazioni
angosciose nel presente. Comunque, il solo parlare a un paziente delle difese
con cui si protegge serve a poco. Ed è ovvio che se chiediamo ai pazienti di rinunciare
alle proprie difese, li esponiamo al dolore da cui sentono il bisogno di
difendersi. Quindi, il focus si è spostato sul dolore e sull’ansia al di là
delle difese protettive. In altre parole gli psicoanalisti si sono resi conto
che è necessario parlare con i pazienti delle loro ansie almeno quanto delle
difese. E ancor più, che i pazienti hanno bisogno di sapere che l’analista non
sta solo parlando di teorie sui conflitti e le ansie, bensì che sa cosa
significa provare quelle ansie. Come Rosenfeld sottolineò nel suo libro
sull’empasse:

“Un
prerequisito del trattamento psicoanalitico è che sia necessario entrare
sufficientemente in contatto con i sentimenti e i pensieri del paziente, per
sentire e fare una esperienza personale di ciò che sta vivendo il paziente”.
(Rosenfeld 1987, p. 12).


In termini kleiniani,
un paziente proietterà i suoi sentimenti nell’analista che dovrà essere “un
sensibile apparato ricettivo” – questa era un’idea derivata dall’originaria
concezione di Freud dell’inconscio dell’analista che riceve-accoglie
l’inconscio del paziente. È in relazione a queste proiezioni che l’analista
“contiene” le esperienze del paziente. Di fatto l’analista accoglie quelle
esperienze che il paziente proietta, e in questo modo ne fa esperienza, non limitandosi
solamente a parlarne.

Al di là dei risvolti
più tecnici, tutti questi aspetti sono implicati nella teoria dell’interazione
madre-bambino. Quando il figlio piange, la madre avverte effettivamente le
avvisaglie di uno stato di allarme relativamente al bambino. In altri termini,
il contenimento esercitato attraverso la proiezione è una forma piuttosto
normale di interazione umana. La prima descrizione che diede Bion del
contenimento è la seguente:


“La
situazione analitica ha progressivamente consolidato nella mia mente la
sensazione di essere testimone di una scena estremamente precoce. Ho avvertito
che il paziente ha fatto esperienza nell’infanzia di una madre che ha
coscienziosamente risposto alle manifestazioni emotive del bambino. Questa
coscienziosa risposta aveva al suo interno una componente di ansia del tipo
“non so cosa stia capitando a questo bimbo”. La mia deduzione fu che al fine di
comprendere cosa il bambino volesse, la madre avrebbe dovuto trattare il pianto
del figlio come qualcosa che andava oltre una domanda di presenza. Dal punto di
vista del bambino lei avrebbe dovuto prendere dentro di sè – in questo modo
facendone esperienza diretta - la paura che il bambino stesse morendo. Era
questa paura che il bambino non era in grado di contenere. Lottava per
espellerla assieme alla parte della personalità in cui era collocata,
proiettandola nella madre. Una madre capace di una reale comprensione è in
grado di sperimentare il sentimento di terrore, che questo bambino stava
sforzandosi di affrontare attraverso l’identificazione proiettiva, mantenendo
nonostante questo un atteggiamento equilibrato”. (Bion 1959. p, 312-313).

In sostanza egli
descrive come questa interazione origini molto presto nella vita, rivelandosi
fondante per lo sviluppo di una persona. È anche individuabile nelle comuni
conversazioni tra adulti: “condividiamo” le nostre esperienze con gli altri, e
ci aspettiamo che un amico sappia realmente cosa proviamo, quando siamo tristi
o preoccupati.


2.   
Organizzazioni
e stress

Quindi, questa
modalità proiettiva di comunicazione e contenimento è abbastanza diffusa tra le
persone; ma si manifesta anche nei gruppi sociali e nelle organizzazioni
lavorative? E questo tipo di contenimento influisce sull’efficacia del lavoro
di gruppo organizzato? Bene, è opinione largamente condivisa che questa
attività di contenimento esista nella organizzazioni lavorative in una qualche
forma – sebbene questa resti una questione ancora aperta.

Nonostante Bion
avesse studiato le dinamiche di gruppo negli anni ’40 prima di diventare
psicoanalista, iniziò a pensare psicoanaliticamente a questi temi solo negli
anni a cavallo tra il 1952 e il 1955, per tralasciarli in seguito. Ma Elliot
Jacques portò avanti questo discorso dopo il ’53, e la sua collaboratrice Isabel
Menzies (1959) fece studi sulle organizzazioni sanitarie utilizzando le sue
idee. Jacques pensava che gli individui nelle organizzazioni potessero
utilizzare l’organizzazione sociale per supportare le proprie difese
psicologiche. E che oltretutto potessero fare ciò collettivamente, influenzando
l’intera cultura dell’organizzazione, talvolta distorcendola. Le modalità di
svolgimento del lavoro possono essere di sostegno alle difese degli individui,
e possono anche distogliere l’organizzazione lavorativa dal suo principale
proposito, altrimenti detto compito primario. Fenomeni di questo tipo
costituiscono una dimensione inconscia della cultura; e, essendo inconsci, sono
essenzialmente sconosciuti. I loro effetti possono essere colti, ma non possono
essere corretti senza una qualche comprensione della natura dei processi
inconsci – l’ansia, i conflitti e le difese. E questi problemi, se mi è
concesso dirlo, riguardano anche le organizzazioni psicoanalitiche e
psicoterapeutiche!

Cercherò
di darvi alcune idee di queste caratteristiche inconsce delle organizzazioni.
Una delle prime idee di Jaques è questa:

“Gli
individui possono mettere i propri conflitti interni in persone del mondo
esterno, seguire inconsciamente il corso del conflitto per mezzo dell’identificazione
proiettiva, e re-internalizzare il corso del conflitto per mezzo
dell’identificazione introiettiva”. (Jaques, 1955, p. 497).

Questa è una
formulazione in termini di proiezione, un processo che si sviluppa nei gruppi
sociali, e che assomiglia al contenimento nella situazione di terapia.
Tipicamente le persone si scindono in due differenti gruppi, e fazioni e sette.
È un fenomeno diffuso, penso che lo diamo per scontato, ma ovviamente è il
presupposto di ogni guerra, quanto questa dinamica di gruppo agisce a livello
delle nazioni. Freud lo sapeva, e lo definì “il narcisismo delle piccolo
differenze” nel quale:

“È
sempre possibile legare assieme un numero considerevole di persone in idillio,
finché vi sono altre persone destinate a essere oggetto delle manifestazioni
della loro aggressività… e sono proprio le comunità con territori confinanti,
così come quelle in rapporto tra loro in altri modi, che sono costantemente
coinvolte in faide,  e si ridicolizzano
reciprocamente – come gli Spagnoli e i Portoghesi, per esempio, i Tedeschi del
Nord e quelli del Sud, gli Inglesi e gli Scozzesi, e così via”. (Freud 1930, p.
114).

Freud era interessato
al tema in quanto processo di distorsione dell’identità attraverso
l’appartenenza a un gruppo, e lo descrisse nel suo scritto sulla negazione:

“Espressa
nel linguaggio delle più primitive pulsioni istintuali – quelle orali – la
conclusione cui si giunge è: “Mi piacerebbe mangiare questo”, o “Mi piacerebbe
sputarlo”; e, posta in termini più generali: “Mi piacerebbe prendere questo
dentro di me e tenere quello fuori”. Che equivale a dire: “sarà dentro di me” o
“sarà fuori di me”. Come ho mostrato altrove, l’originario Io-piacere desidera
introiettare in se stesso tutto quanto è buono, ed espellere da sé tutto ciò è cattivo.
Gli aspetti cattivi, alieni all’Io ed a lui esterni sono, prima di tutto,
identici”. (Freud 1925, p. 237).

Freud sta qui
mettendo in evidenza che noi tutti viviamo il conflitto tra la parte buona
della nostra natura e quella opposta, la cattiva. Appartenere a un gruppo
sociale ci permette di avere una sintonia con gli altri per vedere tutto il
male in un altro gruppo. Senza dubbio questa sembra una dinamica inconscia
molto comune, alla quale ci si riferisce nel linguaggio di tutti i giorni, quantomeno
in inglese quando si dice che siamo uniti da un nemico comune.

E questo ci fornisce
un esempio di come sia possibile aggregarsi in un’unità. Comunque, quando
Isabel Menzies fece la sua ricerca nel 1950, scoprì un processo più specifico
di collettivizzazione su base inconscia, e valutò che alcune forme di lavoro
causano stress particolari tra i lavoratori. Poiché si tratta di uno stress
diffuso, si diffondono modalità comuni con i quali i membri delle
organizzazioni si proteggono tutti assieme. La Menzies investigò il servizio
infermieristico di un ospedale generale. Al riguardo dello stress, affermò che:

“La
situazione obbiettiva affrontata dall’infermiera mostra una straordinaria
rassomiglianza con le fantasie che esistono in ogni individuo, ai livelli più
profondi e primitivi della mente”. (Menzies 1959, p. 46).


In altre parole, i
pazienti che sono sofferenti, terrorizzati, nel dolore, morenti, e così via,
corrispondono più o meno agli esiti delle più primitive e sadiche fantasie
della mente inconscia. Poiché questa è un’esperienza condivisa dai membri del
servizio infermieristico, per quanto inconsciamente, questi sono inclini a
mettere in atto difese simili e a cercare un supporto nell’organizzazione
sociale. In questo caso, Menzies osservò come certe pratiche infermieristiche
specifiche avevano preso piede nel servizio. Individuò un certo numero di
quelle che definì tecniche difensive, che le infermiere adottavano e che
potevano essere considerate di aiuto per gestire lo stress determinato dalle loro
fantasie inconsce, anche se comportavano un peggioramento sensibile della
qualità del loro lavoro. Queste caratteristiche del servizio erano:

·         
Scindere
la relazione infermiera-paziente suddividendo il carico di lavoro in compiti;
·         
Allontanamento
e negazione dei sentimenti;
·         
Tentativo
di eliminare il processo decisionale sostituendolo con procedure di controllo e
verifica;
·         
Riduzione
dell’impatto della responsabilità delegando la responsabilità ai ranghi
superiori.
·         
Evitamento
del cambiamento.

Ecco due esempi di
queste modalità di lavoro

1.                  
Distanziamento emozionale dai pazienti: le infermiere rendevano i
pazienti anonimi, e quindi in qualche modo depersonalizzati, attraverso vari
metodi che includevano il riferirsi al paziente utilizzando il numero del letto
nel reparto ospedaliero, o utilizzando la diagnosi, o riferendosi all’organo
del corpo affetto da patologia. In aggiunta si rendevano anonime indossando
uniformi. Questi elementi della pratica avevano la conseguenza di rendere il
paziente molto meno umano, in questo modo depotenziando le fantasie inconsce
che la condizione deteriorate del paziente suscitava nello staff.

2.                  
Proiettare la responsabilità verso l’alto: le
infermiere tendevano a evitare di prendere iniziative autonomamente, e si
limitavano a svolgere compiti routinari richiesti dai superiori. Ad esempio
durate la notte, potevano somministrare le terapia prescritte, svegliando il
paziente per dargli un sonnifero. Questa è una vera e propria negazione della
responsabilità, che viene così collocata nelle routine e nei protocolli imposti
dalle figure responsabili. Il fine ultimo è che ogni responsabilità riguardante
gli effetti di queste fantasie possa essere evitata.

Si può così notare
come le modalità di lavoro innalzino il grado di difese degli individui. Al
tempo stesso, le pratiche compromettono chiaramente le buone cure
infermieristiche. I pazienti vengono progressivamente spersonalizzati. Le
infermiere trattano la malattia piuttosto che le persone. È tipico di una
difesa nevrotica, dove la soluzione di un conflitto, alla fine, rende la vita
più difficile, piuttosto che semplificarla.
Si comprende quindi
come lo stress nel lavoro delle organizzazioni possa avere un impatto,
attraverso processi inconsci non adeguatamente riconosciuti. È probabile che
solo le persone che hanno familiarità con la psicoanalisi, e con l’inconscio,
possano cogliere pienamente le origini di questi effetti nocivi; quanto meno
sono le uniche persone in grado di mettere in luce i legami inconsci tra questi
problemi organizzativi e ciò che li causa, ovvero lo stress lavorativo.


3.   
Deviazione
del compito

La Menzies approfondì
questo infelice esito organizzativo derivante dallo stress. Il lavoro nel
servizio infermieristico assegnava meno importanza alla cura personale dei
pazienti sofferenti, così che alcuni aspetti del lavoro erano inutilmente
distorti per alleviare lo stress di chi vi lavorava. C’è una deriva del compito
che si allontana dal suo proposito originario, indirizzandosi verso un
obiettivo secondario. La psicoanalista scozzese mise in luce questo fenomeno di
sviluppo di un anti-obiettivo in alternativa all’obiettivo primario, e descrisse
l’esempio di un collegio scolastico infantile che ospitava bambini molto
deprivati (Menzies, 1979). In quel contesto lo staff e gli ospiti svilupparono
un sistema scolastico basato principalmente sulle fantasie inconsce più diffuse
tra questi bambini. Il compito della scuola deviò nella direzione di compensare
le carenti cure genitoriali offerte a questi bambini, tendendo a negare il compito
educativo accademico consciamente condiviso.

Lo studio su questa
scuola fu preceduto dall’analisi di un’altra dolorosa situazione, ad opera di
Miller e Gwinne (1972) nella quale il compito era altrettanto distorto. Il
lavoro ad alto tasso di stress si svolgeva in residenze per disabili fisici
incurabili. La cura era stata distorta nelle menti dello staff e degli ospiti,
ed era concepita inconsciamente in due differenti modi: o si trattava di
“immagazzinare” casi senza speranza o, alternativamente, di investire sulle
potenzialità umane delle vittime facendole “fiorire” come se fossero
completamente normali, e non disabili. In questo caso l’obiettivo si era
tramutato in una cura eccessiva, oppure in un diniego difensivo, proteggendo lo
staff (e forse anche gli ospiti) dal confrontarsi con l’autentica e così dura
condizione di vita degli ospiti internati.



4.   
Contenimento
funzionale e disfunzionale.

Quindi, possiamo immaginare
una forma disfunzionale di contenimento. Le organizzazioni sono turbate dai sentimenti
intensi dei loro membri – almeno quelle organizzazioni dove il lavoro causa uno
stress elevato. Ho fatto riferimento solo al settore della salute, ma è
probabile che altre tipologie di organizzazioni ne siano influenzate, come le
forze armate e la polizia, che sono soggette ad altro grado di stress.
Sembrerebbe che le istituzioni educative, almeno a livello delle scuole
inferiori, siano condizionate da dinamiche inconsce significative (Hinshelwood
20**). Forse potrebbe esserne affetta anche l’industria manifatturiera di armi,
con le sue sinistre finalità di morte violenta.

Negli esempi che vi
ho portato riguardanti le organizzazioni di cura, dove l’effetto dello stress è
in parte quello di distorcere il funzionamento dell’organizzazione, possiamo osservare
che l’organizzazione non è un efficace contenitore dello stress.
Dopo la prima
introduzione che fece Bion dell’idea di contenimento, egli ne diede in seguito
diverse rappresentazioni. Lo descrisse in termini di una madre che aiuta un
bambino a far fronte alle sue esperienze, ma comprese che poteva assumere anche
forme disadattive. Ecco un’altra sua affermazione tratta dal lavoro che vi ho citato
all’inizio del mio scritto:

“Questo
paziente aveva dovuto avere a che fare con una madre che non era in grado di
tollerare di fare esperienza di vissuti di questo tipo, e che reagiva o respingendoli,
o alternativamente divenendo preda dell’ansia che si originava
dall’introiezione dei sentimenti del bambino”. (Bion 1959, p. 313).

Chiaramente questo
processo grazie al quale le ansie vengono accolte in uno stato mentale
equilibrato, venendone modificate, non accade in un’organizzazione in quanto
tale. Può solo accadere all’interno di una mente umana. Per esempio, ritornando
all’esempio del servizio infermieristico della Menzies, l’organizzazione non
può mettere al sicuro (e quindi neutralizzare) le fantasie più primitive e
sadiche. I sentimenti di colpa e depressivi che queste fantasie alimentano,
possono essere esclusivamente riposti in altre persone all’interno
dell’organizzazione, perché altri sentano quella colpa e quella depressione. E
infatti questo può condurre a lunghe concatenazioni per mezzo della quali le
esperienze sono ricollocate secondo questa modalità proiettiva (Hinshelwood
1989**), mentre la colpa (o la responsabilità) viene passata da una persona
all’altra.

Questo tipo di
organizzazioni necessitano molto di alcuni individui esperti, e con personali
risorse interne, che possano equilibrare e modificare le ansie, e che facciano
un’appropriata valutazione di come alcune esperienze non corrispondano alla
realtà. Le loro competenze sono inoltre necessarie per mantenere un quadro
reale della situazione nella mente, così come un’idea realistica del lavoro che
può essere fatto. Qualcuno che giunge a un pronto soccorso e che è gravemente
ferito in seguito a un incidente stradale, può in qualche modo rappresentare la
vittima di ripugnanti attacchi sadici agiti in fantasia. Ma è comunque un vero
paziente con reali ferite, rispetto alle quali è possibile fare qualcosa di
realistico. È necessario riconoscere in termini realistici la ben più gravosa
responsabilità di valutare le possibilità di trattamento, una volta constatate
le effettive ferite del paziente. Chi è destinato, in un’organizzazione di cura
di questo tipo, ad essere colui che può modificare le fantasie confrontandole
appropriatamente con il compito reale? Forse questo funzionamento inconscio è
il compito della vera leadership, e penso che potremmo considerare l’ipotesi
che questa capacità di andare oltre, su di un piano più emotivo, sia ciò che
distingue un leader da un manager.

Ho paura che queste
idee siano molto distanti dal modo consueto di pensare alle organizzazioni. E
non sono certo che conducano a chiari metodi di intervento. Ma sulla base
dell’ipotesi che ho appena proposto, forse potremmo riconoscere il contenimento
emotivo come un aspetto della leadership. E quindi i gruppi di sostegno
dovrebbero essere previsti soprattutto per i leader, piuttosto che per i membri
più giovani. In un’organizzazione, c’è bisogno che almeno qualcuno comprenda in
che modo le pratiche di lavoro sono distorte, così come il fenomeno di deriva
del compito verso un anti-compito.

Seguendo il
ragionamento di Freud, Jacques pensava che ciò che fa sì che le persone si
uniscano a partire dai propri bisogni di difendersi, sono le ansie che di fondo
assediano noi tutti. Menzies, in un modo forse più sottile, aggiunse che il
fattore primario in questa risposta inconscia – almeno nelle organizzazioni
lavorative – è l’ansia condivisa connaturata al lavoro stesso.

Se non possiamo
sostenere che le organizzazioni contengano le ansie, sembra piuttosto chiaro
che supportino modi difensivi e disadattivi di affrontare l’ansia. Perché le
organizzazioni contengano realmente le ansie, dev’esserci qualche persona che
le gestisca in un modo che permetta al lavoro di proseguire in modo realistico.
Ho suggerito che questa sia l’autentica funzione di un leader.

Sorge spontaneo
domandarsi cosa accade quando le persone con risorse inconsce sufficienti non
sono coloro con più anzianità e maggior riconoscimento nelle organizzazioni. Si
potrebbe supporre che i clinici più esperti in un ospedale siano quelli con la
capacità di mantenersi su un piano di realtà a fronte di fantasie inconsce, mentre
i manager si ritengono i veri responsabili. È forse questa una delle cause
dell’irrisolvibile tensione tra le due professioni?


5.   
Conclusioni

Ho tentato di
riflettere sugli onnipresenti bisogni degli esseri umani, di ogni età, di
essere contenuti, e sono giunto alla conclusione che abbiamo ben poche idee o
teorie su come le organizzazioni potrebbero essere coinvolte in questa funzione
di contenimento, nel bene o, spesso, nel male.
Parrebbe che ci sia
sempre stato un’incessante domanda di contenimento, senza la necessaria
comprensione di questi processi. Poiché i processi sono in gran parte inconsci,
probabilmente solo coloro che hanno familiarità con le idee psicoanalitiche
possono realmente mantenerne il necessario grado di comprensione.











Robert
D. Hinshelwood

è  psichiatra e psicoanalista, membro
della British Psychoanalytical Society e del Royal College of Psychiatrists.
Esponente di spicco del movimento delle comunità terapeutiche inglesi, è stato
fondatore dell’International Journal of Therapeutic Communities, del British
Journal of Psychotherapy e della rivista Psychoanalysis and History, nonché
presidente dell’Association of Therapeutic Communities. Dal 1993 al 1997 è
stato direttore clinico del Cassel Hospital. Tra le numerose pubblicazioni
ricordiamo "Che cosa accade nei gruppi", il "Dizionario di
Psicoanalisi Kleiniana", "Il Modello Kleiniano", "Osservare
le organizzazioni". Collabora con l’Università Dell’Essex, dove è
professore di psicoanalisi. Si sta occupando di epistemologia della
ricercapsicoanalitica.










Bibliografia



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