venerdì 31 gennaio 2014

“Dall’uomo in poi. Nuovi spazi per l’uomo nella città metropoli”.

COMUNICATO STAMPA

 “Dall’uomo in poi. Nuovi spazi per l’uomo nella città metropoli”. 


Roma, 28 settembre 2010

Lalineabiancastudio e la Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro Onlus,
con il Patrocinio del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
in occasione dei 140 anni di Roma Capitale
organizzano il Meeting Architettura e Psiche
“Dall’uomo in poi. Nuovi spazi per l’uomo nella città metropoli”.


Un invito ad esperti, studiosi, istituzioni e operatori a rispondere a tre domande
su tre temi di importanza strategica per la costruzione dei nuovi spazi per l’uomo:
gli spazi delle diversità, gli spazi delle relazioni collettive, lo spazio personale

Le domande discusse nel Meeting sono:
1. Case, Scuole, Ospedali, Comunità, Carceri, Centri commerciali: come costruire le diversità?
2. Gli spazi collettivi urbani: come progettare le relazioni?
3. La casa contemporanea: come progettare oggi lo spazio personale?

Sono stati Invitati a rispondere, tra gli altri, :
il Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, l’Assessore e vice-Presidente della Regione
Lazio Luciano Ciocchetti, l’Assessore alla Provincia di Roma Claudio Cecchini, il vice-Sindaco
di Roma Mauro Cutrufo, gli architetti Amedeo Schiattarella e Raffaele Panella, gli psicologi
Vezio Ruggeri e Maria Lori Zaccaria, gli psichiatri Francesco Bruno e Massimo Di
Giannantonio, il filosofo Elio Cappuccio, John Gale, CEO del Community Housing and Therapy
(CHT) London e Dominique Quattrocchi, Direttore Comunità minori Lilium Onlus.
Modera Carmela Pace, Dirigente scolastico e Presidente Unicef Siracusa

Nel meeting vengono inoltre presentati: il Laboratorio integrato di Progettazione, il documentario
Don Luigi Di Liegro Prete romano, la performance teatrale Io e le Indifferenze.

La direzione scientifica è dell’architetto Rosario Marrocco, dello psichiatra José Mannu e della
psicologa Alessandra Ciolfi.

28 settembre 2010
Ingresso libero, ore 9- 18,30
Roma, Casa dell’Architettura all’Acquario Romano
Piazza Manfredo Fanti, 47 (Stazione Termini)

Prenotazioni on-line: www.architetturaepsiche.com

Informazioni: info@lalineabiancastudio.com 06.89827488

www.lalineabiancastudio.com
www.fondazionediliegro.i

UNA COMUNITÀ PER ADOLESCENTI

UNA COMUNITÀ PER ADOLESCENTI

 

Anno 10, n. 43, gennaio 2010
Luca Mingarelli
Terapia di Comunità 
www.terapiadicomunita.org
Rivista ufficiale della Comunità Terapeutica
IL PORTO onlus              www.ilporto.org
Via Petrarca 18 - 10024 Moncalieri(TO)

Rivista bimestrale di psicologia
 
Luca Mingarelli  è psicologo, psicoterapeuta, direttore e consulente di strutture residenziali della neuropsichiatria dell'adolescenza, formatore e supervisore di strutture sociosanitarie, docente di Psicosomatica in libere Università nazionali ed internazionali, Presidente Associazione Rosa dei Venti Onlus
 Prefazione di una paziente
Com’è la vita in comunità?
Ma innanzitutto cos’è una comunità?
...la comunità è un luogo dove si è costretti a vivere con altre persone (uso il termine costretto poichè i “compagni” di comunità non ce li siamo scelti) le quali hanno in comune un obbiettivo: terminare un progetto, un percorso che darà o migliorerà le basi per la nostra vita futura. Uso il termine “noi” poiché io sono un ospite della comunità e mi permetto di parlare un po’ a nome di tutti i ragazzi. Molte volte, quando parlo con delle persone che non conoscono questa realtà, pensano subito che io sia un’ ex-prostituta o un’ ex-tossicodipendente e il più delle volte hanno paura.
Vorrei dire una cosa che mi sta molto a cuore: che c’è di male a stare in comunità?
 Niente, poiché stare in comunità, qualsiasi essa sia, non vuol dire essere un pericolo per gli altri e quindi essere rinchiusi e isolati; stare in comunità vuol dire invece prendere coscienza di una propria difficoltà e cercare di affrontarla e di superarla. Non nego il fatto che sia una cosa estremamente difficile il piombare, il più delle volte improvvisamente da una realtà come potrebbe essere quella di casa propria dentro ad una realtà comunitaria: dove non si conosce nessuno e ci sono solo apparentemente mille regole e mille divieti da seguire, mentre persone estranee ti parlano di un progetto fatto su misura per te. È solo con il passare del tempo che si capisce che é da ogni regola che si impara qualcosa e si “disciplina” se stessi. In questo modo, disciplinando più le cose materiali, ad esempio i turni di pulizia, l’uso del telefonino solo per pochi minuti la sera, il rispettare le varie attività, si può passare all’affrontare il proprio problema.
Sono entrata in comunità più di due anni fa, l’accoglienza è stata calorosa, ma non capivo praticamente il senso di nessuna regola e così, non ritenendomi una persona stupida, ho chiesto di fare dei colloqui con le figure della comunità. Per ora ho tratto il pensiero prima espresso e penso di essere abbastanza sulla scia giusta.
Ma vorrei parlarvi di alcune figure molto importanti per noi ragazzi: gli educatori. Gli educatori sono molto presenti nelle giornate in comunità e sono quelli con cui noi ragazzi il più delle volte instauriamo rapporti affettivi. Sono proprio loro a svegliaci al mattino, sono loro a decidere con noi il da farsi della giornata, sono loro a rimproverarci, a riprenderci, ma sono ancora loro a strapparci un sorriso quando siamo tristi. Oltre agli educatori abbiamo anche l’arteterapista, lo psicologo, l’assistente sociale, l’infermiere, la neuropsichiatra, la coordinatrice, oltre al direttore. Tutte queste figure ruotano intorno a noi ascoltando le nostre richieste, venendo incontro alle nostre esigenze, ma anche negandole. Per questo motivo spesso ci sono dei contrasti ed essendo gestita da esseri umani, non sempre va tutto liscio come l’olio, ma si cerca comunque di trovare un punto d’ incontro tra lo staff educativo e terapeutico con i ragazzi.
Ora invece, vorrei raccontarvi una nostra giornata tipo: la sveglia è intorno alle nove quando si è in vacanza, mentre durante l’anno scolastico o il periodo lavorativo dei ragazzi la sveglia varia a seconda delle esigenze personali; nella mattinata ci si occupa di rimettere in ordine le proprie stanze o si fanno commissioni; nel pomeriggio si fanno le varie attività (arteterapia, musicoterapia, teatro, laboratorio artigianale, panificazione ed altre ancora). Durante il week-end le attività vengono sostituite da gite  o uscite di vario genere.
Un’attività molto importante è la terapia in natura: insieme ad un operatore esperto di sport di montagna e non solo, alcuni ragazzi vanno a fare arrampicate, trekking su ghiaccio, campetto sulla neve o vanno in canoa facendo un duro lavoro su di sé: si mettono alla prova non solo a livello fisico, ma anche a livello di sensazioni, di emozioni.
L’ ultima cosa che mi piacerebbe aggiungere è il fatto che vi è una attenzione all’intercultura: infatti la comunità ha ad esempio ospitato per un paio di giorni tre ragazze indiane, le quali ci hanno portato una ventata della loro cultura ed una di loro, essendo maestra di Kathakali ci ha fatti approcciare, insegnandoci alcuni passi elementari di questa antica arte indiana che unisce danza e mimica.
In ultimo vorrei ringraziare il dott. Luca Mingarelli poiché chiedendomi di scrivere questa prefazione mi ha dato la possibilità di dire la mia e di sentirmi in qualche modo parte di questo libro ed in estremis vorrei fare un saluto ai miei compagni di comunità, ricordandogli che un giorno, usciti da qua, parleremo delle comunità davanti ad un caffè al bar.   
Francesca 
1. Come è nata, con quali valori e che cos'è  la comunità terapeutica per adolescenti
La casa sede della comunità terapeutica e luogo della cura, nata dodici anni fa, è stata scelta nel centro della cittadina, nei pressi della stazione, e ben vicina a laghi e montagne. Prima di individuare la casa, ci siamo posti diverse domande: che tipo e dimensione di città, dove avrebbe dovuto essere la casa, rispetto al centro della città, come avrebbe dovuto essere, il suo esterno e lo studio del vicinato, la vicinanza della stazione o di luoghi “socialmente pericolosi”, la sua organizzazione interna...
Qui accogliamo otto adolescenti di entrambi i sessi, inseriti nell’età compresa tra i 13 e i 18 anni, che presentano problemi di carattere psichico ed affettivo, quelle psicopatologie diagnosticate come psicosi o soprattutto negli ultimi anni, disturbi di personalità di tipo borderline.
Il compito principale della comunità è dal mio punto di vista, di attivare un processo di cura non improvvisato e di offrire al tempo stesso un contenitore ed un contenuto adeguati all’universo degli adolescenti.
Il curante è la comunità degli operatori, che propongono un progetto e cercano di collaborare il meglio possibile con i genitori ed i servizi pubblici, che sono invitati ad aderire allo stesso.
Le azioni della rete curante si sforzano di diventare il contenitore delle parti disturbate e disturbanti della personalità degli abitanti la comunità terapeutica, di rendere manifeste le potenzialità e i livelli di autonomia e di facilitare la re-integrazione sociale.
Per realizzare questo modello di “fare comunità” viene continuamente  supportato e stimolato un costante lavoro di auto osservazione del modo di pensare, di vivere le emozioni ed agire sia del singolo che del gruppo di operatori della comunità.
Un altro requisito necessario per il “sopravvivere” del gruppo di operatori alle forti tensioni sempre presenti in tale contesto è la capacità di sviluppare la tolleranza in relazione all’ambiente continuamente frustrante in cui si opera.
Gli elementi di base del nostro modello di ricerca-azione sono: terapia, educazione, natura ed arte.
La terapia è certamente complementare  ed interdipendente dall’educazione ed è da questa collaborazione che si possono creare le condizioni per un intervento “sufficientemente buono” a favore degli adolescenti che entrano in comunità.
Le difficoltà sorgono quasi fisiologicamente, nel momento in cui differenti educatori e terapeuti si trovano a riflettere ed agire per la stessa persona e per lo stesso gruppo di adolescenti ospiti: chi fa
cosa, come fare a cooperare, di quali strumenti di base si devono attrezzare tali gruppi, chi decide, quali sono i confini di ruoli e funzioni, chi li sostiene?
Risulta importante sottolineare, nella mia visione, la contraddizione di un certo modo di fare terapia che si concentra specialmente ed esclusivamente sugli aspetti diagnostici. Ci è infatti successo di aver compreso qualcosa del paziente, e di comprendere meglio i suoi aspetti diagnostici, solo verso la fine del suo percorso in comunità.
2. La comunità è un essere vivente, spazio di incontri e di scontri.
Dovrebbe essere un sistema aperto e delimitato da una membrana o confine che la separa e mette in contatto con il mondo, dalla famiglia e i parenti degli adolescenti ai servizi pubblici, ai cittadini; la gestione di questo confine, che deve essere ben curato e presidiato, è fondamentale per la riuscita del lavoro in comunità terapeutica.
La comunità terapeutica è un luogo dove la difficile sfida del convivere, già da tempo appartenente alla nostra cultura e società, è notevolmente amplificata in relazione all’età in gioco ed alle problematiche personali degli adolescenti residenti. È un luogo di ricerca-azione, dove si cerca continuamente, a volte con fatiche esagerate, ed anche senza sempre riuscirci, di integrare il fare educativo al pensare terapeutico e di sostenere e realizzare un progetto comune dove tutte le componenti di rete interne ed esterne sono a differenti livelli coinvolte, dal ragazzo ai genitori ai servizi invianti agli operatori della comunità terapeutica. Si tratta dunque di un lavoro dove è necessario assumersi la responsabilità di “tenere insieme”, o meglio “mettere insieme” i frammenti della personalità dell’adolescente residente, che spesso peraltro influenzano osmoticamente i vari componenti la rete curante.
Un altro ingrediente strutturale caratterizzante la modalità di essere-fare comunità terapeutica alla Rosa dei venti, è che diamo importanza all’ osservare le connessioni e disconnessioni tra i tre livelli dell’essere umano: corpo, emozioni, mente; diamo rilevanza ai segnali non solo di pensiero ma anche emozionali e corporei, segnali deboli ed a cui non siamo abituati a prestare attenzione che, a volte, vengono trascurati.
Sul piano operativo l’ingresso dei minori in comunità avviene dopo una serie di filtri e contatti preliminari da parte del gruppo della comunità terapeutica, con i servizi pubblici che fanno la richiesta di inserimento: enti comunali o più sovente servizi di neuropsichiatria del territorio o aziende ospedaliere da tutta la regione Lombardia o anche dalle altre regioni del territorio nazionale - in questa prima fase osservativa e conoscitiva si incontrano il futuro potenziale ospite ed in seguito i servizi e i genitori - se possibile . L’immissione eventuale viene valutata solo alla condizione che il minore in questione abbia una seppur piccola motivazione o comprensione del perché dovrà fare una terapia di comunità terapeutica. La durata della permanenza  è compresa tra un minimo di uno ad un massimo di tre anni circa.
La definizione dell’esistenza di un tempo di permanenza in comunità, mi aiuta nel meglio definire i confini di identità della stessa: il rischio che corriamo nel non aver chiari i limiti di tempo di permanenza in comunità terapeutica è di esser confusi con un “cronicario”, o con un pronto intervento o un reparto ospedaliero.
Con una modalità eco sistemica di approccio si tengono periodici contatti con i servizi invianti, con le famiglie e con i territori di appartenenza e di origine, tramite incontri periodici presso la sede della comunità terapeutica e contatti telefonici. Prima dell’inserimento dell’adolescente viene richiesta la firma di una dichiarazione di impegno di tutti i coinvolti, di assunzione di co-responsabilità ed adesione al progetto.
I servizi pubblici del territorio che richiedono l’inserimento, sono una componente fondamentale del nostro intervento: abbiamo potuto constatare quanto sia importante, fin da subito, stabilire reciprocamente i mandati delle varie parti costituenti la “rete curante”: chi fa che cosa e come ci si connette e scambia rispetto al proprio operato.
Più ci penso e più mi rendo conto di quanto sia difficile esser esaustivo nella definizione di comunità terapeutica per adolescenti: è un sistema complesso ed in continuo instabile movimento, come del resto l’adolescenza, e costituito di sottosistemi che si inter relazionano, inserito in un sistema piu’ grande: la società.
Lo spazio di vita della comunità è principalmente la casa. All’interno di essa, la vita quotidiana gioca un ruolo essenziale nel processo di cura.
Vorrei sottolineare quello che cerchiamo di fare con i nostri ospiti è di creare le condizioni per permettere l’espressione di tutto quello che abita nascosto in loro: questo significa esser presenti alle loro crisi, isterie e paranoie, violenze e silenzi, intuizioni e trasgressioni, ed intraprendere insieme un cammino che possa portarli a quel livello di autonomia e rispetto della vita per loro possibile.
Nel primo periodo di apertura della comunità terapeutica, nel quale ho ricoperto il ruolo di Direttore e Coordinatore, ho sempre presentato la comunità ai ragazzi e ragazze, nel momento del loro inserimento, con le seguenti parole ed immagini: è un luogo di passaggio, ma non è un albergo e neppure un carcere.
La comunità terapeutica viene spesso demonizzata nelle fantasie degli adolescenti che la abitano, come un luogo per i “matti” o per criminali o drogati e, dunque, non idonea né utile a nessuno di loro. I vissuti portati dai ragazzi soprattutto nel primo periodo di inserimento in comunità terapeutica  sono che qui ci sono regole da carcere e non puoi far nulla, oppure all’opposto, cercano una situazione da albergo possibilmente di lusso, dove tutto è dovuto, dove la pretesa è di essere serviti e riveriti; gli educatori sono di volta in volta dunque investiti della funzione di secondini o di camerieri, con una conseguente pressione continua che rende difficile l'abitare il ruolo professionale richiesto dall'organizzazione.
La comunità ha come funzione fondamentale, dal mio punto di vista, di essere un contenitore: un luogo dove gli agiti “disturbati” e disturbanti dei ragazzi accolti entrano in rapporto con le azioni educative e terapeutiche pensate e proposte dal gruppo.
Nelle modalità di rapporto con la casa si cercano di integrare gli aspetti artistici, poetici ed estetici, alla visione terapeutica e all’azione educativa.
Di solito gli utenti adolescenti portano in comunità il proprio caos interno e la propria storia e di conseguenza non hanno una particolare passione, nè interesse e neppure abitudine, verso la cura della casa: questo comportamento è specchio della mancanza di cura di sé, di amore per la vita e di autonomia, bagaglio con cui spesso gli adolescenti arrivano in comunità terapeutica. Il team educativo-terapeutico cerca continuamente di favorire una tendenza alla struttura e all’autonomia nel tenere ordine, un tipo di ordine possibile per un adolescente.
Come gli adulti operatori abitano la casa è azione e lavoro fondamentale che può facilitare ed attivare il processo di imitazione, e dal quale potrà gradualmente svilupparsi appartenenza e rispetto della casa-comunità.
Imparare a stare in contatto con la casa e ad averne cura, come se fosse una persona, è uno degli obiettivi e responsabilità del gruppo curante e degli educatori in particolare; la struttura delle mansioni è costruita con la collaborazione degli ospiti: vengono discussi e decisi i turni dell’apparecchiare e sparecchiare, del pulire i bagni, del riordinare la propria stanza e così via, del fare delle cose per sé stessi e per gli spazi personali e ed altre cose per il gruppo e per gli spazi comuni.
Ricordo come esempio di appartenenza, fattore fondamentale riguardante la relazione con la casa, un’educatrice che era solita iniziare “i mestieri” con della musica che le piaceva molto: i ragazzi incuriositi si avvicinavano a lei e le davano una mano; un’altra invece quando entrava in turno, si metteva le ciabatte, con estrema naturalezza, come se fosse stata a casa sua!
Gli ospiti spesso non vogliono fare le mansioni concordate, ed è compito degli operatori aiutarli a prender coscienza di quello che è successo, delle difficoltà a stare alle regole e dei vissuti che si generano anche negli altri ospiti in seguito alle trasgressioni.
Si chiede agli adolescenti residenti di sperimentare la gestione della vita quotidiana con le sue regole di convivenza, attraverso un mansionario co-deciso ed adattato alle capacità di ognuno. Solitamente si propone, alla data dell’inserimento dell’ospite, un mansionario in un primo periodo più semplice, per andare a chiedere sempre di più in qualità e quantità con il passar del tempo. Nell’ultimo periodo di permanenza in struttura, è in generale lasciato spazio alla più ampia autogestione possibile ed alla verifica del livello di autonomia raggiunto.
I ragazzi e le ragazze che vivono in comunità terapeutica, sono innanzitutto adolescenti, dunque in una fase della vita di passaggio, impregnata di elementi naturalmente trasgressivi.
“Cosa vuole esprimere, cosa mi sta domandando nel fare così o nel dirmi questo...” è domanda da porsi nel ruolo di operatori della comunità terapeutica.
Questo non significa che bisogna sempre essere disponibili ai loro bisogni e richieste sviluppando quella che ho ironicamente chiamato “la sindrome di Babbo Natale”, ma esser in grado di accoglierli, contenerli e di porsi domande sul significato dei loro agiti e comunicazioni e su quel che si cela dietro/sotto di essi.
È fondamentale provare a riconoscere se le richieste e proposte degli adolescenti residenti corrispondano ad un bisogno sano o meno, dove il “no”, risposta a cui in genere non sono abituati, genera frustrazione ed ansia.
Diversi ruoli collaborano in comunità terapeutica, la coordinatrice e responsabile del personale, la neuropsichiatria, lo psicoterapeuta, l’assistente sociale, l’infermiere, la terapeuta a mediazione corporea, esperta in medicina cinese, l’artigiano, esperti di teatro e videoproiezioni, un’artista, un musicoterapeuta, ed un terapeuta che svolge il suo intervento residenziale mensile, in ambienti naturali con piccoli gruppi, ma la figura di base in comunità è l’educatore, o meglio il gruppo educativo, medium concreto e responsabile del progetto di crescita e cura degli adolescenti residenti. Tale ruolo dell’educatore in prima linea, richiede un sistema di protezione e supporto ben pensato ed adattato al contesto del momento, tra cui le riunioni di equipe settimanali, la formazione, la supervisione, oltre che una attenta gestione del personale; questo sistema di protezione cerca di ridurre al minimo l’instabilità del sistema che è per sua costituzione instabile; al nuovo educatore viene suggerito di fare un percorso personale.
Mi sono formato l’immagine che l’identità degli educatori della comunità sia simile a quella di un artigiano dell’educazione, nel senso di qualcuno che fa con buon senso e ad un artista della relazione, nel senso di qualcuno che cerca di essere creativo nel fare quello che deve fare.
Una questione emergente che mi sta a cuore è dunque come prendersi cura come gruppo e come individuo, dello spazio della casa comunità, in un senso funzionale e creativo. Come rendere un dovere il più possibile piacevole per i nostri ospiti e per gli operatori, e come motivare gradualmente a fare qualcosa che è quasi sempre sconosciuto nel periodo dell’adolescenza.
La casa intesa come corpo collettivo di cui avere cura, è dunque il grande laboratorio e contenitore della Comunità Rosa dei venti.
La casa è luogo di lotta continua tra educatori ed ospiti.
3. Il progetto individuale, dall'inserimento alla dimissione
Il progetto individuale è una necessaria e fondamentale possibilità evolutiva per l’adolescente ospite della comunità terapeutica.
Il progetto ha la potenzialità di connettere l’intervento degli operatori: tutti in misura differente ne sono coinvolti, l’ospite innanzitutto, il gruppo terapeutico ed il gruppo educativo. Ognuno ha il diritto ed il dovere di dir la sua opinione e di esser parte del progetto; anche naturalmente i servizi ed i genitori hanno voce nella costruzione dello stesso, con i vari punti di vista spesso in contrasto tra loro.
Il progetto traccia il percorso che si intende percorrere, ha la funzione di “mappa”, che facilita nella presa di coscienza del punto in cui si trova l’adolescente residente e della meta prevista. Lo vedo un po’ come uno spartito di musica elaborato e suonato a più mani, dove ognuno ha la sua parte e l’improvvisazione non è possibile, se non eccezionalmente; gli ospiti son spesso “scordati” con “lo spartito musicale” dell’orchestra di operatori. Anche per gli educatori e per l’intera equipe è molto difficile, se non quasi impossibile, essere in sintonia con l’adolescente quando entra in comunità terapeutica.
La capacità di ascolto è base fondamentale per riuscire in una buona esecuzione di uno spartito musicale e sono convinto che lo sia anche per costruire e rendere applicativo un progetto.
Estremamente difficile è formarsi una competenza e dei criteri che facilitino nel comprendere se il separare seppure temporaneamente un adolescente dal suo contesto familiare, per inserirlo in una struttura di questo tipo, sia un atto violento o un atto terapeutico, e come rendere in seguito possibile un distacco non violento.
La decisione dell’inserimento in comunità terapeutica, e dunque della sua richiesta, deve avere motivi fortemente significativi e chiaramente esplicitati: la responsabilità di individuare tale necessità e bisogno è principalmente del servizio territoriale pubblico specialistico o del Tribunale dei minori in collaborazione con il Comune, oppure del reparto ospedaliero.
La comunità ha il compito di riconoscere, nella fase di preselezione, e filtrare l’esistenza o la mancanza del bisogno di inserimento.
Occorre poi valutare se può esser utile per il ragazzo di cui i servizi ne fanno richiesta, e se potenzialmente ritiene di esser in grado di gestirlo e di rappresentare possibilità trasformativa ed evolutiva per lo stesso, o se ci siano altre vie non ancora intraprese da suggerire; è a questo punto del processo che la comunità terapeutica può rispondere alla richiesta di inserimento del servizio pubblico inviante.
Fondamentale e complesso è poi lo studio della compatibilità/incompatibilità con gli altri ospiti presenti.
Comunque vadano le cose, il fatto di separare il minore dalla sua famiglia provoca un trauma sia a lui che alla famiglia, e tale trauma si va ad aggiungere a quelli già in precedenza subiti; in relazione a questo evento agli operatori del territorio di appartenenza, un lavoro preparatorio e motivazionale precedente all’inserimento. All’entrata in comunità terapeutica si lavorerà da subito per accogliere ed aiutare il minore a prendere consapevolezza di tale trauma.
Un obiettivo importante del progetto individuale di ogni residente è di portarlo ad essere consapevole del suo stato, delle sue difficoltà e del bisogno di essere aiutato.
Le parole più frequenti che gli adolescenti appena inseriti esprimono sono: “che schifo questa comunità”, oppure “non ci voglio stare, quando vado a casa, voglio andare a casa” o ancora ”non sono matto, non sono come gli altri”.
Il progetto è garante dell’ alternanza tra disciplina-regola (piano del dovere) e momenti liberi ed autogestiti (piano del piacere), tra momenti collettivi e momenti individuali, tra pubblico e privato, tra il “dentro” ed il “fuori”, tra il chiedere impegno e sforzo ed il favorire momenti di rilassamento. Non mi è mai piaciuta, né trovo senso all’idea del “facciamo tutto sempre tutti insieme”.
Si sono strutturati tempi e spazi sia individuali che di piccolo e grande gruppo, in cui poter esprimere tutti i disaccordi e gli accordi, i conflitti, le ansie, i progetti, i desideri, le gioie e le sofferenze.
L’assemblea settimanale dei ragazzi con gli educatori ad esempio; o la riunione plenaria periodica tra tutti, operatori e ragazzi ed ancora, a volte il gruppo di operatori propone una breve riunione settimanale dei ragazzi tra loro, senza la presenza di figure adulte. Spesso comunque i conflitti fanno fatica ad emergere in questi momenti strutturati ed emergono invece nei momenti informali.
Gli ospiti che varcano la soglia della comunità terapeutica hanno scarsa capacità progettuale e le loro idee e proposte sono soventemente contaminate dalle caratteristiche del disturbo : ad esempio, per una ragazza, il progetto che ella voleva realizzare per se stessa era di andar fuori dalla comunità terapeutica al compimento dei diciotto anni per fare la prostituta.
Il progetto individualizzato è composto delle seguenti fasi: selezione, immissione, progetto, dimissione.
Nella fase di selezione che coinvolge a vari livelli tutti gli operatori ed abitanti la comunità terapeutica, si valuta l’età, la storia, il comportamento, il luogo di provenienza, la situazione familiare e la capacità collaborativa dei servizi pubblici invianti.
Si incontrano e contattano i servizi invianti per un primo filtro, poi in una fase successiva viene invitato il minore con i genitori ad una visita breve che permette una reciproca conoscenza. Così l’ipotetico futuro ospite in questa prima visita, viene conosciuto e conosce brevemente la neuropsichiatra, lo psicoterapeuta ed un’educatore che si occupa di questo primo incontro; questo incontro ha la funzione di far vedere la casa, gli ospiti e gli altri operatori costituenti la comunità terapeutica e di respirare l’aria della comunità terapeutica. In questo incontro vengono presentate le regole di convivenza della comunità sia ai genitori che ai minori e vengono accolte eventuali loro domande, richieste e dubbi; il nuovo ipotetico adolescente incontra anche i possibili futuri compagni che, a visita terminata, vengono ascoltati dall’educatore referente di questo incontro per raccogliere i loro pareri, che vengono poi riportati alla commissione selezione.
Molto importante e delicato è il momento in cui viene dato il benestare all’inserimento in cui è fondamentale, per una buona evoluzione del progetto, contrattare e definire con l’adolescente e con
i parenti, in collaborazione con i servizi pubblici, le modalità dei contatti che ci saranno nel primo periodo di inserimento tra genitori e minore, come le telefonate, gli incontri protetti, i rientri a casa per il fine settimana; stabilito l’accordo, tutte le parti coinvolte lo firmano e ne ricevono copia. La negoziazione e discussione in questo momento di definizione del setting, risulta necessaria in relazione al fatto che spesso, sia i genitori che gli adolescenti minori accolti faticano, comprensibilmente alle loro abitudini precedenti completamente differenti, a rispettare le regole condivise e gli accordi presi, malgrado abbiano dato la loro adesione.
Contemporaneamente viene inviato al servizio pubblico il contratto amministrativo che regola i rapporti e stabilisce i confini dei vari operatori e servizi coinvolti.
Nella riunione di equipe che precede l’inserimento viene dedicato del tempo ad individuare l’azione di accoglienza; la data dell’inserimento viene comunicata nell’assemblea dagli educatori agli ospiti, si presenta il futuro ospite e si osservano ed accolgono le loro libere reazioni; si comunica ai residenti la stanza dove dormirà e vengono coinvolti con loro suggerimenti ed idee in merito all’accoglienza.
In questa fase si propone agli abitanti della comunità terapeutica di ricordare e riflettere rispetto a quando loro sono entrati in struttura: che memoria hanno di tale momento, come si sono trovati, cosa ha fatto loro piacere, che difficoltà hanno incontrato, che emozioni ricordano…
Viene inoltre individuato un ospite che insieme all’educatore referente della prima osservazione, si occuperà di aiutare il nuovo ospite ad entrare, nei primi “duri” tempi. Ancora prima dell’entrata, ho constatato come e quanto la comunicazione della probabilità di un nuovo ospite entrante “muova” sul piano emotivo e relazionale i componenti del gruppo dei ragazzi, e di tutti gli operatori coinvolti. La dinamica presente in quell’istante subisce una modificazione: spesso il leader presente ha paura che arrivi un altro leader a soffiargli il trono; oppure può capitare che entri un minore che ad esempio faccia uso di sostanze ed allora i componenti presenti con simili problemi vanno in una sorta di euforia, speranzosi di combinare cricche che si organizzino e che riescano a farla franca agli educatori; oppure ancora quando entra in comunità terapeutica una ragazza, si attiva la leadership femminile su “chi è la più bella del reame” e la competizione tra i maschi.
Generalmente dalla richiesta di inserimento del servizio pubblico alla data dell’inserimento passa almeno un mese.
Arriviamo così alla fase dell’immissione: condivido in pieno il proverbio che diceva che “l’ultimo passo dipende dal primo”. In questa fase si condensano le difficoltà, le fatiche e le sofferenze dell’ospite ad entrare in comunità terapeutica e della stessa ad accoglierlo. È il passaggio del confine, del varcare la soglia fisica, emotiva e psichica e del separarsi dall’ambiente di provenienza e, come ogni nuova nascita, che è anche un lutto, un trauma, un concentrato di vissuti, si manifestano forti emozioni negative o di tipo contraddittorio.
L’azione di accoglienza viene pensata nella riunione di equipe che precede l’inserimento e viene poi attuata da un educatore in collaborazione con un ragazzo già residente da almeno un anno.
Di volta in volta si è già deciso insieme se adottare un modo di accogliere paterno, contenitivo, o accogliente-materno: a volte è preferibile iniziare con il regolamento comunicato in modo fermo dalla neuropsichiatra, altre volte si valuta di iniziare invece con momenti più piacevoli e ludici, come per fare un esempio preparare un cibo che sappiamo esser di gradimento alla persona entrante in comunità terapeutica.
Ogni ospite, fin dai primi passi in comunità o, comunque, dalla seconda settimana di permanenza, ha un programma sperimentale settimanale di attività interne ed esterne che viene adattato in itinere: tale programma chiede fin da subito un impegno rispetto alle attività quotidiane, un “dover fare” che mette l’educatore in una posizione di richiesta.
L’educatore referente dell’osservazione, per un primo periodo che varia da uno a tre mesi, attua un processo attivo di domande, osservazione ed ascolto in relazione ai parametri di seguito presentati in modo schematico:
01 - identità e biografia
02 - movimento (fisico, emotivo, psichico)
03 - cura di sé ed igiene personale, cura della casa
04 - relazione con il cibo (mangiare, bere ed eliminare)
05 - sessualità ed affettività
06 - relazione con i coetanei
07 - relazione con gli educatori ed i terapeuti
08 - relazione con il territorio: la scuola, i tirocini lavorativi o lavoro
09 - relazione con il territorio: sport, oratori…..
10 - relazione con la famiglia
11 - economia e gestione del denaro
12 - gestione del tempo libero
13 - relazione con il sonno
Viene dunque scritto il progetto, cercando di condensare le istanze del ragazzo e le osservazioni ed indicazioni degli educatori e dei terapeuti; un documento semplice e comprensibile con i contenuti del progetto, viene firmato e comunicato ai genitori, inviato a servizi.
Il progetto viene aggiornato al bisogno ed al massimo ogni sei mesi circa. Prima di aggiornare il progetto, e periodicamente, il residente viene invitato all’interno di una riunione di equipe educativo-terapeutica per un breve intervento, dove di fronte a tutti gli operatori può esprimere direttamente quello che vuole e che pensa, rispetto al suo percorso in comunità terapeutica, e cosa modificherebbe nel suo progetto. Questo incontro, anche se dura al massimo un quarto d’ora, è un momento significativo e denso di carica emotiva.
Ogni adolescente viene affiancato da un educatore referente, che è il garante della memoria e dell’applicazione pratica e quotidiana del progetto, supervisionato dalla coordinatrice e dal gruppo terapeutico.
Il referente è un punto di riferimento che garantisce protezione e continuità al progetto individuale assumendosene la responsabilità pratica; rappresenta una figura mediatrice tra le istanze sane del-
l’ospite e l’equipe nel suo insieme. Si occupa con l’appoggio della Coordinatrice dell’individuazione e stesura del progetto educativo e delle relazioni di aggiornamento periodiche.
La dimissione avviene solitamente dopo due o tre anni al massimo ed almeno dopo un anno di permanenza, se il progetto si sviluppa come concordato all’entrata; la dimissione si dovrebbe verificare per decisione del gruppo clinico in collaborazione con i servizi invianti, i parenti e soprattutto con l’adolescente ospite; a volte capita che la scelta sia fatta dalle famiglie o dai servizi invianti, o dello stesso residente, in disaccordo con noi.
Spesso questa decisione, quando non condivisa e negoziata con noi e che interrompe bruscamente il percorso e progetto dell’adolescente in comunità terapeutica, avviene al compimento dei 18 anni; il compimento della maggiore età muove, sia negli ospiti che nei parenti, aspettative grandiose di “guarigione” e libertà. Vi è una evidente confusione e contraddizione tra il conseguimento teorico della maturità legale ai 18 anni, che permette di scegliere se continuare il percorso o interromperlo, ed una maturità e percorso clinico ed evolutivo della persona che non coincide mai con il tempo dettato dalla legge.
Il diciottesimo anno è un momento delicatissimo, dove si gioca la partita in corso, già nei 6 mesi antecedenti il compimento della maggiore età, il gruppo di operatori della comunità terapeutica ne discute e cerca di capire come affrontare tale questione; il tema del “mito dei 18 anni”, viene inoltre discusso con i parenti ed il minore, già all’entrata in comunità terapeutica.
Solitamente la scelta dell’inserimento è fatta dai genitori o soprattutto dai servizi pubblici o prescritta da Tribunale dei Minori, dunque certo è che quando un adolescente ai 18 anni o poco prima decide di rimanere in comunità terapeutica, questa scelta importante è segno di maturità e permette di terminare il progetto nel tempo utile.
Quando la scelta di dimissione è fatta dal gruppo della comunità terapeutica, c’è il riconoscimento di un nostro limite, della nostra incapacità a dar una mano; in questi rari casi di fallimento del progetto, cerchiamo di sostenere il servizio nell’individuare altre tipologie di intervento che potrebbero esser di maggiore beneficio per il paziente.
Difficile e complessa si presenta la questione di individuare il momento “giusto” di dimissione: deve essere attentamente studiato il percorso nel suo procedere; si deve comprendere se il territorio ed i parenti siano pronti e preparati a riaccoglierlo.
La comunità terapeutica si deve assumere la responsabilità di individuare tempi e modi della dimissione, in collaborazione con i servizi invianti e con i genitori e, naturalmente, con il minore stesso.
Sono convinto che l’ultimo periodo di permanenza di ogni persona in comunità terapeutica sia fase delicata come la fase di inserimento e, come ogni momento di passaggio, richieda un’attenzione e cura particolare.
È fondamentale che l’ospite possa, in questo periodo che può durare dai 3 ai 6 mesi, mettersi alla prova rispetto a quanto ha imparato in comunità terapeutica e prendere coscienza anche di quanto non è stato ancora appreso, tramite un lavoro di autovalutazione attento e strutturato.
Nelle riunioni e supervisioni, seppur con valenze differenti, si cerca di esprimere il vissuto emotivo del gruppo rispetto al lavoro fatto con l’ospite e di confrontarsi sul raggiungimento o meno degli obiettivi ipotizzati, e si cercano di elaborare i vissuti di fallimento o di riuscita.
Sul piano applicativo per finire il percorso, si prepara ed organizza con l’ospite un momento rituale come ad esempio una festa, nel quale, se possibile, fare quello che egli/ella desidera per facilitare il separarsi e salutarsi (l’ospite viene coinvolto sul cosa vuole fare, chi vuole invitare…): per fare un esempio una volta il ragazzo ha scelto di andare in discoteca, in un’altra situazione invece gli è stata offerta una birra al bar dai componenti del gruppo clinico; viene di volta in volta sempre fatto un regalo per lasciare una memoria positiva e per ringraziare, comunque siano andate le cose, degli sforzi fatti e dell’esser riuscito a vivere in comunità terapeutica (ricordo ad esempio che ad un ragazzo il regalo è stato una bicicletta, oggetto che lui amava e desiderava...).
In tale ultimo periodo di permanenza si cerca di favorire la possibilità di esprimere-verbalizzare e prender coscienza della naturale difficoltà nel separarsi a vari livelli, sia negli incontri con lo psicoterapeuta e la neuropsichiatra, che con l’educatore referente ed i compagni. Certo è che la nostra cultura occidentale fatica ad aprire il dialogo attorno al tema della fine, della separazione e noi operatori di comunità terapeutica abbiamo invece il bisogno di continuare a discuterne, a tenere un’attenzione su tale questione.
Vengono in questa fase proposte le ultime prove pratiche di autonomia ed autogestione, come ad esempio prepararsi da mangiare completamente da soli, ed anche prepararlo per gli altri, occuparsi del proprio spazio e della propria igiene senza il sostegno e controllo degli educatori.
In tale fase vengono organizzati incontri e contatti più frequenti con il servizio pubblico inviante e con la famiglia, che vengono poi continuati nella fase successiva al reinserimento, sia per sostenere il territorio che per poter rimanere in contatto e studiare l’evoluzione del processo. Viene inoltre consegnata ai servizi la relazione di dimissione; tale relazione consiste di due parti: una compilata dall’educatore referente e l’altra dallo psicoterapeuta e dalla neuropsichiatra.
Si chiede inoltre al minore di compilare per iscritto negli ultimi giorni di permanenza il questionario di seguito riportato, aiutato dall’educatore:
1 - Fai un viaggio nella memoria dell’esperienza in comunità terapeutica e scrivi sinteticamente sette episodi che ti hanno colpito; descrivi uno di questi a tua scelta in modo approfondito (è un tempo introspettivo, meditativo)
2 - Cosa hai imparato qui: tre cose che ti porti nella vita
3 - Qual è stato il momento o episodio più difficile nella tua convivenza in comunità terapeutica?
4 - Critiche e consigli agli operatori ed alla struttura
5 - Qual è stato il momento più felice?
6 - Che consigli puoi lasciare ai compagni che rimangono in comunità terapeutica o che arriveranno in seguito?
7 - Scheda soddisfazione da compilare ( documento in allegato)
Uno spazio e tempo vengono dedicati dall’educatore referente a farsi raccontare il percorso in comunità terapeutica, in modo da poterlo osservare e discutere insieme.
Ogni fine di percorso, inizio di una nuova tappa, ha un suo differente colore e calore, infatti ad esempio alcuni rari ospiti piangono dispiaciuti nel separarsi dalla comunità terapeutica, anche se, nello stesso tempo, sono contenti di poter rientrare in famiglia e nel proprio territorio, pregni di sentimenti ambivalenti; altri sembrano non manifestare immediatamente reazioni emotive, alcuni già nei giorni seguenti il reinserimento ci telefonano per salutare educatori o compagni e lo fanno per lungo tempo, altri ancora non si faranno mai più vivi e nell’andarsene fanno i salti di gioia; alcuni hanno trovato lavoro e casa, e si sono dunque integrati nel nostro territorio; altri ancora, dopo essersene andati bruscamente ai famosi 18 anni, malgrado il nostro dissenso, hanno poi richiesto di ritornare…
Nel momento della separazione non ci resta che il desiderio che alcuni dei semi piantati dall’equipe con sforzo cosciente, possano portare in futuro sani frutti.
A breve distanza dalla fine del percorso dell’adolescente in comunità terapeutica, viene fatta dall’equipe una attenta autovalutazione e autocritica sul percorso concluso e poi ogni sei mesi e per tre anni, viene fatto un report, contattando il servizio pubblico rispetto a come procede il reinserimento sul territorio ed in famiglia.
4. La natura come ingrediente del progetto di comunità terapeutica per adolescenti
Una delle scommesse in cui ho creduto fin dalla nascita della comunità terapeutica ad oggi, è che il contatto con la Natura sia un ingrediente fondamentale da integrare nel complesso processo di cura, non in senso di quantità, ma di continuità di rapporto.
Va riconosciuta l’autonomia e potenza della Natura: è l’esperienza di contatto con la natura che può facilitare e completare, in collaborazione ed integrazione con la terapia, l’arte e l’educazione, il
processo di cura in comunità terapeutica.
L’uomo ha vissuto per tanto tempo con la fantasia e l’aspirazione che le cose della natura fossero utilizzabili, dominabili, commerciabili; è venuto il momento di riconoscersi come parte del mondo e quindi di dover entrare in un rapporto di complicità con la Natura e gli altri, di solidarietà e di mutuo aiuto.
La natura è dunque, nella mia ipotesi ed esperienza, un elemento curativo: la penso come un saggio libro aperto, semplice ma complesso da comprendere allo stesso tempo, e peraltro gratuito, sempre a portata di mano; qualcosa che non siamo più abituati a leggere, risorsa sprecata.
La natura ha delle caratteristiche che gli adolescenti ospiti della comunità terapeutica non hanno avuto l’opportunità di sperimentare ed interiorizzare in genere nelle loro vite precedenti all’ingresso in comunità terapeutica, quali ad esempio il ritmo e la ripetizione: spesso i nostri ospiti arrivano con ritmi sfasati o senza ordine logico e sensato, con l’abitudine di stare svegli di notte e dormire di giorno, volendo fare le cose non nel tempo opportuno, ma in tempi qualsiasi.
È necessario quindi, e nel contempo difficile, risvegliare la capacità di osservare la natura in modo attento, di un guardare che ascolta, e che sa riconoscere e collegare elementi diversi e distanti e trarne conseguenze, un po’ come “sapevano fare abilmente i nostri antenati nel leggere nel cielo i movimenti dei corpi celesti per orientarsi nello spazio e dare ordine al tempo, e nel leggere i segni e le tracce impresse sulla terra” (F. Lorenzoni op. cit.).
La natura è dunque contesto e possibilità di esperienze formative, in continuo imprevedibile cambiamento di suoni e colori, odori e clima, all’opposto del classico setting di psicoterapia, dove la cornice rimane sempre il più possibile “neutra”, priva di stimoli.
La natura intesa come luogo curativo, richiede a coloro che ricercano un contatto con essa, uno sforzo di adattamento continuo per vivere (a volte addirittura per sopravvivere): chiede al corpo di stare sveglio, attento, chiede impegno e fatica, crea le condizioni per poter vivere emozioni forti di paura, stupore, attiva i sensi.
Dall’apertura della struttura ad oggi la proposta di un setting di lavoro in ambiente naturale con il gruppo intero o parziale degli ospiti, è stata una costante caratterizzante il nostro intervento interdisciplinare.
Gli interventi son stati condotti nel tempo, sia da conduttori singoli, che da coppie, che da gruppi di operatori consulenti sia interni che esterni.
Per un certo periodo si è utilizzato per la residenza, un rifugio di montagna del territorio con la permanenza da un minimo di due ad un massimo di cinque giorni e notti di permanenza. Azioni nella natura, in un luogo dove si ritornava regolarmente, con l’obiettivo di far fare ai ragazzi ed alle ragazze esperienza del proprio processo creativo personale, delle dinamiche di gruppo e dei propri limiti, partendo dall’esperienza corporea ed artistica; in altre circostanze e con altri collaboratori, si sono invece utilizzati di volta in volta, differenti ambienti scelti in relazione al bisogno dei partecipanti, dallo scendere nelle grotte con la loro forma uterina, con valenza di grembo materno, al risalire un torrente o le cascate di ghiaccio, all’arrampicata su roccia con l’aspetto della verticalità, alle corse sulla neve con i cani da slitta, al percorrere un fiume in canoa, arrangiandosi per dormire con l’uso di tende o rifugi o bivacchi. Le condizioni dell’abitare in natura sono effettivamente inusuali e scomode per un adolescente che magari l’ha incontrata solo ai giardini pubblici cittadini: una volta un ragazzo ospite, che aveva visto pascolare una mucca mi chiese: “ma le pecore hanno le corna?”. Ho potuto avere conferma che la potenza e forza della natura hanno contenuto aspetti onnipotenti e devianti di alcuni adolescenti ospiti, i quali sono riusciti, grazie a tale confronto, a mostrarsi nella loro profonda fragilità e limitatezza (tali riflessioni e materiali vengono in seguito discussi ed elaborati in seguito in comunità terapeutica).
Importanti ai fini dell’esperienza in natura sono poi tutti gli aspetti legati alla preparazione del viaggio, con lo studio di mappe e la progettazione dell’itinerario; la preparazione del proprio zaino è altro aspetto facente pare di tale esperienza, dove si mettono le cose essenziali personali ed ognuno porta con se qualcosa di utile sia a sé stesso che al gruppo, come il cibo o le attrezzature da campeggio; i generi differenti di uomo e donna vengono rispettati nelle loro differenze e dunque ad esempio le figure femminili portano meno pesi che quelle maschili.
Nell’uscita in natura che segue la fase di preparazione, si è nella necessità di dover imparare ad orientarsi nel territorio esplorato; questo richiede di osservare il cielo sia di giorno che di notte, cercando i punti di riferimento necessari, che sono in senso fisico i punti cardinali; il camminare è l’azione di movimento di base di tali uscite, anche se di volta in volta i differenti consulenti hanno poi integrato l’esperienza con varie proposte di tipo corporeo ed espressivo: il camminare chiede relativo sforzo e fatica e permette di spostarsi da un luogo ad un altro e di realizzare il proprio progetto di uscita in natura essendo peraltro l’azione primaria necessaria all’uomo fin dai tempi dell’homo erectus; in queste esperienze si crea la condizione ed il bisogno di camminare per arrivare nel luogo ipotizzato, dove c’è un rifugio, o dove c’è l’acqua...; succede spesso che qualcuno non abbia voglia di andare avanti, in questi casi è dunque il gruppo che si attiva ed il più delle volte riesce a sbloccare l’eventuale momento di difficoltà; si possono osservare ed anche strutturare le dinamiche di leadership tipiche di ogni gruppo, in modo da facilitare lo sviluppo della fiducia nei compagni e di comprendere l’identità e le caratteristiche di espressione e comportamento del gruppo stesso.
A volte si sono incontrati sul cammino contadini o pastori, che hanno dato ai nostri ragazzi inaspettate lezioni di comunicazione sincera e semplice.
La proposta di intervento in natura, è basata sull’offrire agli adolescenti residenti la possibilità di abitare un terzo luogo, che di solito è rappresentato da rifugi, bivacchi o tende, in un certo senso non impregnato da memorie, relazioni ed esperienze emotive che hanno segnato le storie degli adolescenti residenti in comunità terapeutica; l’esperienza in natura va quindi ad aggiungersi, ad affiancarsi all’abitare tra la casa dei parenti e la casa comunità.
Nel nostro “fare comunità terapeutica” si sono inoltre esperimentate e strutturate azioni ed attività di terapia-educazione utilizzando come tema e metafora, ognuno dei quattro elementi naturali, acqua aria terra e fuoco:  i progetti relativi hanno coinvolto e connesso i differenti ruoli, tutti i componenti della comunità, sia ragazzi che operatori, terapeuti ed educatori.
Per periodi di tempo stagionali si è lavorato alternativamente a tema su ognuno dei quattro elementi di Empedocle.
Porto un esempio di applicazione del progetto sugli elementi naturali: qualche anno fa, e per la durata di nove mesi, si è scelto insieme il tema “acqua” e si sono sviluppate una serie di attività e laboratori quali: foto d’acqua, attività artistiche con i colori dell’acqua, miti e racconti d’acqua della nostra e di altre culture, costruzione di uno stagno con fontana nel giardino della comunità terapeutica, visita all’acquario di Genova, musiche, canti e suoni dell’acqua, momenti di discussione ed informazione sull’ecoutilizzo dell’acqua, piscina, bagni termali, raccolta alle fonti del territorio dell’acqua da bere ai pasti, perlustrazioni al fiume Lambro, che scorre a due passi dalla comunità, corse attorno al lago del Segrino (un piccolo laghetto prealpino nei pressi della comunità), grigliate e nuotate notturne in piccole spiagge del lago di Como.
Un ulteriore esempio di pratica della natura in comunità terapeutica è l’esperienza di gestione e cura di un orto e di un giardino; l’adolescente della comunità terapeutica che per sua attitudine tende a volere tutto e subito e che ancora non conosce la pazienza, si confronta con il fatto che per poter avere un prodotto, estetico o alimentare, è necessario far fatica ed aspettare, imparare ad attendere che il tempo faccia il suo corso e che i semi seminati possano crescere.
Mi sembra a questo punto importante evincere quanto la natura contenga ed integri in se’ aspetti formativi, pedagogici, estetici e curativi, al contrario di quello che oramai la nostra cultura propone in modo massiccio ed invasivo, ovverosia il mondo tecnologico e virtuale che abbonda ed anestetizza sia le emozioni, che il corpo ed il pensiero ed allontana da una sensibilità estetica; rispondere a questa mancanza e bisogno mi sembra una scommessa che può rappresentare una valida e percorribile possibilità di apprendimento per l’adolescente in generale ed in particolare per quello che abita in comunità terapeutica.
Credo che vi sia una similitudine di linguaggi tra la natura, che è disordinata nella sua biodiversità, e nello stesso tempo è continuamente mutevole e bella ed ha una sua armonia, e l’adolescente con il suo caos e disordine di emozioni, desideri e pensieri ed il forte mutamento del suo corpo; questa vicinanza e rispecchiamento, ma anche differenza di linguaggi, credo che possa stimolare e facilitare il ritrovamento di tale rapporto.
Ritrovare uno sguardo attento ed aperto verso la natura e verso i cicli vitali che regolano l’esistenza del cosmo, può dunque avere il significato di restituire un po’ di respiro agli adolescenti che risiedono in comunità terapeutica e che hanno paura di stare sempre chiusi dentro la comunità terapeutica, come se fosse un carcere, ma che poi, quando gli operatori cercano di portarli fuori ad incontrare la natura, spesso si oppongono, chiedendo al suo posto di andare in un centro commerciale a mangiarsi un hamburger!



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giovedì 30 gennaio 2014

Testimonianza

Testimonianza

di un ex scientologist italiano

      

Tratto dal blog di Rebel Café, 12 novembre 2005.
 
Carissimo Paolo, ma anche carissimo Davide (se sei ancora dentro) e tutti quelli che sono ancora in Scientology come pubblico o staff, che si stanno "addestrando" o stanno ricevendo auditing; questa è un lettera per voi, da uno che è stato in Scientology per 5 anni e che, con sforzi enormi, è riuscito a uscirne. Per uscirne non intendo solo fisicamente, uscire dalle linee (uso apposta una certa terminologia perché possiate riconoscere un ex scientologo), ma soprattutto uscirne con la testa: questa è la cosa più difficile. Queste righe scritte con un po' troppo di "sentimentalismo" sono per voi; io so che siete belle persone e che le vostre motivazioni sono buone, ma siete stati catturati da qualcosa di più sofisticato di voi, da qualcosa che non vi danno il modo di capire dall'interno. Non mi unisco al coro di disprezzo verso di voi, ho tutta la compassione che in Scientology non esiste (e questa è una grossa "vittoria" per me): il dolore che voi state fingendo di non avere io l'ho vissuto e mi ha spaccato quasi la testa. In internet è possibile trovare molto materiale su cos'è veramente Scientology, è una fortuna, io non disponevo di internet allora per capire Scientology: nessuno sa cos'è? Chi lo critica senza esserci stato dentro non immagina l'inferno che si passa. Chi ne è dentro, e vive quell'inferno è come in un incubo che scambia per sogno e vede l'inferno al di fuori, la sofferenza è enorme per loro, ma si mascherano dietro allo "scopo" della libertà totale per essi e per gli altri. I sintomi per capire questa illusione possono essere colti in ogni istante, basta un minimo di consapevolezza (che ormai è offuscata), con l'osservazione "critica" (che non è il criticismo contro tutto e tutti a priori, caratteristica che vi insegnano essere dell'SP o del PTS, SP persona soppressiva e PTS potenziale trouble source, sorgente di guai... i concetti che Hubbard utilizza per farvi odiare il mondo e le persone attorno a voi che criticano o addirittura sono scettiche su Scientology... fu il primo lavaggio del cervello che io subii col corso "come vincere gli alti e bassi della vita"). Io sono stato dentro a tutto questo dal 1991 al 1996. Frequentavo l'org di Brescia, la "chiesa" di Scientology dei 3 Laghi. Come uno si fa prendere da Scientology è una cosa strana, inspiegabile quasi, a posteriori, ma ha a che fare con dei sottili inganni, sottili trappole psicologiche che fanno leva sul proprio altruismo e sulla propria voglia di migliorare (e perché no sulla propria ambizione), ma anche su una massiccia dose di "ingenuità" (stupidità forse) e la voglia di credere a qualcosa di "risolutivo". Trappole molto sottili all'inizio, ma continue, poi diventano forzature ben forti, come legnate...ma all'inizio tutto è sottile, entra liscio. L'approccio scientifico fa sperare in risultati oggettivi: i corsi di base sono leggeri da sopportare, ti diverti anche a volte, ma già comincia l'opera di "ipnosi".
In Dianetics leggi che l'ipnosi può avvenire solo da incoscienti, e che in dianetics e nell'auditing non c'è ipnosi perché la persona è cosciente... invece l'ipnosi funziona anche da svegli. Lo dimostra palesemente la pubblicità oggi, i suoi messaggi all'inconscio che fanno comperare, ma è un meccanismo evidente fin dagli inizi del secolo, da Freud eccetera... è solo uno dei tanti buchi della teoria di dianetics, ma uno ignorante in materia non può accorgersene (doveva mettermi in allarme il come in Scientology tutto appaia semplice e già pronto, una soluzione per tutto e per l'eternità; in effetti lo può essere, ma non in positivo). Coi primi corsi cominciano a farti entrare in testa, piano piano e dolcemente, dei concetti che poi adopereranno per far leva sulla tua volontà. Dico piano piano e dolcemente, sempre mescolati a concetti "giusti", accettati da tutte le brave persone... come i "punti d'onore" del corso di integrità personale (chi negherebbe la validità del punto "non abbandonare un amico in caso di difficoltà" con tanto di disegno di uno che sta per affogare e un altro che gli porge la mano)... e tu pensi "giuuusto cazzo, io quella volta tradii il mio amico Marco... ecco perché mi sento male..." funziona così, cose apparentemente belle e giuste vengono distorte sempre di più per farti stare dentro e lottare contro il mondo. Arriva qualche miglioramento forse, forse: magari ti rendi conto di quanto sei stato stronzo con quella tua fidanzata e c'è del sollievo. Ma sono tutte osservazioni personali, sei tu che realizzi quelle cose... E' poi tutto un susseguirsi di piccoli momenti, di rottura con il tuo buon senso (accettare quella strana croce, quei busti e foto di Hubbard ovunque, quegli infiniti scritti su ogni cosa, quella gente che sembra normale come te o a volte anche un po' "sfigata" che declama i miglioramenti avuti dall'essere scientologo, vedi dei "clear" o degli OT che sembrano proprio come gli altri, se non peggio... ma?) piccole forzature ripeto, piccole violenze psicologiche: piccole ma continue, un bombardamento a tappeto, una STRATEGIA di convincimento (leggendo le testimonianze degli Ex ti rendi davvero conto che su ognuno che entra nella chiesa c'è un "programma", basato sulle cose che racconti, che scrivi, un progetto su ciò che dovrai fare che inevitabilmente è: se lavori o hai dei soldi, farsi pagare il più possibile e quando non hai più nulla lavorare per Scientology come staff per 12 ore al giorno; se invece non hai ricchezze lavorare da subito per Scientology come staff...). In questa costante opera di convincimento ti vengono inculcati concetti che sostituiscono progressivamente il tuo pensiero e descrivono una nuova realtà in cui ti vieni a trovare senza accorgertene, col tuo accordo apparentemente. Ti vendono continuamente dei libri (io spendevo minimo 200.000 al mese in libri e pubblicazioni di ogni tipo), i membri dello staff ti raccontano continuamente delle "cose" su cosa succede a fare Scientology, fanno continuamente leva sui tuoi obiettivi e le tue speranze per alimentarle, qualsiasi esse siano, lo staff è molto flessibile in questo senso... e più vai avanti più fanno leva sul senso del dovere, sulla missione di "chiarire te stesso e chiarire il pianeta" (perché non potrai mai essere completamente libero se non lo sono anche gli altri... buffo perché se mettiamo la parola "schiavo" al posto di libero la frase non perde effetto, anzi... ). Io quando sono entrato non avevo nessun grosso problema. Stavo bene ed ero pieno di amici, qualche scazzo coi genitori, ma chi non ce li ha a 24 anni se vive ancora in casa? L'università andava benino ed ero sulla strada per essere "un artista": fu questo sogno a invitarmi. Avevo letto la testimonianza di Chick Corea (che al tempo ammiravo enormemente) su dianetics e volevo "migliorare", ero interessato alle mie "potenzialità", volevo diventare un artista nella vita, non un semplice laureato come tanti... ma non avevo problemi, semmai sogni, chi non li ha? Il test d'ingresso ovviamente mi disse il contrario! Quel Registrar (colui che ti "registra", cioè iscrive ai corsi) fu spietato a girare il coltello nella piaga, con quella giacchetta a quadretti e quei capelli ricci e lunghi da metallaro. Io, che sono di natura molto autocritico credetti di scorgere dei punti di verità, lì fui ingenuo, lì cominciarono i miei guai: mi iscrissi al corso di "alti e bassi" pensando "provo, se non va bene poi mollo tranquillamente questa strana chiesa di Scientology... cosa mi costa (...le prime 150.000 lire più o meno)?"... credevo di poter mollare facilmente, ma così non fu. Innanzitutto le pressioni a fare sempre più ore di studio. Ci puntano molto. Vogliono farti passare sempre più tempo nella chiesa (e sempre meno a contatto con gli altri). Io dicevo di non avere tempo perché dovevo studiare eccetera... il supervisore e lo staff insistevano. Mi mostravano scritti di Hubbard sull'efficacia di fare i corsi più velocemente studiando di più. Mi dicevano "cosa fa il maggior bene per il maggior numero di dinamiche"?, "coi nostri corsi sullo studio brucerai via l'università (grossa balla ho verificato poi...)" ... "cosa è più importante nella tua vita, l'università o diventare clear/OT/auditor"? Insomma non sto a descrivere tutto perché ci vorrebbero 10 righe per ogni 10 minuti in cui stavo nella chiesa... ma la pressione da parte di tutti era fortissima, chi faceva il buono e accomodante, chi mi richiamava al senso del dovere, all'impegno e alla vacuità dell'esistenza senza Scientology: il classico schema "poliziotto buono, poliziotto cattivo", ma al tempo ne ero in balia, fiducioso che potessi realizzare il mio sogno (sogno che venne progressivamente sostituito, fanno così: ti "invalidano" quello che fai per farti pensare solo a Scientology). Finito un corso e ancora dubbioso sui risultati ottenuti mi forzavano a cominciarne subito un altro, feci tutti i corsi base, il purification (saune e vitamine e corsa... per nulla), lo student hat, il grado 0 e il metodo uno... per un totale di più di 10 milioni circa (senza tutti i libri e cazzatine che comperavo)... mi trovarono (pensate a cosa arrivano) un lavoro part time tramite uno scientologo perché potessi pagarmi i corsi visto che non volevo al tempo lasciare l'università; mi spremevano un sacco di soldi in libri e feci addirittura una donazione di 2 milioni di lire. Arrivai al punto di mentire ad un anziano zio per avere quei soldi. Vi rendete conto a che punto ero arrivato? Fuori dalla chiesa le cose diventarono poco a poco davvero brutte. I genitori, demonizzati dagli scientologi come causa di tutti i mali (autori di "engram", soppressivi e quant'altro... quando vi assicuro che i miei sono persone miti e laboriose, padre artigiano e madre casalinga/contadina) vedevano in me sempre meno interesse nel mondo (ed era vero) e si preoccupavano del mio ritardo sugli esami, delle mie serate e viaggi alla chiesa (abitavo piuttosto lontano), mi vedevano più teso e rabbioso (e lo ero)... gli amici idem... anche qui lo spazio è poco rispetto alle cose da dire... a casa diventò un casino... nella chiesa ognuno mi diceva cosa fare: chi "belle strade e bel tempo" che in pratica vuol dire non rispondere alle critiche, non ragionarci, e sviare il discorso (adesso uno scientologo penserà che ho "parole malcomprese sul corso", invece è la realtà signori!); chi mi diceva (e lo feci purtroppo) di chiedere a mia madre quali crimini aveva fatto nei miei confronti in passato (proprio mia madre!); un membro dello staff mi raccontò con orgoglio di "aver attaccato al muro" suo padre perché si opponeva a Scientology, un FSM (field staff member, quelli che girano a vendere i libri) mi raccontò come una cosa positiva il fatto che dopo l'auditing uno schiaffeggiò la madre o il padre, mi disse "è salito di tono e finalmente ha reagito" (bella reazione, con uno di 60 anni)... insomma ero fuori di me, e pensavo di star raggiungendo l'infinito... tutto in pochissimi mesi se ci penso... I risultati dai corsi non venivano. Il primo sugli alti e bassi non risolse nulla, anzi peggiorò di brutto la mia vita; smisi lentamente anche di dipingere che era la mia passione, sono un discreto pittore/disegnatore ora... allora mi fecero vedere la pittura come una perdita di tempo, così come gli amici e la famiglia, uno staff mi disse "sono tutte cose che hai già fatto nelle vite precedenti, se non interrompi la catena continuerai a viverle per l'eternità, solo Scientology ti permette di farlo, di tornare al tuo vero essere, di interrompere la Spirale discendente"... cose che trovavo confermate sui corsi e sui libri... un mondo chiuso dove tutto ciò che è fuori è inutile e dannoso; fu qui tra l'altro dove cominciarono a insegnarmi di non leggere giornali o libri non della chiesa... affermando che mi sarei sentito meglio (il che con tutte le brutture dei tg può essere vero, ma ti benda letteralmente sulle cose del mondo e soprattutto impedisce che arrivino informazioni negative sulla setta). Anche gli altri corsi fecero danni, con "integrità..." imparai a sentirmi sbagliato e pieno di errori: prima di convincerti che devi migliorare debbono farti credere di "essere sbagliato". Coi TRs (Training Routines) del corso di comunicazione imparai l'arte di non dare retta alle cose che sentivo e a fingere con gli altri, esercizi simil-meditazione e comunicazione nelle quali ripeti all'infinito una cosa fino a che "ti succede qualcosa", un miglioramento o altro... all'esame finale ero sempre "ago libero" (ok) e mi sforzavo di trovare cose positive che mi succedevano; ma non capivo allora perché... effettivamente non stavo migliorando, ma fingevo alla grande (inconsapevolmente) perché DOVEVA ESSERE COSI' altrimenti sarei stato in errore (overt, qualcosa tipo "peccato", parole malcomprese o connessione con SP...) e le verifiche avrebbero detto che dovevo risolvere/maneggiare situazioni nella mia vita (ovvero comprare auditing o lasciare i miei genitori, o la fidanzata o gli amici). Una cosa che ora trovo divertente degli scientologi è che stanno tutti in confusione, sono sempre lì a rimuginare (un pensare ossessivo e senza costrutto) nella mente, a cercare appigli nella realtà sul fatto che stanno migliorando o che miglioreranno o che la "tech" (gli insegnamenti di Hubbard) funzioni... insomma hanno nella testa un continuo brusio interiore che logora, pieno di sofferenza e forzatura: ma all'esterno sorridono o fanno gli occhi duri e decisi (dedicati, non come la "signora batti batti le manine") come a simulare i risultati promessi dai procedimenti... anch'io facevo così: è la forte pressione, è il fatto che litighi con amici e famiglia di continuo, è che spendi un sacco di soldi, che dentro ti vergogni a dire quello che stai facendo e pensi che sia la mente reattiva o il tuo "caso" che si oppone al miglioramento, alla tua elevazione... e allora ti autoconvinci che non puoi star facendo o aver fatto tutto questo per niente... e fingi, o meglio ti autoconvinci a tal punto che non te ne accorgi più di star fingendo. In più i procedimenti hanno un forte contenuto ipnotico... l'auditing sembra non finire mai, con domande ripetitive e le lattine in mano (che ti mandano una correntina elettrica rilassante mentre l'altro ti forza le risposte): mi accorsi di questi effetti dopo aver lasciato Scientology... All'ultimo anno la pressione per lasciare la famiglia e diventare staff si fece allucinante, ad ogni pausa di studio ero assediato, ad ogni dubbio venivo mandato in "etica" dove i miei genitori venivano indicati come causa della mia confusione. Sembrava che tutti sapessero cosa succedeva nella mia vita e lo usassero per convincermi che dovevo entrare nello staff o acquistare altro auditing. Negli ultimi due anni di Scientology la mia aggressività (prima di entrare nella chiesa ero conosciuto come il classico "bonaccione") era diventata difficile da controllare in ogni situazione (ne fece le spese mia madre che andò in depressione e minacciò una volta il suicidio con la candeggina che bevve davvero...), ma "addestrato" dai TRs a non manifestare le mie emozioni fingevo forza e noncuranza, soprattutto con i membri dello staff ed il supervisore dei corsi. Avevo sempre un mal di testa e la sensazione di pressione alle orecchie, ero ingrassato di 35 kili, mangiavo continuamente e mi masturbavo tanto (per l'effetto sedativo che da); non riuscivo ad addormentarmi se non tardi di notte spossato e mi alzavo la mattina stanco senza voglia di far nulla se non andare all'org per auditing o per i corsi. Non sto esagerando. Avevo smesso di dipingere, di avere interesse per il lavoro e lo studio, odiavo tutti, paranoico. Dopo una violenta discussione con mia madre e dopo aver saputo che si era interessata tramite le forze dell'ordine le quali (e le ringrazio) la avvertirono del pericolo soprattutto di danni economici, decisi che non ne potevo più e di prendere una pausa di riflessione. Per fortuna abitavo lontano dal centro di Brescia, ma dovetti cambiare la scheda del cellulare mi sembra: per staccarmi dissi alla chiesa che c'era la minaccia di una denuncia e non volevo mettere in pericolo la loro reputazione (che già era quello che era... ma io non avevo letto quasi nulla... nel 1997!); ero psicologicamente distrutto, ma non avevo ancora ben realizzato cosa mi era successo in quegli anni. Già dal giorno dopo fu tremendo. Come un tossico che non può più drogarsi per me la vita non aveva senso e meditai spesso il suicidio (durante alcuni esami di etica ti inibiscono i pensieri suicidi con domande che in realtà percepisci come inibizioni... Scientology teme particolarmente le tendenze suicide degli adepti credo...). Ma mi dicevo "ho la conoscenza di Scientology, sono stato audito, sono migliore degli altri; posso avere successo facilmente e tornare sul Ponte della Libertà al più presto senza dover chiedere soldi a nessuno o senza lavorare come staff"... non fu (ancora) così! Tornato a studiare per finire l'università notai come ero diventato molto più lento: per dare un esame che prima mi avrebbe richiesto un mese ce ne misi 5, un semplice esame minore.
Abbandonai le tecniche di studio di Hubbard (chiarire le parole col dizionario in modo ossessivo serve più che altro a fare entrare in testa come sotto ipnosi il gergo di Scientology e isolarti dalla comunicazione quotidiana) e ripresi usando il buon senso e il ragionare e ricominciai a funzionare come studente; si sa che gli esami dell'università spesso sono un concentrato di nozioni inutili, ma intanto bisogna saperli affrontare. La maggior parte degli staff invece non era molto istruita (al tempo nessuno laureato), il mio FSM era un semianalfabeta e scriveva con difficoltà, sapeva usare solo le parole e le frasi di Hubbard combinat (ma forse è un caso estremo) ...c'era un supervisore dei corsi affetto da balbuzie... una volta notai dei miglioramenti e gli chiesi se fosse stato l'auditing... lui mi disse di sì, o meglio che in auditing aveva trovato la volontà di andare da un logopedista per lavorare su quel difetto! Una volta laureato, non ancora convinto, pensai che grazie a quanto appreso in Scientology avessi avuto la vita spianata: un fatto è l'università, mi dicevo, dove studi roba inutile, ma nel lavoro devi essere efficace e lì Hubbard mi farà spaccare il mondo!
ANCORA non fu così. A forza di credere in Hubbard e in quello che mi pompava lo staff mi ero istupidito, ogni piccola cosa diventava difficile se non c'era nessuno che me la spiegasse come ad un bambini: non esagero, mi spaventai molto.... dovetti riprogrammarmi ad usare la mia testa.
Persi ben 4 lavori, e l'immagine che diedi fu di un imbranato totale... e vi assicuro che non lo ero prima di tutta la storia con Scientology. Vennero poco a poco anche cose molto belle, ricominciai a confrontarmi con la realtà e a pensare con la mia testa nella risoluzione dei miei problemi e poco alla volta sono riuscito a trovare un bel lavoro, a farlo bene, a trovare una ragazza eccetera... ma Scientology rimaneva in un angolo, come un miraggio che mi avrebbe liberato dalla schiavitù della vita terrena... vi garantisco che il plagio continuò per anni, magari in un angolo della testa, ma sempre presente, continuavo a difendere Scientology e a rifiutarmi di leggere notizie contrarie; la programmazione durava anche a distanza di tempo e di spazio; infatti continuavo a non star bene. Dopo e a causa di Scientology i rapporti con gli altri erano diventati molto difficili: fingevo con tutti, continuavo a vedere nemici (SP) ovunque; arrivai a menare le mani con mia madre e la mia ragazza, continuavano i mal di testa, non riuscivo a liberarmi dei kili in più, non avevo voglia di fare niente, andavo a lavorare meccanicamente e con grande fatica... insomma i sintomi maturati durante l'esperienza con la chiesa me li stavo portando dietro, ma stavolta non avevo la voglia di fingere perché non avevo da temere la disapprovazione degli staff o i maneggiamenti di etica. Continuavo a leggere ossessivamente argomenti affini a Scientology, a praticare meditazioni o altro con la speranza di raggiungere da solo gli effetti promessi e tanto desiderati nel periodo di afflizione alla setta. Col tempo miglioravo un po', ma troppo lentamente e avevo sempre meno voglia di evitare il problema o fingere di star bene. Due anni fa presi piena coscienza del fatto che nonostante non avessi più contatti con la chiesa da anni gli effetti negativi sulla psiche continuavano, allora pensavo fosse colpa mia, del mio abbandono, una specie di "punizione" fino al mio rientro e pentimento. Nel frattempo però cominciavo a scoprire che Hubbard riciclava tanta roba in modo spudorato e alterato. Il suo concetto di "essere" è copiato da Platone ad esempio... un po' di Freud, un pizzico di Einstein e via... Decisi per una terapia naturale ben precisa... l'effetto fu immediato, riconobbi poco a poco la devastazione mentale causatami da Scientology. Senza leggere materiale critico riuscii a vedere quello che non riuscii al tempo, per due mesi continuarono a venirmi in mente soprusi personali, forzature, oppressioni. Notai la presenza di una personalità ancora forte, una persona diversa da me nei miei pensieri, uno scientologo che continuava a vessarmi: forza dell'ipnosi. Trovai la forza di buttarmi in internet, vinsi l'ossessione della paura di sporcarmi con materiale "entheta": le testimonianze dei fuoriusciti, gente OT8 (il massimo livello) certificata che diceva cose allucinanti nelle quali però mi ritrovavo, almeno per la mia esperienza (5 anni da studente dei corsi e un po' di auditing)... mi aprii gli occhi e finalmente i miei malesseri cominciavano a migliorare e a sparire. Mi sentivo come stuprato, ma almeno il sollievo stava arrivando. E ogni giorno meglio... fino ad oggi (la faccio breve) dove posso dire di stare davvero bene, felice (a volte più a volte meno, ma è la vita) e soprattutto tranquillo. Scientology rimane un ricordo ed un'esperienza importante. Aver conosciuto un "male" così grande ti tempra, ho capito ed elaborato i motivi che mi ci hanno spinto dentro e sono molto maturato. Ho un bel lavoro, una moglie e una vita mia, coi suoi bei momenti e con quelli difficili, ma mia. Ho ripreso a dipingere con soddisfazioni anche. Sto bene nella normalità. Mi piace la gente che mi sta attorno al lavoro e nella vita, quasi sempre almeno... La spiritualità? Rimane una cosa che coltivo. E' stata la cosa più dura, dopo un simile trauma diffidavo di ogni cosa si dicesse spirituale; in un bel sito che parla delle sette a controllo mentale fa proprio il parallelo con chi è stato stuprato che prima di pensare ancora al sesso in modo normale deve superare enormi barriere... è stato così. Scientology è un vampiro che ti succhia la vita. Chi c'è dentro diventa vampiro egli stesso, contro la propria volontà, ma lo diventa. Per questo dico agli scientologi: fermatevi a pensare a quello che sentite dentro, alla vostra vita finora, agli effetti su chi vi stava attorno o ancora ci sta. Un piccolo sforzo, cosa vi costerà leggere le testimonianze di ex membri. Provocatoriamente vi dico: dov'è tutta la vostra potenza di esseri eterni se avete paura a leggere un sito internet? Da dove viene questa paura? In bocca al lupo, sarà dura, ma non peggio di come state oggi!
Un abbraccio a tutti voi.