mercoledì 9 luglio 2014

LA DRAMMATIZZAZIONE ICONICA: L’ESPERIENZA DEL “GRUPPO DELLE SABBIE” IN COMUNITÀ TERAPEUTICA Anno 14, n. 58, Giugno 2014


                                                                                                                                                        


LA DRAMMATIZZAZIONE ICONICA:
L’ESPERIENZA DEL “GRUPPO DELLE SABBIE” IN COMUNITÀ TERAPEUTICA

Anno 14, n. 58, Giugno 2014
Luca Freiria




 Terapia di Comunità
www.terapiadicomunita.org
Rivista ufficiale della Comunità Terapeutica
IL PORTO onlus              www.ilporto.org
Via Petrarca 18 - 10024 Moncalieri(TO)


  



                                                     
                                                                                                             
LA DRAMMATIZZAZIONE ICONICA:
L’ESPERIENZA DEL “GRUPPO DELLE SABBIE” IN COMUNITÀ TERAPEUTICA

Anno
14, n. 58, Giugno 2014
Luca
Freiria


Note
biografiche sull’autore in calce all’articolo
.

                                                        
                                                                                                             














Premessa


Da dove cominciare?
E’ la domanda che mi è frullata
per la testa testa per un po’, dopo aver realizzato che probabilmente era giunto
il momento di condividere il lavoro che svolgiamo da diversi anni con Marisa
Mozzone, conducendo quello che viene ormai stabilmente chiamato dai pazienti il
“gruppo delle sabbie”.

Da dove cominciare è una
questione che, sulla scorta di arcani ammonimenti quali “chi ben comincia è a
metà dell’opera” e “anche il viaggio più lungo comincia dal primo passo”,
solitamente mi trasmette entusiasmo e ansia anticipatoria. Così, per rendere le
cose più semplici a me ed auspicabilmente a coloro che avranno la curiosità di
leggere il presente elaborato, ho pensato di cominciare dalla fine, ovvero
descrivendo innanzitutto l’assetto attuale del “gruppo delle sabbie”, per poi
riportare una recente seduta a titolo esemplificativo, e infine concludere con
una breve ma doverosa appendice teorica e tecnica.

Trascurerò in questa sede, ulteriori dilungazioni circa l’originale
avvicendarsi di esperienze professionali e formative che per quasi un decennio
hanno sostanziato la formula odierna del gruppo in oggetto. Mi limiterò ad
aggiungere che tali esperienze hanno avuto, ed hanno, interamente luogo
all’interno della prassi terapeutico-riabilitativa della Comunità ”Il
Porto”-Onlus, grazie ad un ambiente capace da sempre di stimolare
l’approfondimento e la sperimentazione clinica, di cui il “gruppo delle sabbie” stesso non è che uno dei frutti.

  1. “Gruppo delle sabbie” e drammatizzazione iconica


La drammatizzazione iconica (icònico agg.
[derivazione del gr. εἰκών -όνος «immagine»]:  Relativo
all’immagine, o, più spesso, riferito a simboli e simbologie, che è conforme
all’immagine del simboleggiato; in partic., segno i., rapporto
i
. - tra segno e oggetto significato -, in semiologia. Cnfr.
Enciclopedia Treccani) è un particolare dispositivo gruppale  applicato e sviluppato in circa sette anni di
lavoro clinico cnel il “gruppo delle sabbie”. Quest’ultimo è un gruppo
terapeutico semi-aperto e continuativo che si svolge, con cadenza settimanale
(durata: 75-90 minuti), nella grande sala della musica e, se il tempo lo
permette, nel parco della Comunità Terapeutica “Il Porto” di Moncalieri (TO).

Il modello teorico di riferimento è quello dello psicodramma analitico individuativo (cfr. Gasca 2003), fondato principalmente
sulle prospettive junghiana e fenomenologica, mentre la maggior parte degli
strumenti e delle tecniche di conduzione attingono, oltre che dalla prassi
dello psicodramma e del sociodramma, anche dalla sandplay therapy (Kalff 1966).

Questo peculiare assetto di gruppo è pensato per un numero massimo dagli
otto ai dieci pazienti, sia provenienti dalle tre Unità residenziali della
Comunità (Unità per disturbi da psicosi o Casa
Madre
, Unità per disturbi di personalità o Ex-Scuderie, Unità di Reinserimento) che esterni in progetto
diurno, prevede nella sua forma attuale la co-conduzione da parte di uno
psicoterapeuta ed uno psicodrammatista (Luca Freiria), un’esperta in
psicomotricità e tecniche espressive non verbali (Marisa Mozzone) e, possibilmente,
la presenza di due o tre Io-ausiliari (di norma selezionati tra i tirocinanti
psicologi).

Ogni sessione si suddivide in cinque parti: pre-gruppo, riscaldamento,
rappresentazione iconica, condivisione attiva, post-gruppo.


Pre-gruppo: composto dai conduttori e dagli Io-ausiliari, si
riunisce mezz’ora prima della seduta per fare il punto sui pazienti che
interverranno al gruppo, condividere eventuali episodi significativi che li
hanno coinvolti in settimana, individuare se necessario temi e strumenti
specifici per la seduta che avrà luogo di lì a poco.


Riscaldamento
:
ogni seduta ha inizio con una prima parte (20-30 minuti), solitamente condotta
dall’esperta in tecniche espressive non verbali con il supporto del terapeuta,
dedicata ad esercizi di riscaldamento (warming-up psicodrammatico, sociometrie,
attivazione somatica-sensoriale, etc.), che hanno lo scopo di facilitare la
formazione della matrice gruppale, favorire la comunicazione intersoggettiva e
far emergere i ruoli individuali e un tema di gruppo.


Rappresentazione iconica: in questa fase (30-45 minuti) lo
psicoterapeuta svolge il ruolo di conduttore e la collega assume la posizione
di recorder, mentre i pazienti e gli Io-ausiliari rappresentano, all’interno di
una sand-box appositamente
realizzata, i contenuti individuali (ricordi, sogni, immagini simboliche)
spontaneamente emersi nel riscaldamento, utilizzando i diversi oggetti messi
loro a disposizione (figura 3). Ogni
singola composizione è in parte
assimilabile ad una “foto di scena” psicodrammatica che viene poi
condivisa da ogni paziente con il gruppo e animata attraverso doppiaggi, scambi
di ruolo e soliloqui.

Ma lo spazio di rappresentazione, costituito dalla sand-box o sabbiera, contiene contemporaneamente diverse scene
pronte a prendere vita. Esse occupano, singolarmente e nel loro insieme, un
volume ed una posizione peculiari all’interno di un contenitore dai confini
costanti e condivisi. Tutti questi aspetti promuoveno una possibile lettura
anche sociodrammatica (talora sociometrica) della rappresentazione mediante
sandplay, permettendo talvolta a conduttori e pazienti di vedere riprodotte,
come in una sorta di plastico, le complesse dinamiche intercorrenti tra i vari
ruoli rappresentati nello scenario (es. figura
1
).



figura
1.
Scenario
con rappresentazioni inerenti al tema della condivisione.
Mentre la maggior
parte dei
partecipanti porta immagini positive, perfino stereotipate, una paziente
raffigura,
con un totem
circondato da serpi velenose (in alto a destra), il ricordo di una confidenza
tradita.
Il gruppo
esprime spontaneamente, mediante la distanza dal totem, la difficoltà di far
coesistere
a stretto
contatto vantaggi e rischi dell’apertura all’altro.



Condivisione attiva: è lo spazio deputato all’interazione dinamica
tra le varie composizioni presenti sulla sabbiera. Ogni partecipante può adesso
animare le rappresentazioni proprie e degli altri, manipolando la sabbia,
spostando e aggiungendo oggetti, dando ad essi suoni o parole.   Quando infine la sand-box ritorna quieta, lo scenario è mutato, il conduttore invita
i pazienti a condividere le intenzioni, i dubbi e le emozioni correlati a
quello che è appena accaduto.

In questa fase viene agevolata l’espressione spontanea - dapprima agita
e poi verbalizzata - del complesso di proiezioni ed identificazioni che si
attivano durante il gruppo, stimolando così il processo di mentalizzazione
(Allen, Fonagy, Bateman., 2008).

Al termine, ogni partecipante cerca di trovare un senso a quanto è
avvenuto durante la seduta e lo fa dando un “titolo” significativo all’immagine
che comprende la totalità delle composizioni individuali che hanno interagito
nello spazio della sabbiera.


Durante le fasi di rappresentazione iconica e condivisione attiva, il
conduttore scatta delle foto che, unitamente a quanto appuntato dalla recorder,
costituiranno materiale utile per le osservazioni post-gruppo e periodici
rimandi ai pazienti.

Post-gruppo: I conduttori e gli Io-ausiliari
condividono osservazioni cliniche rispetto ai singoli pazienti, alla dinamica
di gruppo ed al materiale emerso durante la seduta. In questo frangente
risultano particolarmente preziose le osservazioni degli Io-ausiliari, i quali,
durante le fasi precedenti della seduta, condividono a tutti gli effetti il
medesimo lavoro dei pazienti, svolgendo così la duplice funzione di sostegno ed
osservatore privilegiato.


  1. L’Orco sullo Sfondo” : una sessione esemplificativa


Il pre-gruppo della sessione
in oggetto ha luogo al consueto orario (14,00), in un soleggiato mercoledì
estivo, nella sala della musica della
Casa Madre (figura 2).






Figura
2
.   La sala
della musica
della Comunità Il
Porto
di Moncalieri

Figura
3
.  Dettaglio: Camino con oggettistica per sandplay






Iniziamo scambiandoci informazioni sui vari membri del gruppo: in due
mancheranno alla seduta per ragioni organizzative, mentre uno è al mare con la
famiglia; inoltre, due tirocinanti con il ruolo di Io-ausiliare torneranno a
Settembre dalle vacanze. Saranno invece presenti alla sessione Camilla, Paola
(entrambe residenti del’ Unità per disturbi di personalità), Luna e Anselmo
(pazienti esterni in progetto diurno).

Passiamo poi a condividere le impressioni circa il difficile periodo
che, da qualche settimana, coinvolge residenti e staff della Comunità, a causa
dell’aumento di condotte trasgressive ed antisociali (consumo di sostanze,
aggressività verbale e perfino fisica) ad opera di un esiguo numero di pazienti
delle diverse Unità che compongono la Struttura. Quello che più ci colpisce è
la reazione tiepida ed evitante - di cui ci hanno riferito diversi colleghi -
che molti dei residenti, pur non direttamente coinvolti negli episodi
trasgressivi, mostrano a fronte della grave situazione. Anche i partecipanti al
“gruppo delle sabbie”, negli ultimi tempi, ci erano apparsi cauti,
insolitamente poco coinvolti e piuttosto propensi a lasciare fuori dalle sedute
i  temi più scomodi da gestire. Se, sulle
prime, avevamo deciso di non intervenire attivamente, pensando così di
assecondare il bisogno dei pazienti (e forse anche il nostro) di tutelare il
gruppo come “spazio libero e protetto”( Kalff, 1966), dopo poche sedute abbiamo
realizzato di dover fare qualcosa per sciogliere quello che stava diventando
una sorta di irrigidimento difensivo, e un tantino anaffettivo, attorno ad un
ruolo del tipo “nihil sub sole novum”.
Così, conveniamo di incentrare la fase di riscaldamento su temi quali la
consapevolezza, l’espressione e la regolazione delle emozioni, per provare, per
così dire, ad oliare un po’ gli ingranaggi espressivi e vedere cosa ne vien
fuori.

Riscaldamento.
Alle 14,30 circa, poiché le condizioni metereologiche lo consentono, il
“gruppo delle sabbie” inizia all’ombra del boschetto sito ai margini del parco
antistante la Comunità.

Dopo delle brevi “camminate cadenzate” nel viale (esercizio
psicodrammatico consistente nell’esprimere attraverso il ritmo e la postura
della camminata, un particolare stato d’animo; es.: fretta, sconforto,
aspettativa, etc.), proponiamo al gruppo un gioco per cui ognuno dovrà tentare
di riconoscere il maggior numero possibile di espressioni facciali ritratte in
foto (figura 4).




Figura 4. Le sei emozioni primarie
tratte dalla ricerca di
Ekman e
Friesen 1967

  Le
immagini, reperite in rete e mostrate ai pazienti su tablet (potere della tecnologia!), raffigurano sei emozioni
primarie: rabbia, paura, disgusto, stupore, gioia e tristezza. Il gruppo si
lascia subito coinvolgere, divertito, da questa sorta di gara, indovinando a
turno facilmente quasi tutti gli items; salvo per il fatto che, curiosamente,
sia Paola sia Camilla faticano a trovare significative differenze tra le foto
raffiguranti stupore e paura.

Ci allacciamo quindi al gioco successivo: ogni partecipante cerca di
trovare in sé quella, che tra le sei precedenti emozioni basilari, risulta più
accessibile al momento, e la esprime, magari stereotipandola un po’, con il
viso affinché gli altri la possano indovinare. Anche in questo caso, tutti si
dimostrano molto bravi ad azzeccare le espressioni degli altri, ma nessuno si
azzarda a raffigurare il volto della paura
né quello dello stupore.

Chiediamo poi di comporre un tableau
vivant
di gruppo per ognuna delle sei emozioni riconosciute nelle immagini
del primo esercizio, per poi fotografarle e commentarle tutti assieme.
Accade solo allora che,
attraverso un linguaggio somatico e corale, finalmente lo stupore e la paura
trovano un’espressione più fluida e condivisa, permettendo così di contattarle
nella loro complessità:

Camilla dice, quasi tra sé: ”Facendo
la paura ci copriamo tutti gli occhi, facendo lo stupore ci copriamo al bocca”.

Paola risponde: “Io mi sono
tappata le orecchie! Pure quando facevamo la rabbia.”

Anselmo sorride: “Ecco, così
abbiam fatto le tre scimmiette!”

Io-ausiliare: “E’ vero, in certe
foto sembriamo come le tre scimmiette…”

Terapeuta: “Chissà che emozione
esprimono le tre scimmiette?”

Luna, in un sospiro: “La paura…
l’omertà.”

La consegna che diamo per l’ultima parte del riscaldamento è quella di
gironzolare individualmente nel parco, finché non ci si imbatta in qualcosa che
eliciti una delle emozioni primarie; dopo esser stati un po’ in contatto con
l’emozione emersa, si potrà tornare in gruppo per condividerla.

Anselmo: “In mezzo al prato c’era
questo bicchierino di plastica, e mi ha fatto un po’ di rabbia.”

Paola: “Io mi sono immedesimata in
questa pietrolina, che è piccola e triste come me.”

Luna: “I pomodori che maturano nell’orto mi han messo di buon umore.”

Camilla: “Io laggiù ho visto un ragno che mi ha fatto paura e un po’
schifo!”

Io-ausiliare: “Io ho visto una
tartaruga nella fontana. Non l’avevo mai vista e mi ha stupito.”

Rappresentazione
iconica.
Tornati
nella sala della musica, proponiamo che ogni membro del gruppo, ispirandosi ad
una delle emozioni con cui abbiamo giocato finora, lasci emergere
spontaneamente un ricordo, un’immagine o un sogno da rappresentare nella sand-box.


                 
Figura 5. La sand-box e la
rappresentazioni iconiche


Ne risulta una sabbiera nel suo complesso abbastanza spoglia, che
trasmette un senso di vaga inibizione (figura 5). La sabbia non viene
manipolata da nessuno e le singole rappresentazioni iconiche sono semplicemente
composte nella sabbiera, molto distanti l’una dall’altra e con una disposizione
che pare poco spontanea.

A questo punto, come di consueto, il conduttore invita i partecipanti ad
esporre a turno la propria composizione, mentre la recorder osserva attentamente e prende appunti.

Avendo il presente elaborato esclusivamente finalità descrittive, risulterebbe
fuori luogo ed inutilmente prolisso, trascrivere integralmente lo sviluppo
della seduta; cercherò dunque di rendere l’idea dello svolgersi della dinamica
e della tecnica, riportando soltanto alcuni stralci emblematici.

Tre rappresentazioni – quelle di Camilla (in alto a sinistra), di
Anselmo (in basso a destra) e dell’io-ausiliare (in basso a sinistra) –
descrivono ricordi in cui l’emozione dello stupore si trasforma, per diverse
ragioni, in rabbia o disagio. Al centro della sand-box, Luna pone un’immagine di se stessa, triste ma riflessiva.
L’ultima a parlare è Paola (in alto a
destra nella sand-box
).


Paola: “Io ho messo questa
bambolina bionda accovacciata, che si tappa le orecchie con le mani, e un orco
che le grida addosso.”

Conduttore: “Quali emozioni hai
voluto rappresentare così?”

Paola, esitante: “La paura. E’
quando Giovanni (coordinatore dell’Unità per Dist. Di Personalità) mi ha
comunicato la punizione per aver fatto… una trasgressione. Io sono la bambolina
e Giovanni… l’orco.”
(Paola abbozza un sorriso imbarazzato)

Conduttore: “Accipicchia, sembra
che sia stata una comunicazione ‘mostruosa’!”
  Paola: “Sì, mi hanno dato una sospensione.”
 Conduttore: ”Ora, come sempre, hai la possibilità di
dar voce ad uno degli elementi della tua scena: quale scegli?”
  Paola
indica il bastone impugnato dall’orco:
“Io sono il bastone e ti picchierò tutte le volte che mi andrà. Perché posso
farlo!”.
  Conduttore
doppia Paola: “Sono un bastone proprio
pre-potente… Perché faccio così?”
  Paola: “ Perché… perché lei è una bambolina
bionda… e io sono arrabbiata!

Conduttore quasi sotto voce: “Io
farò male, perché sono arrabbiata e lei è una bambolina bionda…”

Paola tace, guarda fissa la sua scena.


Il conduttore commenta dapprima in generale come, in molte situazioni ad
alto contenuto emotivo, possa spesso capitare che un’emozione rimandi ad altre,
forse più profonde o semplicemente scomode, non sempre agevoli da contattare.

  Il
gruppo passa quindi alla fase della condivisione
attiva
, in cui ogni partecipante, se lo ritiene, può interagire
dinamicamente con le rappresentazioni degli altri. Silenziosamente, c’è chi
sposta un pezzo, chi aggiunge un personaggio, tutti tracciano linee sulla
sabbia con le dita (figura 6).




                        
Figura 6. La sand-box dopo la
condivisione attiva.


E’ sempre con un certo pudore che un paziente decide di dialogare con la
staticità iconica di una scena che non è la sua, e talvolta ci impiega
settimane, dal suo ingresso nel gruppo, per autorizzarsi a farlo. Allo stesso
tempo non è per nulla scontata la capacità, da parte di chi si vede manipolare
la propria rappresentazione, in maniera spesso imprevedibile, tollerare la
frustrazione che ne deriva.    Eppure il
gruppo trova sempre il coraggio di modificare almeno un po’ lo scenario, di
interrogarsi e comunicare, di esporsi al desiderio di trasformazione.


Camilla: “Io ho alzato in piedi la
bambolina di Paola, e le ho tolto le mani dalle orecchie… Così com’era, mi dava
fastidio. Non è più una bambina... Poi ho tracciato una strada tra la mia scena
e quella di Anselmo, perché anche a me è capitato di sentirmi bloccata da una
sorpresa che, in realtà, mi soffocava…”
   Anselmo:
Io ho allontanato l’orco, mi metteva ansia, lì. Al suo posto ho messo un uomo
disarmato… Ho anche fatto dei sentieri tra la mia scena e quelle di Camilla e
Paola… Così, mi è venuto di farlo.”
  Paola,
sorridendo, rivolta ad Anselmo: “Ma non
l’hai proprio tolto, è sempre là in agguato (indica l’orco, in alto al centro
della sabbiera).”

Conduttore: “Conosci le regole,
Paola. Non avrebbe potuto, neanche volendo: nessun partecipante al gruppo può
togliere dalla sabbiera ciò che è stato messo da un altro partecipante.”
  Anselmo,
sardonico: “Non so, forse avrei dovuto
seppellirlo?”
 (…)

Luna: “Chi ha tirato su il
cappuccio al mio omino pensieroso?”

Io-ausiliare: “Io. Così può vedere
che adesso c’è una stradina che porta fino alla mia rappresentazione.”
  Paola: “Io ho tolto il topolino di Anselmo dalla
stretta della vipera e l’ho messo in maniera che invece la cavalchi. Ho
tracciato un sentiero da lì alla bambolina perché anche a me piacerebbe essere
capace di cavalcare la vipera, invece di farmi mordere…”


Lo scambio continua ancora per qualche minuto, poi il conduttore chiede
come sempre ai partecipanti di pensare ad un “titolo” da dare alla storia che
anche oggi il gruppo ha raccontato attraverso la sabbiera:

Luna: “Consapevolezze
Costruttive”.

Camilla: “Sentire o non Sentire?”.

Io-ausiliare: “Emozioni
Ambivalenti”.

Anselmo: “Cavalcare la Rabbia”.

Paola: “L’Orco sullo Sfondo”.
Ogni titolo viene trascritto
dalla recorder e, su richiesta del gruppo, eventualmente commentato o chiarito.
Infine, il conduttore prova a dare un rimando conclusivo, sulla base del
materiale raccolto. L’intento non è tanto quello di dare un’interpretazione,
quanto piuttosto fornire una sorta di contenitore accessorio da usare,
all’occorrenza, per ritrovarvi tracce del percorso fatto durante la seduta.

Conduttore: “Oggi abbiamo iniziato
giocando a riconoscere, per così dire, il volto delle emozioni. E abbiamo visto
che non è poi così scontato riuscirci (…) Ma cosa succede quando cerchiamo di
riconoscerle in noi, le emozioni? (…) Allora, per esempio, può capitare di
sentirci stupiti perché qualcuno, che era sparito da tanto tempo, ci fa una
improvvisa telefonata – come nella rappresentazione di Camilla – ma in fondo in
fondo, avvertiamo anche la rabbia e la tristezza per il precedente abbandono.
Oppure ci si sente spaventati - ma anche arrabbiati come un orco - quando
qualcuno è nella posizione di farci ponderare le conseguenze delle nostre
fragilità. Certo è difficile, confusivo, e verrebbe quasi voglia di fare come
le tre scimmiette! O magari caricare un pochino delle nostre emozioni sugli altri
e fare come se fossero loro, anziché nostre.
Ma mi è sembrato che il gruppo abbia spontaneamente proposto
un’alternativa, e cioè costruire sentieri, per poter raggiungere ed essere
raggiunti, riconoscersi o differenziarsi, e infine, forse, capire un po’ meglio
cosa ci succede. (…) ”

  Dopo
aver congedato i pazienti fino alla settimana successiva, ha luogo il post-gruppo, durante il quale
conduttori ed Io-ausiliare visionano le “foto di scena” e condividono pareri
sui percorsi dei singoli nel gruppo nonché del gruppo nel suo insieme. In
questo caso, fra le altre cose, emerge una possibile lettura della dinamica del
gruppo, per la quale il gruppo stesso ha tentato di esprimere i propri vissuti
a fronte di un recente agito trasgressivo da parte di Paola, mentre
quest’ultima fatica un po’ ad assumere in merito un ruolo responsabile. Ci si
ripromette quindi di osservare l’evoluzione di queste dinamiche nelle sessioni
a venire.


3.
Prospettiva teorica e  modello di
riferimento


 La mente umana secondo gli psicodrammatisti
Inglesi
Holmes P. e Karp M. (1991),

3.1 Cenni su una prospettiva fenomenologica e
junghiana
                                                                                                                                      

Non posso affermare, in tutta onestà, di essere più che un modesto ma
appassionato spettatore dei percorsi del pensiero junghiano e fenomenologico
relativi alla psicopatologia, nel loro difficile quanto suggestivo intreccio
fra riflessione filosofica e prassi clinica.
Parimenti non posso negare che tali prospettive, magari nei loro
rudimenti, molto spesso permeino, in maniera talvolta nemmeno tanto
consapevole, la mia pratica professionale, soprattutto per gli aspetti inerenti
all’incontro con il paziente e alla dimensione diagnostica e/o prognostica.


Fin dalla sua fondazione jaspersiana la psicopatologia fenomenologica ha
rappresentato una disciplina “vocata ad interrogarsi sulla varietà, il senso e
la progettualità di mondi antropologici possibili, col compito di ricomporli
per poterli in qualche modo riabitare” (Muscatello, Scudellari 1998).

Già nel 1913 Jaspers scriveva: “Un nuovo orizzonte e una nuova ricchezza
sono sempre lì, pronti per essere acquisiti, ogni volta che, superando i
pregiudizi, si adotta l’atteggiamento fenomenologico. [...] Non ci
accontenteremo più, adesso, di povere categorie ma ci porteremo senza
pregiudizi verso i fenomeni, e là dove ne vedremo uno cercheremo di
rappresentarlo nella sua totalità” (Jaspers, 1913).
Una descrizione fenomenologica
senza pregiudizi presuppone quindi, per Jaspers, una capacità di apertura
elementare all’essenza incontrata, nel rifiuto di ogni spiegazione
aprioristica.

La fenomenologia si pone, da questo vertice osservativo, come un
percorso empirico e descrittivo che respinge la tensione verso la ricerca di
una realtà eidetica e trascendentale, tensione, questa, concepita invece in
qualche modo da Husserl fin dall’inizio.

Infatti, in maniera apparentemente antitetica, la fenomenologia nella
visione husserliana non si esaurisce mai in una semplice riproduzione
dell’esperienza o del vissuto, ma si sviluppa sempre al tempo stesso,  consapevolmente e metodicamente, verso
l’individuazione di una invariante eidetica e di una struttura trascendentale;
queste ultime intese come possibilità di risalire a strutture invarianti del
mondo psicopatologico. Ma la questione focale, come sottolinea Blankenburg
riferendosi a tale approccio, “consiste nel tentativo di accogliere
l’esperienza di un paziente in modo diretto, nel suo manifestarsi, e di
liberarla nella sua struttura
trascendentale (…) Con il concetto di organizzazione
trascendentale
non si vuole intendere alcun costrutto metafisico, bensì
l’insieme delle condizioni di possibilità di una vita in un determinato momento”
(Blankenburg 1971). Secondo questa prospettiva, quindi, la prassi clinica non
ci conduce tanto all’incontro con patologie viventi, quanto con esistenze,
collocate nello spazio e nel tempo, spesso irrigidite attorno ad un ventaglio
ristretto di possibilità di vita.

La psicopatologia fenomenologica, pur tenendo presenti le dicotomie,
soprattutto nel campo delle psicosi (derivabile/inderivabile, delirio/deliroide
ed altre ben note), se ne serve soltanto come di boe galleggianti che fungono
da riferimento alla navigazione clinica (cfr. Muscatello, Scudellar 1998i).
Essa è soprattutto sensibile alle sollecitazioni dei diversi percorsi
esistenziali, declinandosi, come abbiamo visto, come una fenomenologia genetica: “una fenomenologia diacronica che ricostituisca
la storia della vita, e non solo la storia clinica [...] al fine di cogliere
gli snodi strutturali di ciascuna esistenza” (Borgna, 1996).

In questa ottica i concetti (soprattutto quelli psicopatologici) non si
configurano più come rasoi infallibili e risolutivi che tagliano la realtà
clinica nei suoi punti di articolazione, ma piuttosto punto di partenza di
percorsi conoscitivi storicizzati, forse più complessi e faticosi.

Ma complessa e faticosa è l’epoca in cui viviamo, dove l’attribuzione di
senso, che orienta le esperienze individuali e l’incontro con l’altro, appare
essere il problema principale; la scarsa tenuta della concezione di ordine e
disordine come poli conflittuali apre alla considerazione del valore essenziale
della loro dialettica alla vita sociale ed individuale.
    L’approccio “debole” nei confronti degli
assunti nomotetici della psicopatologia (come di altri campi dello scibile) e
soprattutto l’incontro con l’altro da sé quale evento ermeneutico collocato
nello spazio e nel tempo intese come dimensioni empiriche ed esistenziali,
costituiscono un fecondo trait d’union
con un assetto di pensiero analitico.   

Mario Trevi (Trevi, 2000), individua nell’approccio ermeneutico uno
specifico della psicologia analitica junghiana, un elemento che la differenzia
dalle altre "psicologie". In Jung, infatti, è vivo il problema della
presenza ineludibile del soggetto ricercante nell’oggetto della ricerca
psicologica, "dell’interprete nei confronti del testo da interpretare,
riconoscendo che non c’è testo oggettivo, staccato e indifferente
all’interprete, ma che testo diviene qualsiasi testimonianza del mondo della
vita nel momento in cui un interprete l’assume nel suo orizzonte di
senso"(Ibid.).

Il messaggio della psicologia junghiana non è una dottrina, ma
un’apertura, e tale apertura si ripercuote sulla nozione junghiana di simbolo.
Scrive ancora Trevi : " Per Jung la psicologia è un atto di
interpretazione che, restando nell’ambito della storia e della finitudine, fa
arretrare, con altri simboli, i significati dei simboli che altri uomini hanno
costruito nel tentativo di comprendere quell’enigma che è l’uomo stesso. La
psicologia è dunque la continua costruzione di un universo di linguaggio
simbolico, o, per meglio dire, metaforico (il pensiero ricorre subito a
Binswanger 1991 e a Barison 1984, nda) che, mentre non pretende affatto di
esaurire l’enigma attorno a cui si travaglia, lo interpreta via via aderendo ai
limiti e all’intenzione dell’interprete, rispettando la storicità e la concreta
esistenzialità di quest’ultimo. La psicologia è linguaggio metaforico che
schiude di volta in volta un nuovo orizzonte di comprensione e immediatamente
ne riconosce i limiti, permettendo e al contempo appellandosi ad altri
possibili orizzonti di comprensione"(ibid.). Questo sembra tendere al
mutamento radicale del concetto medico di psicoterapia; essendo chiamati,
medico e paziente, ad interrogarsi reciprocamente, a farsi ognuno interprete
dell’altro. Ancora Trevi : "l’uomo è il testo che interpreta il suo
interprete; l’analizzando è il testo che occorre liberare, nell’atto
interpretativo, perché possa, interpretando l’analista, riacquistare ogni sua
originaria libertà interpretativa, che è la stessa possibilità che lo fonda
categorialmente come uomo integro e libero"(ibid.). Mi sembra di poter
ritrovare, in queste parole e in tutta la loro pregnanza di significato, i
concetti di dialogo ermeneutico e di verità ermeneutica, fondativi della
prospettiva teorica e della prassi clinica cui il presente elaborato si
riferisce.

3.2 Modello di riferimento: Psicodramma Analitico
Individuativo


Il termine psicodramma, dal greco psyche e drama (drao: opero, agisco)
nasce negli anni Venti dal pensiero e dall’opera di J.L. Moreno (1889-1974),
psichiatra e sociologo rumeno appassionato di teatro.

Moreno approfondisce percorsi di ricerca e di lavoro teatrale dapprima
in contesti socialmente disagiati e, nel 1921, fonda lo Stegreiftheater, il teatro
della spontaneità
, in cui attori improvvisati recitano episodi della vita
quotidiana. Fu grazie a questa esperienza e, in particolare, attraverso quello
che oggi è conosciuto come “il caso di Barbara” che egli matura le sue
riflessioni circa l’effetto catartico e terapeutico della rappresentazione
psicodrammatica. La scoperta dell’azione catartica, considerata dall’autore di
per sé terapeutica, apre a pieno titolo la strada allo psicodramma propriamente
detto. La catarsi diviene centrale nell’impianto concettuale di  Moreno, intesa (in riferimento alla visione
aristotelica enunciata nella Poetica)
come la possibilità di “liberare l’animo da siffatte passioni”. Ancelin
Schutzemberger osserva il processo catartico che avviene nello psicodramma come
una “libertà di espressione che permette di rivelare tendenze ignorate, mobilitare
ciò che era statico prendendone perciò coscienza, divenendo più accessibili al
cambiamento ed a nuovi ruoli”. Ciò, per l’Autrice alsaziana, è strettamente
collegato al poter comunicare le emozioni anche negative al gruppo, “sì da emettere in consonanza il proprio
essere in sé, essere per sé ed essere per gli altri
” (Schutzemberger,
1972).
Moreno usa la catarsi in senso
assoluto senza considerare il problema delle difese e delle resistenze;
l’accento è sull’attore, sull’esternazione dei suoi fantasmi interiori. Lo
scopo dello psicodramma moreniano non è quindi l’analisi dei conflitti, ma la
trasformazione degli stessi, che porta alla scoperta di nuovi significati
attraverso l’esperienza agita. Egli tentò di sistematizzare una teoria e definì
lo psicodramma come “la scienza che esplora la verità con metodi drammatici”
attraverso la “spontaneità e la creatività”.(Moreno, 1946-53)

Centrale diviene il concetto di ruolo, legato alla possibilità e alla
varietà di “parti e relativi copioni” che la persona acquisisce e interpreta
nel corso della propria esistenza. La personalità viene dunque teorizzata come
costituita da un insieme di ruoli, e la patologia può nascere nel momento in
cui tali ruoli diventano rigidi e incapaci di rispondere spontaneamente alle istanze
interne ed esterne.

Lo psicodramma classico ha fornito spunti teorici ricchi e stimolanti
che con il passare del tempo sono stati sistematizzati dalle differenti scuole
di formazione. Allo stato attuale esistono vari approcci allo Psicodramma, con
differenti regole e modalità esecutive-interpretative; tra di essi, lo Psicodramma Analitico Individuativo
(PAI) è quello sul quale mi sono maggiormente formato e sperimentato negli
ultimi anni.

Questo particolare modello di psicodramma, in quanto analitico, si pone l’obiettivo di elevare chi lo pratica ad una migliore
comprensione del suo essere attuale attraverso la consapevolizzazione delle
radici storiche, personali e transpersonali, che ne sono alla base. Si propone
altresì di far emergere le parti non integrate nel complesso dell’Io (ruoli
interni o complessi autonomi) e portarle a dialogare con la coscienza. In
quanto individuativo, ha la finalità
di sviluppare le possibilità di vita (vedi
supra), integrare le funzioni parziali e gli aspetti della psiche verso la
prospettiva di una sintesi futura nel senso dell’attualizzazione del Selbst junghiano (cfr. Gasca 2003),
realizzando il significato unico ed irripetibile della propria esistenza: in
termini moreniani, divenire autore e regista del dramma della propria vita.

Uno dei tratti specifici che caratterizzano lo psicodramma analitico
rispetto ad altri modelli è lo svilupparsi del discorso del gruppo attraverso
la costante dialettica tra due piani: quello dell’espressione verbale e quello
della presentificazione drammatica. La narrazione verbale di un membro del
gruppo o del gruppo nel suo insieme attorno ad un evento, questione, conflitto
o sintomo viene costantemente riportata alla rappresentazione, col metodo
drammatico, di una scena concreta, riferibile ad un tempo e ad uno spazio
determinati della storia di uno dei presenti. Tutti questi aspetti evocano a
loro volta sentimenti, ricordi, considerazioni, associazioni negli altri
presenti, da cui scaturiranno le scene successive. Ciascuna scena drammatizzata
costituisce, per così dire, un punto focale per mezzo del quale vengono
evidenziati sempre nuovi aspetti della rete di significati, rapporti,
possibilità che continuamente si intesse tra i partecipanti, dentro di essi ed
attraverso di essi. Il gioco drammatico “attivando sia il registro delle
percezioni dei sensi che quello del corpo, sviluppa l’incisività delle
intuizioni conoscitive. Esse successivamente al loro accesso alla coscienza,
possono diventare strumenti di conoscenza della realtà interna ed esterna  e tradursi in progetti trasformativi
sperimentabili in altri contesti di vita. Solo sostenendo un dialogo continuo e
fluido con l’inconscio e la dimensione immaginale dei ruoli che esso ci
propone, possiamo acquisire la capacità e la libertà di sviluppare le funzioni
rimaste in arretrato e integrare le istanze personali differenti in
configurazioni originali, muovendoci in uno spazio ambiguo e equivoco, il mondo
dei simboli, al di là dell’asservimento a insegnamenti certi e/o modelli forti”
(Druetta, 1995).

In una seduta di psicodramma analitico individuativo, la
rappresentazione drammatica apre alla possibilità, per il protagonista del
gioco e per il gruppo stesso, di rapportarsi a momenti della propria
esperienza, in modo critico ed esplorativo, riattivando la tendenza a
sviluppare quelle parti di sé rimaste cristallizzate e opache. Non
rappresentandosi più se stesso e le relazioni con gli altri determinate da
schemi rigidi, ma dotati di possibilità di creare significato e direzione al
proprio agire, si attiva dunque un processo di differenziazione e di sintesi in
cui le diverse istanze personali acquistano una vita autonoma, “diventa così
possibile identificarsi con gli altri mantenendo il senso della propria
identità”. (Gasca,1992).

Questo è reso possibile attraverso la ricostruzione storica di come i
ruoli, con relative implicazioni dinamiche, si sono costituiti. Essi in genere
appaiono identici o complementari ai ruoli di persone significative nella
storia passata. Risultano essersi strutturati non attraverso un meccanismo di
introiezione, ma grazie all’interazione con tali persone nel mondo reale, con
le loro rappresentazioni del mondo fantastico, con il prodursi di una  risposta nuova e creativa a situazioni
implicanti conflitti, tensioni e staticità.

Inoltre, il lavoro di rendere esplicito il proprio agire avviene dando
voce a parti di sé non riconosciute perché non coerenti e non integrabili al
proprio modello cosciente, o ancora perché non sufficientemente differenziate e
sperimentate. Rendendo esplicito e visibile, attraverso le tecniche
psicodrammatiche, il modo in cui le situazioni si sono sclerotizzate, si può
rendere reversibile l’assimilazione di partenza, creando così le condizioni per
il cambiamento.

L’idea è  che la struttura
dinamica della personalità possa venir modificata dal rapportarsi a parti di sé
non riconosciute e non integrate. Tali parti, mediante la personificazione nel
gioco psicodrammatico, instaurano un rapporto dialettico tra loro e con il
complesso dell’Io, attraverso le scene. Esse, pur essendo solo rappresentazioni
rispetto alla  realtà obiettiva, sono
però reali esperienze nell’ambito delle dinamiche interiori e possono proprio
per questo apportare reali modificazioni negli equilibri tra le parti interne.

Lo psicodramma analitico individuativo, dunque, attiva quella che Jung
definisce funzione trascendente: ”quella funzione complessa che, composta di
altre funzioni della psiche, non si identifica con alcune di esse, né con la
loro somma, ma promuove il passaggio da un atteggiamento ad un altro, superando
fratture, scissioni e antitesi tra inconscio e coscienza, creando un contenuto
nuovo capace di incanalare le tendenze in contrasto in un alveo comune.”
(Gasca, 1995).


Un altro concetto fondamentale, fino a qui soltanto accennato, per la
comprensione del modello psicodrammatico analitico è quello di ruolo. L’unità strutturale e dinamica
evidenziata dal gioco drammatico, in cui confluiscono, come tanti elementi
parziali, codici verbali, concettuali e codici espressi da sequenze di immagini
o di azioni, è chiamata in gergo psicodrammatico il ruolo: “funzione che integra, coordina ed articola
l’insieme di modalità attraverso cui un individuo si rapporta ad una data
classe di situazioni e di contesti”
(Gasca, Gassau 1992).

Rispetto al mondo esterno i ruoli strutturano il modo in cui ciascuno
interpreta quello che percepisce e come interagisce con esso. Rispetto al mondo
interno i ruoli sviluppati da ciascuno nel corso di precedenti relazioni con
altre persone, nonché in egli stesso presenti come modelli comprensibili
dell’agire proprio e altrui organizzato, possono interagire tra loro e
presentarsi alla coscienza; questo ad esempio avviene nei sogni, attraverso un
vero e proprio teatro interiore. Il sogno, nell’ottica junghiana, viene infatti
considerato come un “teatro in cui chi
sogna è scena, attore, suggeritore, regista, autore, pubblico e critico insieme

nel quale le “figure del sogno sono
tratti personificati della personalità di chi sogna
” (Jung 1916-1948).

Secondo tale vertice osservativo, ripreso e sviluppato poi da Hillman
(1985), non solo il sogno, ma anche le rappresentazioni interiori di tutto
quello che si muove nell’inconscio possono essere compresi, per così dire, dal
di dentro, attraverso una logica teatrale.

Così anche le dinamiche latenti del gruppo possono concretizzarsi in una
scena, che essendo assimilabile ad una scena teatrale, viene recitata
assegnando le parti ai diversi membri del gruppo stesso, facendo rivivere ad
ognuno emozioni e sensazioni fisiche. Inoltre, l’assegnazione dei ruoli disvela
la rete di proiezioni ed intuizioni dei protagonisti. Vedersi attribuiti dalle
dinamiche del gruppo certi ruoli prevalenti spesso aiuta ciascuno a comprendere
meglio i ruoli che assume o si fa attribuire nella vita. Si può prendere
coscienza di portare con sé un determinato ruolo senza rendersene conto e
questa comprensione può aiutare l’individuo a sperimentare la possibilità di
assumere altri ruoli. I ruoli costituiscono cioè dei veri e propri mediatori
sia tra il mondo interiore e quello esterno, sia tra i molteplici aspetti e
livelli di struttura ed integrazione presenti in ciascuno dei due mondi.

Il livello più superficiale di analisi di ogni drammatizzazione ha
origine dal confronto diretto attraverso la molteplicità di codici attivati da
ciascuno dei membri del gruppo. Le modalità attraverso le quali protagonista,
Io-ausiliari e spettatori agiscono e percepiscono la situazione, nelle diverse
versioni della stessa scena dovute al cambio dei ruoli degli attori,
introducono una pluralità di punti di vista alternativi. Questi permettono di
esaminare l’evento in relazione ai suoi differenti significati possibili e agli
affetti da esso evocati.

Ma la dinamica che si attiva durante una sessione psicodrammatica si può
leggere ad un livello più complesso e profondo, noto come teoria dei ruoli: un esame accurato di quanto emerge in ciascun
gruppo per un certo tratto di tempo evidenzia infatti una triplice
corrispondenza. Da un lato, nel gruppo ciascuno dei presenti assume e/o
attribuisce agli altri dei ruoli attuali
o somatici
, sia nel modo di porsi ed interagire, sia attraverso le immagini
che, col raccontare o drammatizzare certe parti di sé, induce nel gruppo.

Contemporaneamente, la rete di ruoli attuali rispecchia e viene
rispecchiata dalla rete di consapevoli
ruoli del passato o sociali
, propri e altrui, che ha costituito le
relazioni della storia personale di ciascuno.

La prima e la seconda rete di ruoli interpersonali, inoltre, si riflettono
e corrispondono alla rete di ruoli
interni o immaginali
di ciascun partecipante. Questi possono essere intesi
sia come parti di sé, non assunte nel rapportarsi al mondo esterno, e talora
attribuite ad altri, ma non riconosciute come proprie, o ancora come complessi
autonomi o come funzioni o istanze strutturanti la psiche, quali sono
nell’ottica junghiana l’ombra e l’animus.

La scena giocata costituisce per così dire tutto quello che mette a
fuoco le relazioni tra tali tre polarità: il qui ed ora dello strutturarsi del
gruppo, emerso attraverso le scelte effettuate da ciascuno. Il formarsi degli
attuali modi di essere (interpersonali o intrapersonali) può, attraverso il
succedersi dei giochi evocati, venire ricostruito storicamente dal precipitare,
combinarsi e cristallizzarsi di ruoli propri o altrui presentatisi nel corso
dell’esistenza passata e, al tempo stesso, tale storia passata, ricollocata dal
gioco nell’orizzonte del presente, viene per così dire illuminata da una nuova
luce. I ruoli interni o intrapersonali poi si evidenziano attraverso le scene
proposte, principalmente quelle riguardanti i sogni, ma anche scene della
realtà diurna in quanto i ruoli intrapersonali determinano il modo in cui
ognuno vede, capisce, interpreta le altre persone per lui significative.
I ruoli intrapersonali sono così
attribuiti ad altri fuori di sé: personaggi della storia passata evocati e
membri del gruppo chiamati a rappresentarli. Nella serie di giochi
psicodrammatici il protagonista se ne riappropria, riconoscendoli come parti
proprie, attraverso il cambio dei ruoli o immedesimandosi nelle parti che, a
loro volta, altri membri del gruppo gli attribuiscono.


                                     
Figura 7. Modello del Triandolo
PAI (Giulio Gasca, 1992)


Quanto detto fin qui, riguardo il modello interpretativo della scena
nello Psicodramma Analitico Individuativo, si può ben rappresentare attraverso
lo schema triangolare qui sopra (fig.7).

Il vertice superiore indica le dinamiche di gruppo che possono anche
venir viste come i ruoli che ciascun membro assume in relazione a quelli che
attribuisce agli altri. Tali ruoli si esplicitano sia nell'interazione diretta,
sia mediante la narrazione e la drammatizzazione di specifici episodi della
vita di ognuno, sia ancora con lo stile con cui i membri del gruppo impersonano
i ruoli che vengono chiamati a rappresentare nelle scene portate da altri
partecipanti.

Il vertice inferiore destro rappresenta i vari ruoli che ciascuno ha
avuto nella sua storia passata o che hanno avuto persone per lui significative.
Le frecce che uniscono i due vertici rappresentano rispettivamente lo
strutturarsi dei ruoli assunti qui ed ora in gruppo col sommarsi, fondersi e
modularsi, per essere adeguate alle nuove situazioni, delle esperienze passate,
e il riemergere di ricordi attivati dalle particolari dinamiche del gruppo
terapeutico.

Il vertice inferiore sinistro si riferisce ai ruoli intrapsichici
(funzioni, modelli interiori, complessi autonomi) spesso rappresentati dai
personaggi dei sogni, delle fantasie e dei deliri. “Tali nostri ruoli interni
strutturano il mondo interiore, dando un senso al caotico fluire di
rappresentazioni, immagini e impulsi, allo stesso modo in cui i ruoli esterni
strutturano i percetti del mondo circostante in una realtà, dotata di
significato e costituita da relazioni interpersonali (Gasca, ….).

Le frecce a doppio senso del lato inferiore stanno ad indicare che tali
parti interiori si costituiscono prendendo a modello particolari aspetti di
persone incontrate nel mondo esterno e, a loro volta, attraverso un processo di
proiezioni e assimilazione, influenzano il modo in cui vediamo tali persone. La
stessa relazione biunivoca intercorre, come indicato dallo schema, tra ruoli
interni attivati dalla dinamica del gruppo in ciascun membro e ruoli
assunti/attribuiti di volta in volta nel gruppo stesso.










4.
Sintesi di tecnica psicodrammatica, sociodramma e metodica sandplay





4.1
Tecniche psicodrammatiche


Lo sviluppo del modello sopra esposto ha dato vita a tecniche di
conduzione della sessione e della rappresentazione scenica (vero fondamento
tecnico dello psicodramma) troppo varie e complesse per essere esposte
esaurientemente in questa sede. Tenterò comunque di sintetizzare alcuni aspetti
basilari delle tecniche più diffuse:
1)  
Il doppiaggio,
ad opera del conduttore, serve per rinforzare la struttura del ruolo di cui si
sta occupando, per introdurre aspetti esclusi (funzione inferiore), sostenere un’apertura evolutiva, avviare una
possibile integrazione della funzione soggettiva.
2)  
Il cambio
di ruolo
, finalizzato ad esplicitare la relazione (tipologia e qualità) tra
le parti interne del protagonista.
3)  
La sequenza
di scene dello stesso protagonista
, mediante cui si dà voce ai contenuti
inconsci, amplificando intuitivamente il tema profondo che cattura il
protagonista stesso.
4)  
L’articolazione
di scene di più protagonisti
, finalizzata allo sviluppo ed
all’attualizzazione delle dinamiche proiettive del gruppo, nonché alla
costruzione della costellazione delle funzioni interne, attive nel gruppo in un
dato momento, e loro elaborazione attraverso le immagini drammatizzate.
5)  
Le scene
virtuali
e transgenerazionali,
che offrono aperture verso contenuti interni resi quasi inaccessibili da
sedimentazioni inconsce che spesso continuano ad agire e direzionare scelte
affettive e orientamenti culturali.
6)  
Il doppio
è un ruolo di solito assolto dal conduttore o da un altro membro del gruppo che
sperimenta un forte senso di identificazione con il protagonista, e consiste
nell´affiancarsi a lui movendosi e comportandosi in modo molto simile. È una
tecnica che risponde a bisogni simili a quelli cui assolve il ruolo materno nei
primi mesi di vita: amplificare e dare risonanza a emozioni e bisogni ancora
troppo poco differenziati per potersi esprimere da soli. Il doppio dunque serve
ad intensificare e migliorare l´azione del protagonista e, spesso, aggiunge ad
essa nuove dimensioni, dando voce a tutto quello che il soggetto non riesce ad
esprimere.
7)  
Il soliloquio
è una tecnica che permette al protagonista di esprimere liberamente i suoi
pensieri, le sue emozioni e le sue impressioni, così come gli vengono in mente
e senza essere interrotto. Può essere utilizzata per fare
un´autopresentazione, la presentazione di un´altra persona, la descrizione di
una situazione, di un sogno o di un’immagine. Più spesso, però, il soliloquio
serve a rendere manifeste al protagonista e al gruppo emozioni che l´azione
psicodrammatica cela, agevolando la focalizzazione e l’assunzione di ruolo.
8)  
Lo specchio
è una tecnica che consiste nel realizzare una specie di controfigura del
soggetto e nel farla recitare al suo posto. In questo modo il protagonista può
rendersi conto dell´immagine che da di sé al gruppo, e quindi al mondo esterno.
Anche qui sono fondamentali le reazioni del soggetto al conduttore o all´io
ausiliario che funge da specchio.

4.2
Il sociodramma


Strumento specifico messo a punto da Moreno, il sociodramma si
caratterizza per avere come oggetto precipuo di attenzione il gruppo, considerato “nelle sue
dimensioni culturali, simboliche e di relazione tra i diversi ruoli presenti
nel gruppo stesso” (Dotti 2002). Pur mantenendo saldi i principi e le tecniche
proprie della metodologia psicodrammatica, l'intervento si orienta a dar spazio
ai ruoli collettivi e quindi
appartenenti al mondo sociale dell’individuo.

“La prospettiva sociodrammatica - dice P.Kellermann – è basata sulla
funzione generalizzatrice delle persone, descritta dettagliatamente dalla
psicologia della Gestalt. Vede il cervello come un’entità olistica,
auto-organizzante e formativa che rende le persone capaci di riconoscere figure
e forme intere piuttosto che come un insieme di linee e curve (…). Similmente
la narrativa sociodrammatica è sviluppata gradualmente in modo che riusciamo a
riconoscere alcune fra le tante relazioni tra i singoli eventi e a collegarle
in una unità coerente.” (Kellermann, 2007).

Si possono distinguere due livelli operativi di sociodramma: il
sociodramma come intervento sui ruoli collettivi, e il sociodramma come
intervento sul conflitto nodale del gruppo.

Il sociodramma come intervento sui
ruoli collettivi
è il classico sociodramma, così come è stato formulato da
Moreno (Moreno 1964). È un tipo di intervento che non si rivolge
necessariamente a gruppi precostituiti ma che si rivela efficace anche con
gruppi molto ampi. La condizione basilare di tale intervento è che il gruppo
sia accomunato da un interesse, da un obiettivo, o da una particolare
condizione sociale. Oggetto di lavoro ed indagine sono, infatti, gli aspetti
collettivi e culturalizzati dei ruoli, le ideologie e gli stereotipi sociali, e
le dinamiche relazionali del gruppo cui si rivolge. I vissuti personali entrano
nel sociodramma solo come variazione individuale, e quindi arricchimento, del
ruolo collettivo e cristallizzato.

Il lavoro si apre con una fase iniziale di riscaldamento finalizzata
all´emergere dei ruoli collettivi critici e dei temi di maggior interesse per
il gruppo in questione. A questa fase segue la rappresentazione, che sarà svolta
da una equipe di Io-ausiliari e dai partecipanti volontari; l´elaborazione
della scena segue le modalità psicodrammatiche (inversione di ruolo, doppio,
specchio, eccetera), favorendo la condivisione e la trasformazione del
materiale da parte del gruppo, e così il cambiamento.

Il sociodramma, così formulato, si è dimostrato un utile strumento anche
di formazione per grandi gruppi istituzionali. Tale metodica agevola nella
riflessione e nel confronto su tematiche importanti, nella maggior comprensione
delle dinamiche interne al gruppo stesso o tra gruppi diversi, e, infine, nella
sperimentazione e nell´apprendimento di modalità relazionali più adeguate, ai
fini di una convivenza pacifica e produttiva. Moreno lo riteneva
particolarmente utile per trattare i conflitti interculturali e come strumento
di ricerca antropologica. Oggi viene applicato in quasi tutti i campi, sia con
finalità diagnostiche che formative, ma anche come strumento di
sensibilizzazione sociale.

Il sociodramma come intervento sul
conflitto nodale del gruppo
, invece, deriva principalmente dalle
formulazioni e dalle esperienze degli psicodrammatisti della scuola argentina
(Pichon-Rivière,1985). In questo caso l´intervento è centrato sui vincoli
esistenti nei gruppi naturali (coppie, famiglie, comunità) e nei gruppi
strumentali (gruppi di lavoro, di apprendimento, etc.). Oggetto del sociodramma
sono i ruoli sociali sottostanti allo sviluppo e alle attività del gruppo, e
l´obiettivo è quello di rendere manifesti le dinamiche interne e gli eventuali
conflitti.

4.3 La sandplay therapy

  La
terapia con il gioco della sabbia è
frutto della ricerca clinica e dell’intuizione della psicologa svizzera Dora
Kalff (1904-1989), allieva di Carl Gustav Jung, e può inserirsi a pieno titolo
nel solco della Psicologia Analitica. La sandplay therapy è una metodica di
psicoterapia analitica che utilizza le risorse creative dell’individuo,
integrando il lavoro verbale con la produzione di immagini nei quadri di sabbia
che permettono di contattare ed elaborare tematiche conflittuali arcaiche.

Tale metodica utilizza come materiale una cassetta, contenente della
sabbia e numerosi oggetti. Nello spazio della sabbiera (sand-box) il paziente
ha la possibilità di rappresentare non solo contenuti inconsci della sua vita
personale, ma anche immagini riconducibili alle predisposizioni archetipiche
primordiali teorizzate da Jung. Il vassoio di sabbia si pone come spazio libero
e protetto all’interno del quale, dal confronto con gli elementi inconsci
personali e transpersonali che possono trovarvi rappresentazione, scaturisce un
processo di trasformazione psichica e
uno sviluppo più armonico della personalità, in linea con le
potenzialità dell’individuo.   Seguendo
gli scenari che emergono dal paziente, il terapeuta facilita il confronto tra
coscienza ed inconscio, favorisce l’integrazione psichica e il recupero del
rapporto con il Sé individuale originario.

La sandplay therapy fornisce un linguaggio simbolico anche a chi non ha
parole per esprimere il proprio malessere, consentendo di rappresentare il
mondo interno così come si è costellato. In questo modo, l’attività creatrice
dell’immaginazione strappa l’uomo ai vincoli che lo imprigionano nel
“nient’altro che”, elevandolo al ruolo di colui che gioca.

Lo stesso Jung enfatizza il ruolo creativo del gioco e
dell'immaginazione: " ... tutto il lavoro umano trae origine dalla
fantasia creativa, dall'immaginazione; come potremmo averne una bassa opinione?
Inoltre la fantasia normalmente non si smarrisce; profondamente e intimamente
legata com'è alla radice degli istinti umani e animali, ritrova sempre, in modo
sorprendente la via. L'attività creatrice dell'immaginazione strappa l'uomo ai
vincoli che l'imprigionano al nient'altro che, elevandolo allo stato di colui
che gioca. E l'uomo, come dice Shiller, è
totalmente uomo solo là dove gioca
. L'effetto al quale io miro è di
produrre uno stato psichico nel quale il paziente cominci a sperimentare con la
sua natura uno stato di fluidità, mutamento e divenire, in cui nulla è eternamente
fissato e pietrificato senza speranza" (Jung, 1959).

Francesco Montecchi sostiene che “il quadro che scaturisce dal
"gioco" viene utilizzato alla stessa stregua di un sogno o di una
fantasia, diversificandosi da questi per la tridimensionalità della scena”
(Montecchi 1983). Ed è la stessa Dora Kalff a rilevare l’attinenza tra la
metodica della sandplay therapy e lo psicodramma: “Un problema inconscio viene
recitato come un dramma nell'ambito
della cassetta della sabbia. Il conflitto viene trasposto dal mondo interno
all'esterno, e reso visibile.  Si tratta
qui della esperienza di vita del simbolo in uno spazio protetto” (Kalff, 1974.
Il corsivo è mio).


5.
Conclusioni: la funzione dei gruppi di realtà e dei gruppi di espressione
analogica nelle istituzioni terapeutiche e riabilitative

  Dopo aver riflettuto ed esposto sulla pratica
attuale, la teoria e la tecnica della drammatizzazione iconica in quanto
particolare dispositivo in uso nel “gruppo delle sabbie”, vorrei concludere il
presente elaborato provando a rispondere ad una domanda sulla quale - pur nella
sua spietata semplicità - credo ogni collega, che abbia avuto la fortunata
avventura di sperimentarsi nella clinica, si sia dovuto quotidianamente
interrogare: A che cosa serve? Ed in particolare, a cosa serve in una comunità
terapeutica ?
  Giulio Gasca rileva come, in moltissimi
luoghi deputati alla cura e riabilitazione di pazienti psichiatrici, si corra
il rischio di riprodurre quelle stesse dinamiche cronificanti (progressivo
stereotipizzarsi dei momenti relazionali, impoverirsi dei rapporti umani, la
spersonalizzazione degli individui trattati come oggetti tutti identici tra
loro) che determinavano la cosiddetta sindrome del paziente lungodegente
istituzionalizzato, e che la psichiatria basagliana dei decenni scorsi, con
un'analisi forse un po' semplicistica, faceva dipendere dall'istituzione
totale, espressione di una società gretta ed espulsiva (cfr. Gasca et al.
1999). Eppure oggi, a più di un trentennio di distanza, spesso si possono osservare
analoghi meccanismi, non solo in istituzioni tutt’altro che repressive ed
escludenti (alloggi protetti, comunità terapeutiche, centri diurni, etc.), ma
anche nell'alto grado di rigidità, stereotipia dei ruoli e immobilità
resistente al cambiamento proprio delle famiglie in cui i Servizi territoriali
sono riusciti a mantenere i pazienti stessi, talvolta grazie ad un'assidua
assistenza domiciliare.
  Una possibile
spiegazione si ritrova nella teoria psicopatologica - curiosamente al contempo
di sapore fenomenologico ed organicistico
-, che interpreta la schizofrenia ed alcuni gravi disturbi di
personalità come il manifestarsi, a livello del singolo individuo e
dell'immediato intorno relazionale, di una “insufficiente capacità (determinata
da diversi fattori biologici, psicologici, socio-culturali) di integrare nuovi
stimoli complessi in un sistema fluido, differenziato, capace di adattamento”.
Il sistema intrapsichico del paziente psichiatrico grave, come il sistema
interpersonale che con lui interagisce, oscilla perciò “tra situazioni
caotiche, in cui è possibile qualsiasi collegamento, senso, interpretazione
degli eventi, e situazioni rigide in cui un modello, dato una volta per tutte,
esclude il nuovo, il diverso”(Gasca 1999).
  Quello
che viene a mancare quindi è una sorta di spazio transazionale, un
elemento intermedio tra rigidità e caos, per così dire, tra la posizione di una medesima risposta per tutte le domante
del mondo
e quella del tutte le
risposte del mondo per una medesima domanda.
  Ecco allora che può essere utile uno schema
interpretativo del funzionamento dei gruppi terapeutici nelle istituzioni, che
li renda fattori specificamente atti a modificare la patologia caotico-rigida
che tanto spesso si riscontra fra i pazienti: quello della funzione dei segni e dei simboli.
  Il segno, riprendendo una definizione dalla
psicologia analitica (Jung, I tipi psicologici Opere Vol IV 1921), consiste in
un significante che designa qualcosa di completamente noto. Al contrario il
simbolo è un significante che rappresenta la migliore espressione possibile di
un dato di fatto ancora non del tutto conosciuto negli elementi essenziali.
Esso esprime la tensione ad una sintesi tra elementi incongruenti e
contraddittori legati a punti di vista parziali, sintesi che non può ancora
venir espressa in termini consapevoli e razionali.
  In quest’ottica diremmo che le psicopatologie
più acute, in primis la schizofrenia,
paiono caratterizzate dal fatto che i segni si depotenziano nella loro funzione
di segni. Allora il paziente fatica a valutare quale aspetto di una situazione
complessa sia rilevante rispetto allo specifico contesto in cui si muove; sul
piano logico, affettivo e del comportamento, ogni percetto e/o concetto vengono
afferrati da molteplici riferimenti contraddittori (vedi pensiero iperinclusivo di Cameron, 1939) fino a sfociare in una
diffusa ed angosciante confusione.
  Si può facilmente intuire che tale uso,
inefficace ed impropriamente simbolico, del segno è quello che si riscontra
tipicamente nei messaggi a doppio legame.
  Ancora Gasca (1999) fornisce un’interessante
lettura, nei termini della teoria dei ruoli alla base dello psicodramma
analitico individuativo, della natura del messaggio a doppio legame: “…vengono
formulate due o più richieste di "essere" in ruoli tra loro
incompatibili: tali richieste sono rigide, secondo la modalità che più avanti
descriveremo come progettualità cristallizzata, una progettualità incapace di
andare oltre il frammento del presente, di rendersi flessibile per articolarsi
e integrarsi in situazioni più complesse. In pratica colui che esprime il
messaggio doppio legame giustappone, senza essere capace di confrontarli, due
frammenti di ruolo incompatibili tra loro, ma senza essere in grado di
comprendere la loro incompatibilità. Questo aspetto genera un'incoerenza cioè
una situazione caotica, rispetto ai ruoli complementari con cui chi riceve il
messaggio dovrebbe rispondergli. Nel tipico doppio legame non è che il genitore
o il figlio vogliano evitare un conflitto (come avviene nella dissociazione e
nell'ambivalenza isterica ove due atteggiamenti opposti incompatibili non si
vogliono portare alla coscienza assieme: l'isterico è però in grado di
esprimere questa modalità nel suo linguaggio inconscio come dimostra il suo
comportamento finalistico e perciò evita il conflitto). Al contrario lo
schizofrenico (e il genitore schizofrenogenico, che è spesso a sua volta uno
schizofrenico compensato) non dispone di un linguaggio, nemmeno inconscio,
capace di esplicitare adeguatamente il conflitto: ne nasce la dissociazione
schizofrenica che non consiste nell'escludere opposti incompatibili, ma nella
carenza di legami associativi (sarebbe meglio dire logico-programmatici), per
cui aspetti obiettivamente incompatibili vengono insensibilmente mescolati.”
  Sono proprio l’angoscia ed il disagio
derivanti dall’essere in continuazione gettato nel guazzabuglio indistricabile
delle molteplicità interpretative del mondo e di se stesso, che spingono
progressivamente il paziente a sclerotizzarsi attorno a schemi stereotipati e
riduttivi, difensivamente avulsi da ogni ambiguità e complessità. In questo,
potremmo dire, consiste il passaggio dalla fase acuta alla cronicizzazione:
l’inattendibilità della funzione del segno che conduce a perdere la funzione
del simbolo.
  Nei termini della teoria dei ruoli (vedi supra Par.3.2), accanto alla dimensione
somatica, ciascun ruolo presuppone una dimensione sociale e una dimensione
immaginale. Quella sociale attiene
all'insieme di modalità di comportamento, aspettative e norme convalidate
consensualmente, che permettono un'interazione coerente con il collettivo: si
può pertanto dire che corrisponda al concetto di segno. D’altro canto, la dimensione immaginale rimanda alla pluralità di significati che l'immagine del
ruolo può assumere nel mondo interiore del protagonista ed è collegata col
mondo della trascendenza in senso fenomenologico, della creatività, della
ricerca di un senso: in altre parole, il concetto di simbolo.
Dunque
se, come detto, in molte forme acute di psicosi la dimensione sociale dei ruoli
del paziente va rarefacendosi, mentre la dimensione immaginale si fa via via
più invasiva e totalizzante, nelle stesse psicopatologie croniche (o
cronicizzate) è la dimensione immaginale a sfumare progressivamente, per essere
soppiantata da una socialità ipersemplificata, ridotta cioè ad alcuni ruoli
poveri e stereotipati, esenti da contraddizioni, oppure alla rigida dimensione
sociale di ruoli adattati alla pseudocomunità
paranoide
(Cameron, Magaret 1962) che, semplificando il suo pensiero
iperinclusivo con l'esclusione del confronto con la realtà, il paziente si è
costruito attorno.
  Dati questi presupposti, i messaggi a doppio
legame si configurano quale espressione, a livello familiare, di ruoli inizialmente
invasi da una dimensione immaginale irrealistica - il Paterno, il Materno, Il
Figlio Idealizzato, come ruoli commisti di aspetti contraddittori - e
successivamente riportati a una dimensione pseudo-sociale stereotipata e
riduttiva. Sfumata così la funzione simbolica, e con essa la capacità di
accettare la fantasia e l'ambiguità come distinte dalla realtà, ma anche come
suggeritrici di nuove soluzioni sperimentabili nella realtà stessa, il sistema
familiare e quello intrapsichico del paziente divengono del tutto incapaci di
elaborare sia il messaggio a doppio legame, che le tensioni e le aspirazioni
che l'hanno generato.
 
  Sulla base di tutte queste premesse, nonché
delle mie personali osservazioni cliniche, si possono distinguere, per
funzionamento ed obbiettivi specifici, due tipologie di gruppi terapeutici che
risultano particolarmente adatti ed incisivi nei luoghi di cura per pazienti
psichiatrici (cfr. Gasca 1989).
  Una tipologia è costituita dalle riunioni che agiscono a livello di realtà
concreta (borse lavoro, preparazione del pranzo, attività sportive, assemblee
organizzative, etc.). In tali riunioni inizialmente si richiede ai partecipanti
un impegno estremamente semplice, pragmatico e verificabile in termini di
risultati immediati. In questo modo, ai segni viene restituita la funzione di
segni, mediante la predisposizione di un contesto privo di complessità e
ambiguità, in cui i pazienti, a partire dalla dimensione somatica possono
recuperare la dimensione sociale dei propri ruoli. Operatori esperti e ben
formati potranno quindi fare in modo che la dimensione segnica e sociale si
traduca, contestualmente e progressivamente, nel riaddestrare il paziente a una
sempre maggiore complessità di rapporti e di progetti, e si sviluppi senza perdere
di vista il mondo interiore e la dimensione simbolica del paziente stesso.
  Operando in questo modo, le riunioni
finalizzate al pragmatismo delle realtà di vita costituiscono un intervento
sinergico con il secondo tipo di gruppi: i gruppi
di espressione analogica
(arte-terapia, musico-terapia, espressione
corporea, sociodramma, psicodramma… gruppo delle sabbie). Essi costituiscono lo
spazio per il pensiero divergente, le sue possibilità molteplici, la sua
flessibilità creativa. E’ importante che questi dispositivi gruppali siano
condotti con profondità analitica, ma attraverso immagini, anziché parole. E
ciò perché, inevitabilmente, l’espressione verbale si traduce in una sintassi
categorica e spesso  riduttivamente
dicotomica (sano-pazzo, giusto-sbagliato…), mentre la dimensione analogica
evoca un mondo in cui la realtà soggettiva e l'inconscio del paziente possono
liberamente confrontarsi con altre soggettività ed altri mondi (di altri
pazienti e operatori). Condividendo così la molteplicità dei significati - e
messo tra parentesi il principio aristotelico di non contraddizione - si
possono formare una struttura e dei riferimenti collettivi che portano a
differenziare ed elaborare schemi coerenti.
  Auspicabilmente, i simboli che, impoveriti,
venivano travisati come segni, ritrovano così la loro funzione simbolica e,
attraverso di essi, il mondo interiore viene riportato alla realtà della
coscienza gruppale e collettiva. Si forma quindi uno spazio condiviso in cui
l’individuo apprende a vivere come libertà costruttiva quella fluidità
dell'esperienza che in precedenza esperiva come ambiguità angosciante.







Note
Biografiche

Luca
Freiria
è
psicologo, psicoterapeuta e psicodrammatista di orientamento analitico. Libero
professionista e attualmente consulente presso la Comunità Terapeutica “Il
Porto Onlus” di Moncalieri, dove svolge attività clinica e conduzione di gruppi
terapeutici dal 2004. Socio dell'Istituto Torinese di Psicologia (I.T.P.),
dell'Associazione EMDR-Italia e del Centro Italiano di Ipnosi
Clinico-Sperimentale (C.I.I.C.S.), è assegnatario per l'anno accademico in
corso (2013-14) della docenza per la didattica complementare presso Università
degli Studi di Torino, Laurea Triennale per Educatori Professionali, corso di
Psicologia dello Sviluppo, sede distaccata di Savigliano (CN).







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Premessa


Da dove cominciare?
E’ la domanda che mi è frullata
per la testa testa per un po’, dopo aver realizzato che probabilmente era giunto
il momento di condividere il lavoro che svolgiamo da diversi anni con Marisa
Mozzone, conducendo quello che viene ormai stabilmente chiamato dai pazienti il
“gruppo delle sabbie”.

Da dove cominciare è una
questione che, sulla scorta di arcani ammonimenti quali “chi ben comincia è a
metà dell’opera” e “anche il viaggio più lungo comincia dal primo passo”,
solitamente mi trasmette entusiasmo e ansia anticipatoria. Così, per rendere le
cose più semplici a me ed auspicabilmente a coloro che avranno la curiosità di
leggere il presente elaborato, ho pensato di cominciare dalla fine, ovvero
descrivendo innanzitutto l’assetto attuale del “gruppo delle sabbie”, per poi
riportare una recente seduta a titolo esemplificativo, e infine concludere con
una breve ma doverosa appendice teorica e tecnica.

Trascurerò in questa sede, ulteriori dilungazioni circa l’originale
avvicendarsi di esperienze professionali e formative che per quasi un decennio
hanno sostanziato la formula odierna del gruppo in oggetto. Mi limiterò ad
aggiungere che tali esperienze hanno avuto, ed hanno, interamente luogo
all’interno della prassi terapeutico-riabilitativa della Comunità ”Il
Porto”-Onlus, grazie ad un ambiente capace da sempre di stimolare
l’approfondimento e la sperimentazione clinica, di cui il “gruppo delle sabbie” stesso non è che uno dei frutti.

  1. “Gruppo delle sabbie” e drammatizzazione iconica


La drammatizzazione iconica (icònico agg.
[derivazione del gr. εἰκών -όνος «immagine»]:  Relativo
all’immagine, o, più spesso, riferito a simboli e simbologie, che è conforme
all’immagine del simboleggiato; in partic., segno i., rapporto
i
. - tra segno e oggetto significato -, in semiologia. Cnfr.
Enciclopedia Treccani) è un particolare dispositivo gruppale  applicato e sviluppato in circa sette anni di
lavoro clinico cnel il “gruppo delle sabbie”. Quest’ultimo è un gruppo
terapeutico semi-aperto e continuativo che si svolge, con cadenza settimanale
(durata: 75-90 minuti), nella grande sala della musica e, se il tempo lo
permette, nel parco della Comunità Terapeutica “Il Porto” di Moncalieri (TO).

Il modello teorico di riferimento è quello dello psicodramma analitico individuativo (cfr. Gasca 2003), fondato principalmente
sulle prospettive junghiana e fenomenologica, mentre la maggior parte degli
strumenti e delle tecniche di conduzione attingono, oltre che dalla prassi
dello psicodramma e del sociodramma, anche dalla sandplay therapy (Kalff 1966).

Questo peculiare assetto di gruppo è pensato per un numero massimo dagli
otto ai dieci pazienti, sia provenienti dalle tre Unità residenziali della
Comunità (Unità per disturbi da psicosi o Casa
Madre
, Unità per disturbi di personalità o Ex-Scuderie, Unità di Reinserimento) che esterni in progetto
diurno, prevede nella sua forma attuale la co-conduzione da parte di uno
psicoterapeuta ed uno psicodrammatista (Luca Freiria), un’esperta in
psicomotricità e tecniche espressive non verbali (Marisa Mozzone) e, possibilmente,
la presenza di due o tre Io-ausiliari (di norma selezionati tra i tirocinanti
psicologi).

Ogni sessione si suddivide in cinque parti: pre-gruppo, riscaldamento,
rappresentazione iconica, condivisione attiva, post-gruppo.


Pre-gruppo: composto dai conduttori e dagli Io-ausiliari, si
riunisce mezz’ora prima della seduta per fare il punto sui pazienti che
interverranno al gruppo, condividere eventuali episodi significativi che li
hanno coinvolti in settimana, individuare se necessario temi e strumenti
specifici per la seduta che avrà luogo di lì a poco.


Riscaldamento
:
ogni seduta ha inizio con una prima parte (20-30 minuti), solitamente condotta
dall’esperta in tecniche espressive non verbali con il supporto del terapeuta,
dedicata ad esercizi di riscaldamento (warming-up psicodrammatico, sociometrie,
attivazione somatica-sensoriale, etc.), che hanno lo scopo di facilitare la
formazione della matrice gruppale, favorire la comunicazione intersoggettiva e
far emergere i ruoli individuali e un tema di gruppo.


Rappresentazione iconica: in questa fase (30-45 minuti) lo
psicoterapeuta svolge il ruolo di conduttore e la collega assume la posizione
di recorder, mentre i pazienti e gli Io-ausiliari rappresentano, all’interno di
una sand-box appositamente
realizzata, i contenuti individuali (ricordi, sogni, immagini simboliche)
spontaneamente emersi nel riscaldamento, utilizzando i diversi oggetti messi
loro a disposizione (figura 3). Ogni
singola composizione è in parte
assimilabile ad una “foto di scena” psicodrammatica che viene poi
condivisa da ogni paziente con il gruppo e animata attraverso doppiaggi, scambi
di ruolo e soliloqui.

Ma lo spazio di rappresentazione, costituito dalla sand-box o sabbiera, contiene contemporaneamente diverse scene
pronte a prendere vita. Esse occupano, singolarmente e nel loro insieme, un
volume ed una posizione peculiari all’interno di un contenitore dai confini
costanti e condivisi. Tutti questi aspetti promuoveno una possibile lettura
anche sociodrammatica (talora sociometrica) della rappresentazione mediante
sandplay, permettendo talvolta a conduttori e pazienti di vedere riprodotte,
come in una sorta di plastico, le complesse dinamiche intercorrenti tra i vari
ruoli rappresentati nello scenario (es. figura
1
).


figura
1.
Scenario
con rappresentazioni inerenti al tema della condivisione.
Mentre la maggior
parte dei
partecipanti porta immagini positive, perfino stereotipate, una paziente
raffigura,
con un totem
circondato da serpi velenose (in alto a destra), il ricordo di una confidenza
tradita.
Il gruppo
esprime spontaneamente, mediante la distanza dal totem, la difficoltà di far
coesistere
a stretto
contatto vantaggi e rischi dell’apertura all’altro.



Condivisione attiva: è lo spazio deputato all’interazione dinamica
tra le varie composizioni presenti sulla sabbiera. Ogni partecipante può adesso
animare le rappresentazioni proprie e degli altri, manipolando la sabbia,
spostando e aggiungendo oggetti, dando ad essi suoni o parole.   Quando infine la sand-box ritorna quieta, lo scenario è mutato, il conduttore invita
i pazienti a condividere le intenzioni, i dubbi e le emozioni correlati a
quello che è appena accaduto.

In questa fase viene agevolata l’espressione spontanea - dapprima agita
e poi verbalizzata - del complesso di proiezioni ed identificazioni che si
attivano durante il gruppo, stimolando così il processo di mentalizzazione
(Allen, Fonagy, Bateman., 2008).

Al termine, ogni partecipante cerca di trovare un senso a quanto è
avvenuto durante la seduta e lo fa dando un “titolo” significativo all’immagine
che comprende la totalità delle composizioni individuali che hanno interagito
nello spazio della sabbiera.


Durante le fasi di rappresentazione iconica e condivisione attiva, il
conduttore scatta delle foto che, unitamente a quanto appuntato dalla recorder,
costituiranno materiale utile per le osservazioni post-gruppo e periodici
rimandi ai pazienti.

Post-gruppo: I conduttori e gli Io-ausiliari
condividono osservazioni cliniche rispetto ai singoli pazienti, alla dinamica
di gruppo ed al materiale emerso durante la seduta. In questo frangente
risultano particolarmente preziose le osservazioni degli Io-ausiliari, i quali,
durante le fasi precedenti della seduta, condividono a tutti gli effetti il
medesimo lavoro dei pazienti, svolgendo così la duplice funzione di sostegno ed
osservatore privilegiato.


  1. L’Orco sullo Sfondo” : una sessione esemplificativa


Il pre-gruppo della sessione
in oggetto ha luogo al consueto orario (14,00), in un soleggiato mercoledì
estivo, nella sala della musica della
Casa Madre (figura 2).



Figura
2
.   La sala
della musica
della Comunità Il
Porto
di Moncalieri

Figura
3
.  Dettaglio: Camino con oggettistica per sandplay






Iniziamo scambiandoci informazioni sui vari membri del gruppo: in due
mancheranno alla seduta per ragioni organizzative, mentre uno è al mare con la
famiglia; inoltre, due tirocinanti con il ruolo di Io-ausiliare torneranno a
Settembre dalle vacanze. Saranno invece presenti alla sessione Camilla, Paola
(entrambe residenti del’ Unità per disturbi di personalità), Luna e Anselmo
(pazienti esterni in progetto diurno).

Passiamo poi a condividere le impressioni circa il difficile periodo
che, da qualche settimana, coinvolge residenti e staff della Comunità, a causa
dell’aumento di condotte trasgressive ed antisociali (consumo di sostanze,
aggressività verbale e perfino fisica) ad opera di un esiguo numero di pazienti
delle diverse Unità che compongono la Struttura. Quello che più ci colpisce è
la reazione tiepida ed evitante - di cui ci hanno riferito diversi colleghi -
che molti dei residenti, pur non direttamente coinvolti negli episodi
trasgressivi, mostrano a fronte della grave situazione. Anche i partecipanti al
“gruppo delle sabbie”, negli ultimi tempi, ci erano apparsi cauti,
insolitamente poco coinvolti e piuttosto propensi a lasciare fuori dalle sedute
i  temi più scomodi da gestire. Se, sulle
prime, avevamo deciso di non intervenire attivamente, pensando così di
assecondare il bisogno dei pazienti (e forse anche il nostro) di tutelare il
gruppo come “spazio libero e protetto”( Kalff, 1966), dopo poche sedute abbiamo
realizzato di dover fare qualcosa per sciogliere quello che stava diventando
una sorta di irrigidimento difensivo, e un tantino anaffettivo, attorno ad un
ruolo del tipo “nihil sub sole novum”.
Così, conveniamo di incentrare la fase di riscaldamento su temi quali la
consapevolezza, l’espressione e la regolazione delle emozioni, per provare, per
così dire, ad oliare un po’ gli ingranaggi espressivi e vedere cosa ne vien
fuori.

Riscaldamento.
Alle 14,30 circa, poiché le condizioni metereologiche lo consentono, il
“gruppo delle sabbie” inizia all’ombra del boschetto sito ai margini del parco
antistante la Comunità.

Dopo delle brevi “camminate cadenzate” nel viale (esercizio
psicodrammatico consistente nell’esprimere attraverso il ritmo e la postura
della camminata, un particolare stato d’animo; es.: fretta, sconforto,
aspettativa, etc.), proponiamo al gruppo un gioco per cui ognuno dovrà tentare
di riconoscere il maggior numero possibile di espressioni facciali ritratte in
foto (figura 4).



Figura 4. Le sei emozioni primarie
tratte dalla ricerca di
Ekman e
Friesen 1967

  Le
immagini, reperite in rete e mostrate ai pazienti su tablet (potere della tecnologia!), raffigurano sei emozioni
primarie: rabbia, paura, disgusto, stupore, gioia e tristezza. Il gruppo si
lascia subito coinvolgere, divertito, da questa sorta di gara, indovinando a
turno facilmente quasi tutti gli items; salvo per il fatto che, curiosamente,
sia Paola sia Camilla faticano a trovare significative differenze tra le foto
raffiguranti stupore e paura.

Ci allacciamo quindi al gioco successivo: ogni partecipante cerca di
trovare in sé quella, che tra le sei precedenti emozioni basilari, risulta più
accessibile al momento, e la esprime, magari stereotipandola un po’, con il
viso affinché gli altri la possano indovinare. Anche in questo caso, tutti si
dimostrano molto bravi ad azzeccare le espressioni degli altri, ma nessuno si
azzarda a raffigurare il volto della paura
né quello dello stupore.

Chiediamo poi di comporre un tableau
vivant
di gruppo per ognuna delle sei emozioni riconosciute nelle immagini
del primo esercizio, per poi fotografarle e commentarle tutti assieme.
Accade solo allora che,
attraverso un linguaggio somatico e corale, finalmente lo stupore e la paura
trovano un’espressione più fluida e condivisa, permettendo così di contattarle
nella loro complessità:

Camilla dice, quasi tra sé: ”Facendo
la paura ci copriamo tutti gli occhi, facendo lo stupore ci copriamo al bocca”.

Paola risponde: “Io mi sono
tappata le orecchie! Pure quando facevamo la rabbia.”

Anselmo sorride: “Ecco, così
abbiam fatto le tre scimmiette!”

Io-ausiliare: “E’ vero, in certe
foto sembriamo come le tre scimmiette…”

Terapeuta: “Chissà che emozione
esprimono le tre scimmiette?”

Luna, in un sospiro: “La paura…
l’omertà.”

La consegna che diamo per l’ultima parte del riscaldamento è quella di
gironzolare individualmente nel parco, finché non ci si imbatta in qualcosa che
eliciti una delle emozioni primarie; dopo esser stati un po’ in contatto con
l’emozione emersa, si potrà tornare in gruppo per condividerla.

Anselmo: “In mezzo al prato c’era
questo bicchierino di plastica, e mi ha fatto un po’ di rabbia.”

Paola: “Io mi sono immedesimata in
questa pietrolina, che è piccola e triste come me.”

Luna: “I pomodori che maturano nell’orto mi han messo di buon umore.”

Camilla: “Io laggiù ho visto un ragno che mi ha fatto paura e un po’
schifo!”

Io-ausiliare: “Io ho visto una
tartaruga nella fontana. Non l’avevo mai vista e mi ha stupito.”

Rappresentazione
iconica.
Tornati
nella sala della musica, proponiamo che ogni membro del gruppo, ispirandosi ad
una delle emozioni con cui abbiamo giocato finora, lasci emergere
spontaneamente un ricordo, un’immagine o un sogno da rappresentare nella sand-box.

                 
Figura 5. La sand-box e la
rappresentazioni iconiche


Ne risulta una sabbiera nel suo complesso abbastanza spoglia, che
trasmette un senso di vaga inibizione (figura 5). La sabbia non viene
manipolata da nessuno e le singole rappresentazioni iconiche sono semplicemente
composte nella sabbiera, molto distanti l’una dall’altra e con una disposizione
che pare poco spontanea.

A questo punto, come di consueto, il conduttore invita i partecipanti ad
esporre a turno la propria composizione, mentre la recorder osserva attentamente e prende appunti.

Avendo il presente elaborato esclusivamente finalità descrittive, risulterebbe
fuori luogo ed inutilmente prolisso, trascrivere integralmente lo sviluppo
della seduta; cercherò dunque di rendere l’idea dello svolgersi della dinamica
e della tecnica, riportando soltanto alcuni stralci emblematici.

Tre rappresentazioni – quelle di Camilla (in alto a sinistra), di
Anselmo (in basso a destra) e dell’io-ausiliare (in basso a sinistra) –
descrivono ricordi in cui l’emozione dello stupore si trasforma, per diverse
ragioni, in rabbia o disagio. Al centro della sand-box, Luna pone un’immagine di se stessa, triste ma riflessiva.
L’ultima a parlare è Paola (in alto a
destra nella sand-box
).


Paola: “Io ho messo questa
bambolina bionda accovacciata, che si tappa le orecchie con le mani, e un orco
che le grida addosso.”

Conduttore: “Quali emozioni hai
voluto rappresentare così?”

Paola, esitante: “La paura. E’
quando Giovanni (coordinatore dell’Unità per Dist. Di Personalità) mi ha
comunicato la punizione per aver fatto… una trasgressione. Io sono la bambolina
e Giovanni… l’orco.”
(Paola abbozza un sorriso imbarazzato)

Conduttore: “Accipicchia, sembra
che sia stata una comunicazione ‘mostruosa’!”
  Paola: “Sì, mi hanno dato una sospensione.”
 Conduttore: ”Ora, come sempre, hai la possibilità di
dar voce ad uno degli elementi della tua scena: quale scegli?”
  Paola
indica il bastone impugnato dall’orco:
“Io sono il bastone e ti picchierò tutte le volte che mi andrà. Perché posso
farlo!”.
  Conduttore
doppia Paola: “Sono un bastone proprio
pre-potente… Perché faccio così?”
  Paola: “ Perché… perché lei è una bambolina
bionda… e io sono arrabbiata!

Conduttore quasi sotto voce: “Io
farò male, perché sono arrabbiata e lei è una bambolina bionda…”

Paola tace, guarda fissa la sua scena.


Il conduttore commenta dapprima in generale come, in molte situazioni ad
alto contenuto emotivo, possa spesso capitare che un’emozione rimandi ad altre,
forse più profonde o semplicemente scomode, non sempre agevoli da contattare.

  Il
gruppo passa quindi alla fase della condivisione
attiva
, in cui ogni partecipante, se lo ritiene, può interagire
dinamicamente con le rappresentazioni degli altri. Silenziosamente, c’è chi
sposta un pezzo, chi aggiunge un personaggio, tutti tracciano linee sulla
sabbia con le dita (figura 6).


                        
Figura 6. La sand-box dopo la
condivisione attiva.


E’ sempre con un certo pudore che un paziente decide di dialogare con la
staticità iconica di una scena che non è la sua, e talvolta ci impiega
settimane, dal suo ingresso nel gruppo, per autorizzarsi a farlo. Allo stesso
tempo non è per nulla scontata la capacità, da parte di chi si vede manipolare
la propria rappresentazione, in maniera spesso imprevedibile, tollerare la
frustrazione che ne deriva.    Eppure il
gruppo trova sempre il coraggio di modificare almeno un po’ lo scenario, di
interrogarsi e comunicare, di esporsi al desiderio di trasformazione.


Camilla: “Io ho alzato in piedi la
bambolina di Paola, e le ho tolto le mani dalle orecchie… Così com’era, mi dava
fastidio. Non è più una bambina... Poi ho tracciato una strada tra la mia scena
e quella di Anselmo, perché anche a me è capitato di sentirmi bloccata da una
sorpresa che, in realtà, mi soffocava…”
   Anselmo:
Io ho allontanato l’orco, mi metteva ansia, lì. Al suo posto ho messo un uomo
disarmato… Ho anche fatto dei sentieri tra la mia scena e quelle di Camilla e
Paola… Così, mi è venuto di farlo.”
  Paola,
sorridendo, rivolta ad Anselmo: “Ma non
l’hai proprio tolto, è sempre là in agguato (indica l’orco, in alto al centro
della sabbiera).”

Conduttore: “Conosci le regole,
Paola. Non avrebbe potuto, neanche volendo: nessun partecipante al gruppo può
togliere dalla sabbiera ciò che è stato messo da un altro partecipante.”
  Anselmo,
sardonico: “Non so, forse avrei dovuto
seppellirlo?”
 (…)

Luna: “Chi ha tirato su il
cappuccio al mio omino pensieroso?”

Io-ausiliare: “Io. Così può vedere
che adesso c’è una stradina che porta fino alla mia rappresentazione.”
  Paola: “Io ho tolto il topolino di Anselmo dalla
stretta della vipera e l’ho messo in maniera che invece la cavalchi. Ho
tracciato un sentiero da lì alla bambolina perché anche a me piacerebbe essere
capace di cavalcare la vipera, invece di farmi mordere…”


Lo scambio continua ancora per qualche minuto, poi il conduttore chiede
come sempre ai partecipanti di pensare ad un “titolo” da dare alla storia che
anche oggi il gruppo ha raccontato attraverso la sabbiera:

Luna: “Consapevolezze
Costruttive”.

Camilla: “Sentire o non Sentire?”.

Io-ausiliare: “Emozioni
Ambivalenti”.

Anselmo: “Cavalcare la Rabbia”.

Paola: “L’Orco sullo Sfondo”.
Ogni titolo viene trascritto
dalla recorder e, su richiesta del gruppo, eventualmente commentato o chiarito.
Infine, il conduttore prova a dare un rimando conclusivo, sulla base del
materiale raccolto. L’intento non è tanto quello di dare un’interpretazione,
quanto piuttosto fornire una sorta di contenitore accessorio da usare,
all’occorrenza, per ritrovarvi tracce del percorso fatto durante la seduta.

Conduttore: “Oggi abbiamo iniziato
giocando a riconoscere, per così dire, il volto delle emozioni. E abbiamo visto
che non è poi così scontato riuscirci (…) Ma cosa succede quando cerchiamo di
riconoscerle in noi, le emozioni? (…) Allora, per esempio, può capitare di
sentirci stupiti perché qualcuno, che era sparito da tanto tempo, ci fa una
improvvisa telefonata – come nella rappresentazione di Camilla – ma in fondo in
fondo, avvertiamo anche la rabbia e la tristezza per il precedente abbandono.
Oppure ci si sente spaventati - ma anche arrabbiati come un orco - quando
qualcuno è nella posizione di farci ponderare le conseguenze delle nostre
fragilità. Certo è difficile, confusivo, e verrebbe quasi voglia di fare come
le tre scimmiette! O magari caricare un pochino delle nostre emozioni sugli altri
e fare come se fossero loro, anziché nostre.
Ma mi è sembrato che il gruppo abbia spontaneamente proposto
un’alternativa, e cioè costruire sentieri, per poter raggiungere ed essere
raggiunti, riconoscersi o differenziarsi, e infine, forse, capire un po’ meglio
cosa ci succede. (…) ”

  Dopo
aver congedato i pazienti fino alla settimana successiva, ha luogo il post-gruppo, durante il quale
conduttori ed Io-ausiliare visionano le “foto di scena” e condividono pareri
sui percorsi dei singoli nel gruppo nonché del gruppo nel suo insieme. In
questo caso, fra le altre cose, emerge una possibile lettura della dinamica del
gruppo, per la quale il gruppo stesso ha tentato di esprimere i propri vissuti
a fronte di un recente agito trasgressivo da parte di Paola, mentre
quest’ultima fatica un po’ ad assumere in merito un ruolo responsabile. Ci si
ripromette quindi di osservare l’evoluzione di queste dinamiche nelle sessioni
a venire.


3.
Prospettiva teorica e  modello di
riferimento


 La mente umana secondo gli psicodrammatisti
Inglesi
Holmes P. e Karp M. (1991),

3.1 Cenni su una prospettiva fenomenologica e
junghiana
                                                                                                                                      

Non posso affermare, in tutta onestà, di essere più che un modesto ma
appassionato spettatore dei percorsi del pensiero junghiano e fenomenologico
relativi alla psicopatologia, nel loro difficile quanto suggestivo intreccio
fra riflessione filosofica e prassi clinica.
Parimenti non posso negare che tali prospettive, magari nei loro
rudimenti, molto spesso permeino, in maniera talvolta nemmeno tanto
consapevole, la mia pratica professionale, soprattutto per gli aspetti inerenti
all’incontro con il paziente e alla dimensione diagnostica e/o prognostica.


Fin dalla sua fondazione jaspersiana la psicopatologia fenomenologica ha
rappresentato una disciplina “vocata ad interrogarsi sulla varietà, il senso e
la progettualità di mondi antropologici possibili, col compito di ricomporli
per poterli in qualche modo riabitare” (Muscatello, Scudellari 1998).

Già nel 1913 Jaspers scriveva: “Un nuovo orizzonte e una nuova ricchezza
sono sempre lì, pronti per essere acquisiti, ogni volta che, superando i
pregiudizi, si adotta l’atteggiamento fenomenologico. [...] Non ci
accontenteremo più, adesso, di povere categorie ma ci porteremo senza
pregiudizi verso i fenomeni, e là dove ne vedremo uno cercheremo di
rappresentarlo nella sua totalità” (Jaspers, 1913).
Una descrizione fenomenologica
senza pregiudizi presuppone quindi, per Jaspers, una capacità di apertura
elementare all’essenza incontrata, nel rifiuto di ogni spiegazione
aprioristica.

La fenomenologia si pone, da questo vertice osservativo, come un
percorso empirico e descrittivo che respinge la tensione verso la ricerca di
una realtà eidetica e trascendentale, tensione, questa, concepita invece in
qualche modo da Husserl fin dall’inizio.

Infatti, in maniera apparentemente antitetica, la fenomenologia nella
visione husserliana non si esaurisce mai in una semplice riproduzione
dell’esperienza o del vissuto, ma si sviluppa sempre al tempo stesso,  consapevolmente e metodicamente, verso
l’individuazione di una invariante eidetica e di una struttura trascendentale;
queste ultime intese come possibilità di risalire a strutture invarianti del
mondo psicopatologico. Ma la questione focale, come sottolinea Blankenburg
riferendosi a tale approccio, “consiste nel tentativo di accogliere
l’esperienza di un paziente in modo diretto, nel suo manifestarsi, e di
liberarla nella sua struttura
trascendentale (…) Con il concetto di organizzazione
trascendentale
non si vuole intendere alcun costrutto metafisico, bensì
l’insieme delle condizioni di possibilità di una vita in un determinato momento”
(Blankenburg 1971). Secondo questa prospettiva, quindi, la prassi clinica non
ci conduce tanto all’incontro con patologie viventi, quanto con esistenze,
collocate nello spazio e nel tempo, spesso irrigidite attorno ad un ventaglio
ristretto di possibilità di vita.

La psicopatologia fenomenologica, pur tenendo presenti le dicotomie,
soprattutto nel campo delle psicosi (derivabile/inderivabile, delirio/deliroide
ed altre ben note), se ne serve soltanto come di boe galleggianti che fungono
da riferimento alla navigazione clinica (cfr. Muscatello, Scudellar 1998i).
Essa è soprattutto sensibile alle sollecitazioni dei diversi percorsi
esistenziali, declinandosi, come abbiamo visto, come una fenomenologia genetica: “una fenomenologia diacronica che ricostituisca
la storia della vita, e non solo la storia clinica [...] al fine di cogliere
gli snodi strutturali di ciascuna esistenza” (Borgna, 1996).

In questa ottica i concetti (soprattutto quelli psicopatologici) non si
configurano più come rasoi infallibili e risolutivi che tagliano la realtà
clinica nei suoi punti di articolazione, ma piuttosto punto di partenza di
percorsi conoscitivi storicizzati, forse più complessi e faticosi.

Ma complessa e faticosa è l’epoca in cui viviamo, dove l’attribuzione di
senso, che orienta le esperienze individuali e l’incontro con l’altro, appare
essere il problema principale; la scarsa tenuta della concezione di ordine e
disordine come poli conflittuali apre alla considerazione del valore essenziale
della loro dialettica alla vita sociale ed individuale.
    L’approccio “debole” nei confronti degli
assunti nomotetici della psicopatologia (come di altri campi dello scibile) e
soprattutto l’incontro con l’altro da sé quale evento ermeneutico collocato
nello spazio e nel tempo intese come dimensioni empiriche ed esistenziali,
costituiscono un fecondo trait d’union
con un assetto di pensiero analitico.   

Mario Trevi (Trevi, 2000), individua nell’approccio ermeneutico uno
specifico della psicologia analitica junghiana, un elemento che la differenzia
dalle altre "psicologie". In Jung, infatti, è vivo il problema della
presenza ineludibile del soggetto ricercante nell’oggetto della ricerca
psicologica, "dell’interprete nei confronti del testo da interpretare,
riconoscendo che non c’è testo oggettivo, staccato e indifferente
all’interprete, ma che testo diviene qualsiasi testimonianza del mondo della
vita nel momento in cui un interprete l’assume nel suo orizzonte di
senso"(Ibid.).

Il messaggio della psicologia junghiana non è una dottrina, ma
un’apertura, e tale apertura si ripercuote sulla nozione junghiana di simbolo.
Scrive ancora Trevi : " Per Jung la psicologia è un atto di
interpretazione che, restando nell’ambito della storia e della finitudine, fa
arretrare, con altri simboli, i significati dei simboli che altri uomini hanno
costruito nel tentativo di comprendere quell’enigma che è l’uomo stesso. La
psicologia è dunque la continua costruzione di un universo di linguaggio
simbolico, o, per meglio dire, metaforico (il pensiero ricorre subito a
Binswanger 1991 e a Barison 1984, nda) che, mentre non pretende affatto di
esaurire l’enigma attorno a cui si travaglia, lo interpreta via via aderendo ai
limiti e all’intenzione dell’interprete, rispettando la storicità e la concreta
esistenzialità di quest’ultimo. La psicologia è linguaggio metaforico che
schiude di volta in volta un nuovo orizzonte di comprensione e immediatamente
ne riconosce i limiti, permettendo e al contempo appellandosi ad altri
possibili orizzonti di comprensione"(ibid.). Questo sembra tendere al
mutamento radicale del concetto medico di psicoterapia; essendo chiamati,
medico e paziente, ad interrogarsi reciprocamente, a farsi ognuno interprete
dell’altro. Ancora Trevi : "l’uomo è il testo che interpreta il suo
interprete; l’analizzando è il testo che occorre liberare, nell’atto
interpretativo, perché possa, interpretando l’analista, riacquistare ogni sua
originaria libertà interpretativa, che è la stessa possibilità che lo fonda
categorialmente come uomo integro e libero"(ibid.). Mi sembra di poter
ritrovare, in queste parole e in tutta la loro pregnanza di significato, i
concetti di dialogo ermeneutico e di verità ermeneutica, fondativi della
prospettiva teorica e della prassi clinica cui il presente elaborato si
riferisce.

3.2 Modello di riferimento: Psicodramma Analitico
Individuativo


Il termine psicodramma, dal greco psyche e drama (drao: opero, agisco)
nasce negli anni Venti dal pensiero e dall’opera di J.L. Moreno (1889-1974),
psichiatra e sociologo rumeno appassionato di teatro.

Moreno approfondisce percorsi di ricerca e di lavoro teatrale dapprima
in contesti socialmente disagiati e, nel 1921, fonda lo Stegreiftheater, il teatro
della spontaneità
, in cui attori improvvisati recitano episodi della vita
quotidiana. Fu grazie a questa esperienza e, in particolare, attraverso quello
che oggi è conosciuto come “il caso di Barbara” che egli matura le sue
riflessioni circa l’effetto catartico e terapeutico della rappresentazione
psicodrammatica. La scoperta dell’azione catartica, considerata dall’autore di
per sé terapeutica, apre a pieno titolo la strada allo psicodramma propriamente
detto. La catarsi diviene centrale nell’impianto concettuale di  Moreno, intesa (in riferimento alla visione
aristotelica enunciata nella Poetica)
come la possibilità di “liberare l’animo da siffatte passioni”. Ancelin
Schutzemberger osserva il processo catartico che avviene nello psicodramma come
una “libertà di espressione che permette di rivelare tendenze ignorate, mobilitare
ciò che era statico prendendone perciò coscienza, divenendo più accessibili al
cambiamento ed a nuovi ruoli”. Ciò, per l’Autrice alsaziana, è strettamente
collegato al poter comunicare le emozioni anche negative al gruppo, “sì da emettere in consonanza il proprio
essere in sé, essere per sé ed essere per gli altri
” (Schutzemberger,
1972).
Moreno usa la catarsi in senso
assoluto senza considerare il problema delle difese e delle resistenze;
l’accento è sull’attore, sull’esternazione dei suoi fantasmi interiori. Lo
scopo dello psicodramma moreniano non è quindi l’analisi dei conflitti, ma la
trasformazione degli stessi, che porta alla scoperta di nuovi significati
attraverso l’esperienza agita. Egli tentò di sistematizzare una teoria e definì
lo psicodramma come “la scienza che esplora la verità con metodi drammatici”
attraverso la “spontaneità e la creatività”.(Moreno, 1946-53)

Centrale diviene il concetto di ruolo, legato alla possibilità e alla
varietà di “parti e relativi copioni” che la persona acquisisce e interpreta
nel corso della propria esistenza. La personalità viene dunque teorizzata come
costituita da un insieme di ruoli, e la patologia può nascere nel momento in
cui tali ruoli diventano rigidi e incapaci di rispondere spontaneamente alle istanze
interne ed esterne.

Lo psicodramma classico ha fornito spunti teorici ricchi e stimolanti
che con il passare del tempo sono stati sistematizzati dalle differenti scuole
di formazione. Allo stato attuale esistono vari approcci allo Psicodramma, con
differenti regole e modalità esecutive-interpretative; tra di essi, lo Psicodramma Analitico Individuativo
(PAI) è quello sul quale mi sono maggiormente formato e sperimentato negli
ultimi anni.

Questo particolare modello di psicodramma, in quanto analitico, si pone l’obiettivo di elevare chi lo pratica ad una migliore
comprensione del suo essere attuale attraverso la consapevolizzazione delle
radici storiche, personali e transpersonali, che ne sono alla base. Si propone
altresì di far emergere le parti non integrate nel complesso dell’Io (ruoli
interni o complessi autonomi) e portarle a dialogare con la coscienza. In
quanto individuativo, ha la finalità
di sviluppare le possibilità di vita (vedi
supra), integrare le funzioni parziali e gli aspetti della psiche verso la
prospettiva di una sintesi futura nel senso dell’attualizzazione del Selbst junghiano (cfr. Gasca 2003),
realizzando il significato unico ed irripetibile della propria esistenza: in
termini moreniani, divenire autore e regista del dramma della propria vita.

Uno dei tratti specifici che caratterizzano lo psicodramma analitico
rispetto ad altri modelli è lo svilupparsi del discorso del gruppo attraverso
la costante dialettica tra due piani: quello dell’espressione verbale e quello
della presentificazione drammatica. La narrazione verbale di un membro del
gruppo o del gruppo nel suo insieme attorno ad un evento, questione, conflitto
o sintomo viene costantemente riportata alla rappresentazione, col metodo
drammatico, di una scena concreta, riferibile ad un tempo e ad uno spazio
determinati della storia di uno dei presenti. Tutti questi aspetti evocano a
loro volta sentimenti, ricordi, considerazioni, associazioni negli altri
presenti, da cui scaturiranno le scene successive. Ciascuna scena drammatizzata
costituisce, per così dire, un punto focale per mezzo del quale vengono
evidenziati sempre nuovi aspetti della rete di significati, rapporti,
possibilità che continuamente si intesse tra i partecipanti, dentro di essi ed
attraverso di essi. Il gioco drammatico “attivando sia il registro delle
percezioni dei sensi che quello del corpo, sviluppa l’incisività delle
intuizioni conoscitive. Esse successivamente al loro accesso alla coscienza,
possono diventare strumenti di conoscenza della realtà interna ed esterna  e tradursi in progetti trasformativi
sperimentabili in altri contesti di vita. Solo sostenendo un dialogo continuo e
fluido con l’inconscio e la dimensione immaginale dei ruoli che esso ci
propone, possiamo acquisire la capacità e la libertà di sviluppare le funzioni
rimaste in arretrato e integrare le istanze personali differenti in
configurazioni originali, muovendoci in uno spazio ambiguo e equivoco, il mondo
dei simboli, al di là dell’asservimento a insegnamenti certi e/o modelli forti”
(Druetta, 1995).

In una seduta di psicodramma analitico individuativo, la
rappresentazione drammatica apre alla possibilità, per il protagonista del
gioco e per il gruppo stesso, di rapportarsi a momenti della propria
esperienza, in modo critico ed esplorativo, riattivando la tendenza a
sviluppare quelle parti di sé rimaste cristallizzate e opache. Non
rappresentandosi più se stesso e le relazioni con gli altri determinate da
schemi rigidi, ma dotati di possibilità di creare significato e direzione al
proprio agire, si attiva dunque un processo di differenziazione e di sintesi in
cui le diverse istanze personali acquistano una vita autonoma, “diventa così
possibile identificarsi con gli altri mantenendo il senso della propria
identità”. (Gasca,1992).

Questo è reso possibile attraverso la ricostruzione storica di come i
ruoli, con relative implicazioni dinamiche, si sono costituiti. Essi in genere
appaiono identici o complementari ai ruoli di persone significative nella
storia passata. Risultano essersi strutturati non attraverso un meccanismo di
introiezione, ma grazie all’interazione con tali persone nel mondo reale, con
le loro rappresentazioni del mondo fantastico, con il prodursi di una  risposta nuova e creativa a situazioni
implicanti conflitti, tensioni e staticità.

Inoltre, il lavoro di rendere esplicito il proprio agire avviene dando
voce a parti di sé non riconosciute perché non coerenti e non integrabili al
proprio modello cosciente, o ancora perché non sufficientemente differenziate e
sperimentate. Rendendo esplicito e visibile, attraverso le tecniche
psicodrammatiche, il modo in cui le situazioni si sono sclerotizzate, si può
rendere reversibile l’assimilazione di partenza, creando così le condizioni per
il cambiamento.

L’idea è  che la struttura
dinamica della personalità possa venir modificata dal rapportarsi a parti di sé
non riconosciute e non integrate. Tali parti, mediante la personificazione nel
gioco psicodrammatico, instaurano un rapporto dialettico tra loro e con il
complesso dell’Io, attraverso le scene. Esse, pur essendo solo rappresentazioni
rispetto alla  realtà obiettiva, sono
però reali esperienze nell’ambito delle dinamiche interiori e possono proprio
per questo apportare reali modificazioni negli equilibri tra le parti interne.

Lo psicodramma analitico individuativo, dunque, attiva quella che Jung
definisce funzione trascendente: ”quella funzione complessa che, composta di
altre funzioni della psiche, non si identifica con alcune di esse, né con la
loro somma, ma promuove il passaggio da un atteggiamento ad un altro, superando
fratture, scissioni e antitesi tra inconscio e coscienza, creando un contenuto
nuovo capace di incanalare le tendenze in contrasto in un alveo comune.”
(Gasca, 1995).


Un altro concetto fondamentale, fino a qui soltanto accennato, per la
comprensione del modello psicodrammatico analitico è quello di ruolo. L’unità strutturale e dinamica
evidenziata dal gioco drammatico, in cui confluiscono, come tanti elementi
parziali, codici verbali, concettuali e codici espressi da sequenze di immagini
o di azioni, è chiamata in gergo psicodrammatico il ruolo: “funzione che integra, coordina ed articola
l’insieme di modalità attraverso cui un individuo si rapporta ad una data
classe di situazioni e di contesti”
(Gasca, Gassau 1992).

Rispetto al mondo esterno i ruoli strutturano il modo in cui ciascuno
interpreta quello che percepisce e come interagisce con esso. Rispetto al mondo
interno i ruoli sviluppati da ciascuno nel corso di precedenti relazioni con
altre persone, nonché in egli stesso presenti come modelli comprensibili
dell’agire proprio e altrui organizzato, possono interagire tra loro e
presentarsi alla coscienza; questo ad esempio avviene nei sogni, attraverso un
vero e proprio teatro interiore. Il sogno, nell’ottica junghiana, viene infatti
considerato come un “teatro in cui chi
sogna è scena, attore, suggeritore, regista, autore, pubblico e critico insieme

nel quale le “figure del sogno sono
tratti personificati della personalità di chi sogna
” (Jung 1916-1948).

Secondo tale vertice osservativo, ripreso e sviluppato poi da Hillman
(1985), non solo il sogno, ma anche le rappresentazioni interiori di tutto
quello che si muove nell’inconscio possono essere compresi, per così dire, dal
di dentro, attraverso una logica teatrale.

Così anche le dinamiche latenti del gruppo possono concretizzarsi in una
scena, che essendo assimilabile ad una scena teatrale, viene recitata
assegnando le parti ai diversi membri del gruppo stesso, facendo rivivere ad
ognuno emozioni e sensazioni fisiche. Inoltre, l’assegnazione dei ruoli disvela
la rete di proiezioni ed intuizioni dei protagonisti. Vedersi attribuiti dalle
dinamiche del gruppo certi ruoli prevalenti spesso aiuta ciascuno a comprendere
meglio i ruoli che assume o si fa attribuire nella vita. Si può prendere
coscienza di portare con sé un determinato ruolo senza rendersene conto e
questa comprensione può aiutare l’individuo a sperimentare la possibilità di
assumere altri ruoli. I ruoli costituiscono cioè dei veri e propri mediatori
sia tra il mondo interiore e quello esterno, sia tra i molteplici aspetti e
livelli di struttura ed integrazione presenti in ciascuno dei due mondi.

Il livello più superficiale di analisi di ogni drammatizzazione ha
origine dal confronto diretto attraverso la molteplicità di codici attivati da
ciascuno dei membri del gruppo. Le modalità attraverso le quali protagonista,
Io-ausiliari e spettatori agiscono e percepiscono la situazione, nelle diverse
versioni della stessa scena dovute al cambio dei ruoli degli attori,
introducono una pluralità di punti di vista alternativi. Questi permettono di
esaminare l’evento in relazione ai suoi differenti significati possibili e agli
affetti da esso evocati.

Ma la dinamica che si attiva durante una sessione psicodrammatica si può
leggere ad un livello più complesso e profondo, noto come teoria dei ruoli: un esame accurato di quanto emerge in ciascun
gruppo per un certo tratto di tempo evidenzia infatti una triplice
corrispondenza. Da un lato, nel gruppo ciascuno dei presenti assume e/o
attribuisce agli altri dei ruoli attuali
o somatici
, sia nel modo di porsi ed interagire, sia attraverso le immagini
che, col raccontare o drammatizzare certe parti di sé, induce nel gruppo.

Contemporaneamente, la rete di ruoli attuali rispecchia e viene
rispecchiata dalla rete di consapevoli
ruoli del passato o sociali
, propri e altrui, che ha costituito le
relazioni della storia personale di ciascuno.

La prima e la seconda rete di ruoli interpersonali, inoltre, si riflettono
e corrispondono alla rete di ruoli
interni o immaginali
di ciascun partecipante. Questi possono essere intesi
sia come parti di sé, non assunte nel rapportarsi al mondo esterno, e talora
attribuite ad altri, ma non riconosciute come proprie, o ancora come complessi
autonomi o come funzioni o istanze strutturanti la psiche, quali sono
nell’ottica junghiana l’ombra e l’animus.

La scena giocata costituisce per così dire tutto quello che mette a
fuoco le relazioni tra tali tre polarità: il qui ed ora dello strutturarsi del
gruppo, emerso attraverso le scelte effettuate da ciascuno. Il formarsi degli
attuali modi di essere (interpersonali o intrapersonali) può, attraverso il
succedersi dei giochi evocati, venire ricostruito storicamente dal precipitare,
combinarsi e cristallizzarsi di ruoli propri o altrui presentatisi nel corso
dell’esistenza passata e, al tempo stesso, tale storia passata, ricollocata dal
gioco nell’orizzonte del presente, viene per così dire illuminata da una nuova
luce. I ruoli interni o intrapersonali poi si evidenziano attraverso le scene
proposte, principalmente quelle riguardanti i sogni, ma anche scene della
realtà diurna in quanto i ruoli intrapersonali determinano il modo in cui
ognuno vede, capisce, interpreta le altre persone per lui significative.
I ruoli intrapersonali sono così
attribuiti ad altri fuori di sé: personaggi della storia passata evocati e
membri del gruppo chiamati a rappresentarli. Nella serie di giochi
psicodrammatici il protagonista se ne riappropria, riconoscendoli come parti
proprie, attraverso il cambio dei ruoli o immedesimandosi nelle parti che, a
loro volta, altri membri del gruppo gli attribuiscono.

                                     
Figura 7. Modello del Triandolo
PAI (Giulio Gasca, 1992)


Quanto detto fin qui, riguardo il modello interpretativo della scena
nello Psicodramma Analitico Individuativo, si può ben rappresentare attraverso
lo schema triangolare qui sopra (fig.7).

Il vertice superiore indica le dinamiche di gruppo che possono anche
venir viste come i ruoli che ciascun membro assume in relazione a quelli che
attribuisce agli altri. Tali ruoli si esplicitano sia nell'interazione diretta,
sia mediante la narrazione e la drammatizzazione di specifici episodi della
vita di ognuno, sia ancora con lo stile con cui i membri del gruppo impersonano
i ruoli che vengono chiamati a rappresentare nelle scene portate da altri
partecipanti.

Il vertice inferiore destro rappresenta i vari ruoli che ciascuno ha
avuto nella sua storia passata o che hanno avuto persone per lui significative.
Le frecce che uniscono i due vertici rappresentano rispettivamente lo
strutturarsi dei ruoli assunti qui ed ora in gruppo col sommarsi, fondersi e
modularsi, per essere adeguate alle nuove situazioni, delle esperienze passate,
e il riemergere di ricordi attivati dalle particolari dinamiche del gruppo
terapeutico.

Il vertice inferiore sinistro si riferisce ai ruoli intrapsichici
(funzioni, modelli interiori, complessi autonomi) spesso rappresentati dai
personaggi dei sogni, delle fantasie e dei deliri. “Tali nostri ruoli interni
strutturano il mondo interiore, dando un senso al caotico fluire di
rappresentazioni, immagini e impulsi, allo stesso modo in cui i ruoli esterni
strutturano i percetti del mondo circostante in una realtà, dotata di
significato e costituita da relazioni interpersonali (Gasca, ….).

Le frecce a doppio senso del lato inferiore stanno ad indicare che tali
parti interiori si costituiscono prendendo a modello particolari aspetti di
persone incontrate nel mondo esterno e, a loro volta, attraverso un processo di
proiezioni e assimilazione, influenzano il modo in cui vediamo tali persone. La
stessa relazione biunivoca intercorre, come indicato dallo schema, tra ruoli
interni attivati dalla dinamica del gruppo in ciascun membro e ruoli
assunti/attribuiti di volta in volta nel gruppo stesso.










4.
Sintesi di tecnica psicodrammatica, sociodramma e metodica sandplay




4.1
Tecniche psicodrammatiche


Lo sviluppo del modello sopra esposto ha dato vita a tecniche di
conduzione della sessione e della rappresentazione scenica (vero fondamento
tecnico dello psicodramma) troppo varie e complesse per essere esposte
esaurientemente in questa sede. Tenterò comunque di sintetizzare alcuni aspetti
basilari delle tecniche più diffuse:
1)  
Il doppiaggio,
ad opera del conduttore, serve per rinforzare la struttura del ruolo di cui si
sta occupando, per introdurre aspetti esclusi (funzione inferiore), sostenere un’apertura evolutiva, avviare una
possibile integrazione della funzione soggettiva.
2)  
Il cambio
di ruolo
, finalizzato ad esplicitare la relazione (tipologia e qualità) tra
le parti interne del protagonista.
3)  
La sequenza
di scene dello stesso protagonista
, mediante cui si dà voce ai contenuti
inconsci, amplificando intuitivamente il tema profondo che cattura il
protagonista stesso.
4)  
L’articolazione
di scene di più protagonisti
, finalizzata allo sviluppo ed
all’attualizzazione delle dinamiche proiettive del gruppo, nonché alla
costruzione della costellazione delle funzioni interne, attive nel gruppo in un
dato momento, e loro elaborazione attraverso le immagini drammatizzate.
5)  
Le scene
virtuali
e transgenerazionali,
che offrono aperture verso contenuti interni resi quasi inaccessibili da
sedimentazioni inconsce che spesso continuano ad agire e direzionare scelte
affettive e orientamenti culturali.
6)  
Il doppio
è un ruolo di solito assolto dal conduttore o da un altro membro del gruppo che
sperimenta un forte senso di identificazione con il protagonista, e consiste
nell´affiancarsi a lui movendosi e comportandosi in modo molto simile. È una
tecnica che risponde a bisogni simili a quelli cui assolve il ruolo materno nei
primi mesi di vita: amplificare e dare risonanza a emozioni e bisogni ancora
troppo poco differenziati per potersi esprimere da soli. Il doppio dunque serve
ad intensificare e migliorare l´azione del protagonista e, spesso, aggiunge ad
essa nuove dimensioni, dando voce a tutto quello che il soggetto non riesce ad
esprimere.
7)  
Il soliloquio
è una tecnica che permette al protagonista di esprimere liberamente i suoi
pensieri, le sue emozioni e le sue impressioni, così come gli vengono in mente
e senza essere interrotto. Può essere utilizzata per fare
un´autopresentazione, la presentazione di un´altra persona, la descrizione di
una situazione, di un sogno o di un’immagine. Più spesso, però, il soliloquio
serve a rendere manifeste al protagonista e al gruppo emozioni che l´azione
psicodrammatica cela, agevolando la focalizzazione e l’assunzione di ruolo.
8)  
Lo specchio
è una tecnica che consiste nel realizzare una specie di controfigura del
soggetto e nel farla recitare al suo posto. In questo modo il protagonista può
rendersi conto dell´immagine che da di sé al gruppo, e quindi al mondo esterno.
Anche qui sono fondamentali le reazioni del soggetto al conduttore o all´io
ausiliario che funge da specchio.

4.2
Il sociodramma


Strumento specifico messo a punto da Moreno, il sociodramma si
caratterizza per avere come oggetto precipuo di attenzione il gruppo, considerato “nelle sue
dimensioni culturali, simboliche e di relazione tra i diversi ruoli presenti
nel gruppo stesso” (Dotti 2002). Pur mantenendo saldi i principi e le tecniche
proprie della metodologia psicodrammatica, l'intervento si orienta a dar spazio
ai ruoli collettivi e quindi
appartenenti al mondo sociale dell’individuo.

“La prospettiva sociodrammatica - dice P.Kellermann – è basata sulla
funzione generalizzatrice delle persone, descritta dettagliatamente dalla
psicologia della Gestalt. Vede il cervello come un’entità olistica,
auto-organizzante e formativa che rende le persone capaci di riconoscere figure
e forme intere piuttosto che come un insieme di linee e curve (…). Similmente
la narrativa sociodrammatica è sviluppata gradualmente in modo che riusciamo a
riconoscere alcune fra le tante relazioni tra i singoli eventi e a collegarle
in una unità coerente.” (Kellermann, 2007).

Si possono distinguere due livelli operativi di sociodramma: il
sociodramma come intervento sui ruoli collettivi, e il sociodramma come
intervento sul conflitto nodale del gruppo.

Il sociodramma come intervento sui
ruoli collettivi
è il classico sociodramma, così come è stato formulato da
Moreno (Moreno 1964). È un tipo di intervento che non si rivolge
necessariamente a gruppi precostituiti ma che si rivela efficace anche con
gruppi molto ampi. La condizione basilare di tale intervento è che il gruppo
sia accomunato da un interesse, da un obiettivo, o da una particolare
condizione sociale. Oggetto di lavoro ed indagine sono, infatti, gli aspetti
collettivi e culturalizzati dei ruoli, le ideologie e gli stereotipi sociali, e
le dinamiche relazionali del gruppo cui si rivolge. I vissuti personali entrano
nel sociodramma solo come variazione individuale, e quindi arricchimento, del
ruolo collettivo e cristallizzato.

Il lavoro si apre con una fase iniziale di riscaldamento finalizzata
all´emergere dei ruoli collettivi critici e dei temi di maggior interesse per
il gruppo in questione. A questa fase segue la rappresentazione, che sarà svolta
da una equipe di Io-ausiliari e dai partecipanti volontari; l´elaborazione
della scena segue le modalità psicodrammatiche (inversione di ruolo, doppio,
specchio, eccetera), favorendo la condivisione e la trasformazione del
materiale da parte del gruppo, e così il cambiamento.

Il sociodramma, così formulato, si è dimostrato un utile strumento anche
di formazione per grandi gruppi istituzionali. Tale metodica agevola nella
riflessione e nel confronto su tematiche importanti, nella maggior comprensione
delle dinamiche interne al gruppo stesso o tra gruppi diversi, e, infine, nella
sperimentazione e nell´apprendimento di modalità relazionali più adeguate, ai
fini di una convivenza pacifica e produttiva. Moreno lo riteneva
particolarmente utile per trattare i conflitti interculturali e come strumento
di ricerca antropologica. Oggi viene applicato in quasi tutti i campi, sia con
finalità diagnostiche che formative, ma anche come strumento di
sensibilizzazione sociale.

Il sociodramma come intervento sul
conflitto nodale del gruppo
, invece, deriva principalmente dalle
formulazioni e dalle esperienze degli psicodrammatisti della scuola argentina
(Pichon-Rivière,1985). In questo caso l´intervento è centrato sui vincoli
esistenti nei gruppi naturali (coppie, famiglie, comunità) e nei gruppi
strumentali (gruppi di lavoro, di apprendimento, etc.). Oggetto del sociodramma
sono i ruoli sociali sottostanti allo sviluppo e alle attività del gruppo, e
l´obiettivo è quello di rendere manifesti le dinamiche interne e gli eventuali
conflitti.

4.3 La sandplay therapy

  La
terapia con il gioco della sabbia è
frutto della ricerca clinica e dell’intuizione della psicologa svizzera Dora
Kalff (1904-1989), allieva di Carl Gustav Jung, e può inserirsi a pieno titolo
nel solco della Psicologia Analitica. La sandplay therapy è una metodica di
psicoterapia analitica che utilizza le risorse creative dell’individuo,
integrando il lavoro verbale con la produzione di immagini nei quadri di sabbia
che permettono di contattare ed elaborare tematiche conflittuali arcaiche.

Tale metodica utilizza come materiale una cassetta, contenente della
sabbia e numerosi oggetti. Nello spazio della sabbiera (sand-box) il paziente
ha la possibilità di rappresentare non solo contenuti inconsci della sua vita
personale, ma anche immagini riconducibili alle predisposizioni archetipiche
primordiali teorizzate da Jung. Il vassoio di sabbia si pone come spazio libero
e protetto all’interno del quale, dal confronto con gli elementi inconsci
personali e transpersonali che possono trovarvi rappresentazione, scaturisce un
processo di trasformazione psichica e
uno sviluppo più armonico della personalità, in linea con le
potenzialità dell’individuo.   Seguendo
gli scenari che emergono dal paziente, il terapeuta facilita il confronto tra
coscienza ed inconscio, favorisce l’integrazione psichica e il recupero del
rapporto con il Sé individuale originario.

La sandplay therapy fornisce un linguaggio simbolico anche a chi non ha
parole per esprimere il proprio malessere, consentendo di rappresentare il
mondo interno così come si è costellato. In questo modo, l’attività creatrice
dell’immaginazione strappa l’uomo ai vincoli che lo imprigionano nel
“nient’altro che”, elevandolo al ruolo di colui che gioca.

Lo stesso Jung enfatizza il ruolo creativo del gioco e
dell'immaginazione: " ... tutto il lavoro umano trae origine dalla
fantasia creativa, dall'immaginazione; come potremmo averne una bassa opinione?
Inoltre la fantasia normalmente non si smarrisce; profondamente e intimamente
legata com'è alla radice degli istinti umani e animali, ritrova sempre, in modo
sorprendente la via. L'attività creatrice dell'immaginazione strappa l'uomo ai
vincoli che l'imprigionano al nient'altro che, elevandolo allo stato di colui
che gioca. E l'uomo, come dice Shiller, è
totalmente uomo solo là dove gioca
. L'effetto al quale io miro è di
produrre uno stato psichico nel quale il paziente cominci a sperimentare con la
sua natura uno stato di fluidità, mutamento e divenire, in cui nulla è eternamente
fissato e pietrificato senza speranza" (Jung, 1959).

Francesco Montecchi sostiene che “il quadro che scaturisce dal
"gioco" viene utilizzato alla stessa stregua di un sogno o di una
fantasia, diversificandosi da questi per la tridimensionalità della scena”
(Montecchi 1983). Ed è la stessa Dora Kalff a rilevare l’attinenza tra la
metodica della sandplay therapy e lo psicodramma: “Un problema inconscio viene
recitato come un dramma nell'ambito
della cassetta della sabbia. Il conflitto viene trasposto dal mondo interno
all'esterno, e reso visibile.  Si tratta
qui della esperienza di vita del simbolo in uno spazio protetto” (Kalff, 1974.
Il corsivo è mio).


5.
Conclusioni: la funzione dei gruppi di realtà e dei gruppi di espressione
analogica nelle istituzioni terapeutiche e riabilitative

  Dopo aver riflettuto ed esposto sulla pratica
attuale, la teoria e la tecnica della drammatizzazione iconica in quanto
particolare dispositivo in uso nel “gruppo delle sabbie”, vorrei concludere il
presente elaborato provando a rispondere ad una domanda sulla quale - pur nella
sua spietata semplicità - credo ogni collega, che abbia avuto la fortunata
avventura di sperimentarsi nella clinica, si sia dovuto quotidianamente
interrogare: A che cosa serve? Ed in particolare, a cosa serve in una comunità
terapeutica ?
  Giulio Gasca rileva come, in moltissimi
luoghi deputati alla cura e riabilitazione di pazienti psichiatrici, si corra
il rischio di riprodurre quelle stesse dinamiche cronificanti (progressivo
stereotipizzarsi dei momenti relazionali, impoverirsi dei rapporti umani, la
spersonalizzazione degli individui trattati come oggetti tutti identici tra
loro) che determinavano la cosiddetta sindrome del paziente lungodegente
istituzionalizzato, e che la psichiatria basagliana dei decenni scorsi, con
un'analisi forse un po' semplicistica, faceva dipendere dall'istituzione
totale, espressione di una società gretta ed espulsiva (cfr. Gasca et al.
1999). Eppure oggi, a più di un trentennio di distanza, spesso si possono osservare
analoghi meccanismi, non solo in istituzioni tutt’altro che repressive ed
escludenti (alloggi protetti, comunità terapeutiche, centri diurni, etc.), ma
anche nell'alto grado di rigidità, stereotipia dei ruoli e immobilità
resistente al cambiamento proprio delle famiglie in cui i Servizi territoriali
sono riusciti a mantenere i pazienti stessi, talvolta grazie ad un'assidua
assistenza domiciliare.
  Una possibile
spiegazione si ritrova nella teoria psicopatologica - curiosamente al contempo
di sapore fenomenologico ed organicistico
-, che interpreta la schizofrenia ed alcuni gravi disturbi di
personalità come il manifestarsi, a livello del singolo individuo e
dell'immediato intorno relazionale, di una “insufficiente capacità (determinata
da diversi fattori biologici, psicologici, socio-culturali) di integrare nuovi
stimoli complessi in un sistema fluido, differenziato, capace di adattamento”.
Il sistema intrapsichico del paziente psichiatrico grave, come il sistema
interpersonale che con lui interagisce, oscilla perciò “tra situazioni
caotiche, in cui è possibile qualsiasi collegamento, senso, interpretazione
degli eventi, e situazioni rigide in cui un modello, dato una volta per tutte,
esclude il nuovo, il diverso”(Gasca 1999).
  Quello
che viene a mancare quindi è una sorta di spazio transazionale, un
elemento intermedio tra rigidità e caos, per così dire, tra la posizione di una medesima risposta per tutte le domante
del mondo
e quella del tutte le
risposte del mondo per una medesima domanda.
  Ecco allora che può essere utile uno schema
interpretativo del funzionamento dei gruppi terapeutici nelle istituzioni, che
li renda fattori specificamente atti a modificare la patologia caotico-rigida
che tanto spesso si riscontra fra i pazienti: quello della funzione dei segni e dei simboli.
  Il segno, riprendendo una definizione dalla
psicologia analitica (Jung, I tipi psicologici Opere Vol IV 1921), consiste in
un significante che designa qualcosa di completamente noto. Al contrario il
simbolo è un significante che rappresenta la migliore espressione possibile di
un dato di fatto ancora non del tutto conosciuto negli elementi essenziali.
Esso esprime la tensione ad una sintesi tra elementi incongruenti e
contraddittori legati a punti di vista parziali, sintesi che non può ancora
venir espressa in termini consapevoli e razionali.
  In quest’ottica diremmo che le psicopatologie
più acute, in primis la schizofrenia,
paiono caratterizzate dal fatto che i segni si depotenziano nella loro funzione
di segni. Allora il paziente fatica a valutare quale aspetto di una situazione
complessa sia rilevante rispetto allo specifico contesto in cui si muove; sul
piano logico, affettivo e del comportamento, ogni percetto e/o concetto vengono
afferrati da molteplici riferimenti contraddittori (vedi pensiero iperinclusivo di Cameron, 1939) fino a sfociare in una
diffusa ed angosciante confusione.
  Si può facilmente intuire che tale uso,
inefficace ed impropriamente simbolico, del segno è quello che si riscontra
tipicamente nei messaggi a doppio legame.
  Ancora Gasca (1999) fornisce un’interessante
lettura, nei termini della teoria dei ruoli alla base dello psicodramma
analitico individuativo, della natura del messaggio a doppio legame: “…vengono
formulate due o più richieste di "essere" in ruoli tra loro
incompatibili: tali richieste sono rigide, secondo la modalità che più avanti
descriveremo come progettualità cristallizzata, una progettualità incapace di
andare oltre il frammento del presente, di rendersi flessibile per articolarsi
e integrarsi in situazioni più complesse. In pratica colui che esprime il
messaggio doppio legame giustappone, senza essere capace di confrontarli, due
frammenti di ruolo incompatibili tra loro, ma senza essere in grado di
comprendere la loro incompatibilità. Questo aspetto genera un'incoerenza cioè
una situazione caotica, rispetto ai ruoli complementari con cui chi riceve il
messaggio dovrebbe rispondergli. Nel tipico doppio legame non è che il genitore
o il figlio vogliano evitare un conflitto (come avviene nella dissociazione e
nell'ambivalenza isterica ove due atteggiamenti opposti incompatibili non si
vogliono portare alla coscienza assieme: l'isterico è però in grado di
esprimere questa modalità nel suo linguaggio inconscio come dimostra il suo
comportamento finalistico e perciò evita il conflitto). Al contrario lo
schizofrenico (e il genitore schizofrenogenico, che è spesso a sua volta uno
schizofrenico compensato) non dispone di un linguaggio, nemmeno inconscio,
capace di esplicitare adeguatamente il conflitto: ne nasce la dissociazione
schizofrenica che non consiste nell'escludere opposti incompatibili, ma nella
carenza di legami associativi (sarebbe meglio dire logico-programmatici), per
cui aspetti obiettivamente incompatibili vengono insensibilmente mescolati.”
  Sono proprio l’angoscia ed il disagio
derivanti dall’essere in continuazione gettato nel guazzabuglio indistricabile
delle molteplicità interpretative del mondo e di se stesso, che spingono
progressivamente il paziente a sclerotizzarsi attorno a schemi stereotipati e
riduttivi, difensivamente avulsi da ogni ambiguità e complessità. In questo,
potremmo dire, consiste il passaggio dalla fase acuta alla cronicizzazione:
l’inattendibilità della funzione del segno che conduce a perdere la funzione
del simbolo.
  Nei termini della teoria dei ruoli (vedi supra Par.3.2), accanto alla dimensione
somatica, ciascun ruolo presuppone una dimensione sociale e una dimensione
immaginale. Quella sociale attiene
all'insieme di modalità di comportamento, aspettative e norme convalidate
consensualmente, che permettono un'interazione coerente con il collettivo: si
può pertanto dire che corrisponda al concetto di segno. D’altro canto, la dimensione immaginale rimanda alla pluralità di significati che l'immagine del
ruolo può assumere nel mondo interiore del protagonista ed è collegata col
mondo della trascendenza in senso fenomenologico, della creatività, della
ricerca di un senso: in altre parole, il concetto di simbolo.
Dunque
se, come detto, in molte forme acute di psicosi la dimensione sociale dei ruoli
del paziente va rarefacendosi, mentre la dimensione immaginale si fa via via
più invasiva e totalizzante, nelle stesse psicopatologie croniche (o
cronicizzate) è la dimensione immaginale a sfumare progressivamente, per essere
soppiantata da una socialità ipersemplificata, ridotta cioè ad alcuni ruoli
poveri e stereotipati, esenti da contraddizioni, oppure alla rigida dimensione
sociale di ruoli adattati alla pseudocomunità
paranoide
(Cameron, Magaret 1962) che, semplificando il suo pensiero
iperinclusivo con l'esclusione del confronto con la realtà, il paziente si è
costruito attorno.
  Dati questi presupposti, i messaggi a doppio
legame si configurano quale espressione, a livello familiare, di ruoli inizialmente
invasi da una dimensione immaginale irrealistica - il Paterno, il Materno, Il
Figlio Idealizzato, come ruoli commisti di aspetti contraddittori - e
successivamente riportati a una dimensione pseudo-sociale stereotipata e
riduttiva. Sfumata così la funzione simbolica, e con essa la capacità di
accettare la fantasia e l'ambiguità come distinte dalla realtà, ma anche come
suggeritrici di nuove soluzioni sperimentabili nella realtà stessa, il sistema
familiare e quello intrapsichico del paziente divengono del tutto incapaci di
elaborare sia il messaggio a doppio legame, che le tensioni e le aspirazioni
che l'hanno generato.
 
  Sulla base di tutte queste premesse, nonché
delle mie personali osservazioni cliniche, si possono distinguere, per
funzionamento ed obbiettivi specifici, due tipologie di gruppi terapeutici che
risultano particolarmente adatti ed incisivi nei luoghi di cura per pazienti
psichiatrici (cfr. Gasca 1989).
  Una tipologia è costituita dalle riunioni che agiscono a livello di realtà
concreta (borse lavoro, preparazione del pranzo, attività sportive, assemblee
organizzative, etc.). In tali riunioni inizialmente si richiede ai partecipanti
un impegno estremamente semplice, pragmatico e verificabile in termini di
risultati immediati. In questo modo, ai segni viene restituita la funzione di
segni, mediante la predisposizione di un contesto privo di complessità e
ambiguità, in cui i pazienti, a partire dalla dimensione somatica possono
recuperare la dimensione sociale dei propri ruoli. Operatori esperti e ben
formati potranno quindi fare in modo che la dimensione segnica e sociale si
traduca, contestualmente e progressivamente, nel riaddestrare il paziente a una
sempre maggiore complessità di rapporti e di progetti, e si sviluppi senza perdere
di vista il mondo interiore e la dimensione simbolica del paziente stesso.
  Operando in questo modo, le riunioni
finalizzate al pragmatismo delle realtà di vita costituiscono un intervento
sinergico con il secondo tipo di gruppi: i gruppi
di espressione analogica
(arte-terapia, musico-terapia, espressione
corporea, sociodramma, psicodramma… gruppo delle sabbie). Essi costituiscono lo
spazio per il pensiero divergente, le sue possibilità molteplici, la sua
flessibilità creativa. E’ importante che questi dispositivi gruppali siano
condotti con profondità analitica, ma attraverso immagini, anziché parole. E
ciò perché, inevitabilmente, l’espressione verbale si traduce in una sintassi
categorica e spesso  riduttivamente
dicotomica (sano-pazzo, giusto-sbagliato…), mentre la dimensione analogica
evoca un mondo in cui la realtà soggettiva e l'inconscio del paziente possono
liberamente confrontarsi con altre soggettività ed altri mondi (di altri
pazienti e operatori). Condividendo così la molteplicità dei significati - e
messo tra parentesi il principio aristotelico di non contraddizione - si
possono formare una struttura e dei riferimenti collettivi che portano a
differenziare ed elaborare schemi coerenti.
  Auspicabilmente, i simboli che, impoveriti,
venivano travisati come segni, ritrovano così la loro funzione simbolica e,
attraverso di essi, il mondo interiore viene riportato alla realtà della
coscienza gruppale e collettiva. Si forma quindi uno spazio condiviso in cui
l’individuo apprende a vivere come libertà costruttiva quella fluidità
dell'esperienza che in precedenza esperiva come ambiguità angosciante.







Note
Biografiche

Luca
Freiria
è
psicologo, psicoterapeuta e psicodrammatista di orientamento analitico. Libero
professionista e attualmente consulente presso la Comunità Terapeutica “Il
Porto Onlus” di Moncalieri, dove svolge attività clinica e conduzione di gruppi
terapeutici dal 2004. Socio dell'Istituto Torinese di Psicologia (I.T.P.),
dell'Associazione EMDR-Italia e del Centro Italiano di Ipnosi
Clinico-Sperimentale (C.I.I.C.S.), è assegnatario per l'anno accademico in
corso (2013-14) della docenza per la didattica complementare presso Università
degli Studi di Torino, Laurea Triennale per Educatori Professionali, corso di
Psicologia dello Sviluppo, sede distaccata di Savigliano (CN).





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Premessa


Da dove cominciare?
E’ la domanda che mi è frullata
per la testa testa per un po’, dopo aver realizzato che probabilmente era giunto
il momento di condividere il lavoro che svolgiamo da diversi anni con Marisa
Mozzone, conducendo quello che viene ormai stabilmente chiamato dai pazienti il
“gruppo delle sabbie”.

Da dove cominciare è una
questione che, sulla scorta di arcani ammonimenti quali “chi ben comincia è a
metà dell’opera” e “anche il viaggio più lungo comincia dal primo passo”,
solitamente mi trasmette entusiasmo e ansia anticipatoria. Così, per rendere le
cose più semplici a me ed auspicabilmente a coloro che avranno la curiosità di
leggere il presente elaborato, ho pensato di cominciare dalla fine, ovvero
descrivendo innanzitutto l’assetto attuale del “gruppo delle sabbie”, per poi
riportare una recente seduta a titolo esemplificativo, e infine concludere con
una breve ma doverosa appendice teorica e tecnica.

Trascurerò in questa sede, ulteriori dilungazioni circa l’originale
avvicendarsi di esperienze professionali e formative che per quasi un decennio
hanno sostanziato la formula odierna del gruppo in oggetto. Mi limiterò ad
aggiungere che tali esperienze hanno avuto, ed hanno, interamente luogo
all’interno della prassi terapeutico-riabilitativa della Comunità ”Il
Porto”-Onlus, grazie ad un ambiente capace da sempre di stimolare
l’approfondimento e la sperimentazione clinica, di cui il “gruppo delle sabbie” stesso non è che uno dei frutti.

  1. “Gruppo delle sabbie” e drammatizzazione iconica


La drammatizzazione iconica (icònico agg.
[derivazione del gr. εἰκών -όνος «immagine»]:  Relativo
all’immagine, o, più spesso, riferito a simboli e simbologie, che è conforme
all’immagine del simboleggiato; in partic., segno i., rapporto
i
. - tra segno e oggetto significato -, in semiologia. Cnfr.
Enciclopedia Treccani) è un particolare dispositivo gruppale  applicato e sviluppato in circa sette anni di
lavoro clinico cnel il “gruppo delle sabbie”. Quest’ultimo è un gruppo
terapeutico semi-aperto e continuativo che si svolge, con cadenza settimanale
(durata: 75-90 minuti), nella grande sala della musica e, se il tempo lo
permette, nel parco della Comunità Terapeutica “Il Porto” di Moncalieri (TO).

Il modello teorico di riferimento è quello dello psicodramma analitico individuativo (cfr. Gasca 2003), fondato principalmente
sulle prospettive junghiana e fenomenologica, mentre la maggior parte degli
strumenti e delle tecniche di conduzione attingono, oltre che dalla prassi
dello psicodramma e del sociodramma, anche dalla sandplay therapy (Kalff 1966).

Questo peculiare assetto di gruppo è pensato per un numero massimo dagli
otto ai dieci pazienti, sia provenienti dalle tre Unità residenziali della
Comunità (Unità per disturbi da psicosi o Casa
Madre
, Unità per disturbi di personalità o Ex-Scuderie, Unità di Reinserimento) che esterni in progetto
diurno, prevede nella sua forma attuale la co-conduzione da parte di uno
psicoterapeuta ed uno psicodrammatista (Luca Freiria), un’esperta in
psicomotricità e tecniche espressive non verbali (Marisa Mozzone) e, possibilmente,
la presenza di due o tre Io-ausiliari (di norma selezionati tra i tirocinanti
psicologi).

Ogni sessione si suddivide in cinque parti: pre-gruppo, riscaldamento,
rappresentazione iconica, condivisione attiva, post-gruppo.


Pre-gruppo: composto dai conduttori e dagli Io-ausiliari, si
riunisce mezz’ora prima della seduta per fare il punto sui pazienti che
interverranno al gruppo, condividere eventuali episodi significativi che li
hanno coinvolti in settimana, individuare se necessario temi e strumenti
specifici per la seduta che avrà luogo di lì a poco.


Riscaldamento
:
ogni seduta ha inizio con una prima parte (20-30 minuti), solitamente condotta
dall’esperta in tecniche espressive non verbali con il supporto del terapeuta,
dedicata ad esercizi di riscaldamento (warming-up psicodrammatico, sociometrie,
attivazione somatica-sensoriale, etc.), che hanno lo scopo di facilitare la
formazione della matrice gruppale, favorire la comunicazione intersoggettiva e
far emergere i ruoli individuali e un tema di gruppo.


Rappresentazione iconica: in questa fase (30-45 minuti) lo
psicoterapeuta svolge il ruolo di conduttore e la collega assume la posizione
di recorder, mentre i pazienti e gli Io-ausiliari rappresentano, all’interno di
una sand-box appositamente
realizzata, i contenuti individuali (ricordi, sogni, immagini simboliche)
spontaneamente emersi nel riscaldamento, utilizzando i diversi oggetti messi
loro a disposizione (figura 3). Ogni
singola composizione è in parte
assimilabile ad una “foto di scena” psicodrammatica che viene poi
condivisa da ogni paziente con il gruppo e animata attraverso doppiaggi, scambi
di ruolo e soliloqui.

Ma lo spazio di rappresentazione, costituito dalla sand-box o sabbiera, contiene contemporaneamente diverse scene
pronte a prendere vita. Esse occupano, singolarmente e nel loro insieme, un
volume ed una posizione peculiari all’interno di un contenitore dai confini
costanti e condivisi. Tutti questi aspetti promuoveno una possibile lettura
anche sociodrammatica (talora sociometrica) della rappresentazione mediante
sandplay, permettendo talvolta a conduttori e pazienti di vedere riprodotte,
come in una sorta di plastico, le complesse dinamiche intercorrenti tra i vari
ruoli rappresentati nello scenario (es. figura
1
).


figura
1.
Scenario
con rappresentazioni inerenti al tema della condivisione.
Mentre la maggior
parte dei
partecipanti porta immagini positive, perfino stereotipate, una paziente
raffigura,
con un totem
circondato da serpi velenose (in alto a destra), il ricordo di una confidenza
tradita.
Il gruppo
esprime spontaneamente, mediante la distanza dal totem, la difficoltà di far
coesistere
a stretto
contatto vantaggi e rischi dell’apertura all’altro.



Condivisione attiva: è lo spazio deputato all’interazione dinamica
tra le varie composizioni presenti sulla sabbiera. Ogni partecipante può adesso
animare le rappresentazioni proprie e degli altri, manipolando la sabbia,
spostando e aggiungendo oggetti, dando ad essi suoni o parole.   Quando infine la sand-box ritorna quieta, lo scenario è mutato, il conduttore invita
i pazienti a condividere le intenzioni, i dubbi e le emozioni correlati a
quello che è appena accaduto.

In questa fase viene agevolata l’espressione spontanea - dapprima agita
e poi verbalizzata - del complesso di proiezioni ed identificazioni che si
attivano durante il gruppo, stimolando così il processo di mentalizzazione
(Allen, Fonagy, Bateman., 2008).

Al termine, ogni partecipante cerca di trovare un senso a quanto è
avvenuto durante la seduta e lo fa dando un “titolo” significativo all’immagine
che comprende la totalità delle composizioni individuali che hanno interagito
nello spazio della sabbiera.


Durante le fasi di rappresentazione iconica e condivisione attiva, il
conduttore scatta delle foto che, unitamente a quanto appuntato dalla recorder,
costituiranno materiale utile per le osservazioni post-gruppo e periodici
rimandi ai pazienti.

Post-gruppo: I conduttori e gli Io-ausiliari
condividono osservazioni cliniche rispetto ai singoli pazienti, alla dinamica
di gruppo ed al materiale emerso durante la seduta. In questo frangente
risultano particolarmente preziose le osservazioni degli Io-ausiliari, i quali,
durante le fasi precedenti della seduta, condividono a tutti gli effetti il
medesimo lavoro dei pazienti, svolgendo così la duplice funzione di sostegno ed
osservatore privilegiato.


  1. L’Orco sullo Sfondo” : una sessione esemplificativa


Il pre-gruppo della sessione
in oggetto ha luogo al consueto orario (14,00), in un soleggiato mercoledì
estivo, nella sala della musica della
Casa Madre (figura 2).



Figura
2
.   La sala
della musica
della Comunità Il
Porto
di Moncalieri

Figura
3
.  Dettaglio: Camino con oggettistica per sandplay






Iniziamo scambiandoci informazioni sui vari membri del gruppo: in due
mancheranno alla seduta per ragioni organizzative, mentre uno è al mare con la
famiglia; inoltre, due tirocinanti con il ruolo di Io-ausiliare torneranno a
Settembre dalle vacanze. Saranno invece presenti alla sessione Camilla, Paola
(entrambe residenti del’ Unità per disturbi di personalità), Luna e Anselmo
(pazienti esterni in progetto diurno).

Passiamo poi a condividere le impressioni circa il difficile periodo
che, da qualche settimana, coinvolge residenti e staff della Comunità, a causa
dell’aumento di condotte trasgressive ed antisociali (consumo di sostanze,
aggressività verbale e perfino fisica) ad opera di un esiguo numero di pazienti
delle diverse Unità che compongono la Struttura. Quello che più ci colpisce è
la reazione tiepida ed evitante - di cui ci hanno riferito diversi colleghi -
che molti dei residenti, pur non direttamente coinvolti negli episodi
trasgressivi, mostrano a fronte della grave situazione. Anche i partecipanti al
“gruppo delle sabbie”, negli ultimi tempi, ci erano apparsi cauti,
insolitamente poco coinvolti e piuttosto propensi a lasciare fuori dalle sedute
i  temi più scomodi da gestire. Se, sulle
prime, avevamo deciso di non intervenire attivamente, pensando così di
assecondare il bisogno dei pazienti (e forse anche il nostro) di tutelare il
gruppo come “spazio libero e protetto”( Kalff, 1966), dopo poche sedute abbiamo
realizzato di dover fare qualcosa per sciogliere quello che stava diventando
una sorta di irrigidimento difensivo, e un tantino anaffettivo, attorno ad un
ruolo del tipo “nihil sub sole novum”.
Così, conveniamo di incentrare la fase di riscaldamento su temi quali la
consapevolezza, l’espressione e la regolazione delle emozioni, per provare, per
così dire, ad oliare un po’ gli ingranaggi espressivi e vedere cosa ne vien
fuori.

Riscaldamento.
Alle 14,30 circa, poiché le condizioni metereologiche lo consentono, il
“gruppo delle sabbie” inizia all’ombra del boschetto sito ai margini del parco
antistante la Comunità.

Dopo delle brevi “camminate cadenzate” nel viale (esercizio
psicodrammatico consistente nell’esprimere attraverso il ritmo e la postura
della camminata, un particolare stato d’animo; es.: fretta, sconforto,
aspettativa, etc.), proponiamo al gruppo un gioco per cui ognuno dovrà tentare
di riconoscere il maggior numero possibile di espressioni facciali ritratte in
foto (figura 4).



Figura 4. Le sei emozioni primarie
tratte dalla ricerca di
Ekman e
Friesen 1967

  Le
immagini, reperite in rete e mostrate ai pazienti su tablet (potere della tecnologia!), raffigurano sei emozioni
primarie: rabbia, paura, disgusto, stupore, gioia e tristezza. Il gruppo si
lascia subito coinvolgere, divertito, da questa sorta di gara, indovinando a
turno facilmente quasi tutti gli items; salvo per il fatto che, curiosamente,
sia Paola sia Camilla faticano a trovare significative differenze tra le foto
raffiguranti stupore e paura.

Ci allacciamo quindi al gioco successivo: ogni partecipante cerca di
trovare in sé quella, che tra le sei precedenti emozioni basilari, risulta più
accessibile al momento, e la esprime, magari stereotipandola un po’, con il
viso affinché gli altri la possano indovinare. Anche in questo caso, tutti si
dimostrano molto bravi ad azzeccare le espressioni degli altri, ma nessuno si
azzarda a raffigurare il volto della paura
né quello dello stupore.

Chiediamo poi di comporre un tableau
vivant
di gruppo per ognuna delle sei emozioni riconosciute nelle immagini
del primo esercizio, per poi fotografarle e commentarle tutti assieme.
Accade solo allora che,
attraverso un linguaggio somatico e corale, finalmente lo stupore e la paura
trovano un’espressione più fluida e condivisa, permettendo così di contattarle
nella loro complessità:

Camilla dice, quasi tra sé: ”Facendo
la paura ci copriamo tutti gli occhi, facendo lo stupore ci copriamo al bocca”.

Paola risponde: “Io mi sono
tappata le orecchie! Pure quando facevamo la rabbia.”

Anselmo sorride: “Ecco, così
abbiam fatto le tre scimmiette!”

Io-ausiliare: “E’ vero, in certe
foto sembriamo come le tre scimmiette…”

Terapeuta: “Chissà che emozione
esprimono le tre scimmiette?”

Luna, in un sospiro: “La paura…
l’omertà.”

La consegna che diamo per l’ultima parte del riscaldamento è quella di
gironzolare individualmente nel parco, finché non ci si imbatta in qualcosa che
eliciti una delle emozioni primarie; dopo esser stati un po’ in contatto con
l’emozione emersa, si potrà tornare in gruppo per condividerla.

Anselmo: “In mezzo al prato c’era
questo bicchierino di plastica, e mi ha fatto un po’ di rabbia.”

Paola: “Io mi sono immedesimata in
questa pietrolina, che è piccola e triste come me.”

Luna: “I pomodori che maturano nell’orto mi han messo di buon umore.”

Camilla: “Io laggiù ho visto un ragno che mi ha fatto paura e un po’
schifo!”

Io-ausiliare: “Io ho visto una
tartaruga nella fontana. Non l’avevo mai vista e mi ha stupito.”

Rappresentazione
iconica.
Tornati
nella sala della musica, proponiamo che ogni membro del gruppo, ispirandosi ad
una delle emozioni con cui abbiamo giocato finora, lasci emergere
spontaneamente un ricordo, un’immagine o un sogno da rappresentare nella sand-box.

                 
Figura 5. La sand-box e la
rappresentazioni iconiche


Ne risulta una sabbiera nel suo complesso abbastanza spoglia, che
trasmette un senso di vaga inibizione (figura 5). La sabbia non viene
manipolata da nessuno e le singole rappresentazioni iconiche sono semplicemente
composte nella sabbiera, molto distanti l’una dall’altra e con una disposizione
che pare poco spontanea.

A questo punto, come di consueto, il conduttore invita i partecipanti ad
esporre a turno la propria composizione, mentre la recorder osserva attentamente e prende appunti.

Avendo il presente elaborato esclusivamente finalità descrittive, risulterebbe
fuori luogo ed inutilmente prolisso, trascrivere integralmente lo sviluppo
della seduta; cercherò dunque di rendere l’idea dello svolgersi della dinamica
e della tecnica, riportando soltanto alcuni stralci emblematici.

Tre rappresentazioni – quelle di Camilla (in alto a sinistra), di
Anselmo (in basso a destra) e dell’io-ausiliare (in basso a sinistra) –
descrivono ricordi in cui l’emozione dello stupore si trasforma, per diverse
ragioni, in rabbia o disagio. Al centro della sand-box, Luna pone un’immagine di se stessa, triste ma riflessiva.
L’ultima a parlare è Paola (in alto a
destra nella sand-box
).


Paola: “Io ho messo questa
bambolina bionda accovacciata, che si tappa le orecchie con le mani, e un orco
che le grida addosso.”

Conduttore: “Quali emozioni hai
voluto rappresentare così?”

Paola, esitante: “La paura. E’
quando Giovanni (coordinatore dell’Unità per Dist. Di Personalità) mi ha
comunicato la punizione per aver fatto… una trasgressione. Io sono la bambolina
e Giovanni… l’orco.”
(Paola abbozza un sorriso imbarazzato)

Conduttore: “Accipicchia, sembra
che sia stata una comunicazione ‘mostruosa’!”
  Paola: “Sì, mi hanno dato una sospensione.”
 Conduttore: ”Ora, come sempre, hai la possibilità di
dar voce ad uno degli elementi della tua scena: quale scegli?”
  Paola
indica il bastone impugnato dall’orco:
“Io sono il bastone e ti picchierò tutte le volte che mi andrà. Perché posso
farlo!”.
  Conduttore
doppia Paola: “Sono un bastone proprio
pre-potente… Perché faccio così?”
  Paola: “ Perché… perché lei è una bambolina
bionda… e io sono arrabbiata!

Conduttore quasi sotto voce: “Io
farò male, perché sono arrabbiata e lei è una bambolina bionda…”

Paola tace, guarda fissa la sua scena.


Il conduttore commenta dapprima in generale come, in molte situazioni ad
alto contenuto emotivo, possa spesso capitare che un’emozione rimandi ad altre,
forse più profonde o semplicemente scomode, non sempre agevoli da contattare.

  Il
gruppo passa quindi alla fase della condivisione
attiva
, in cui ogni partecipante, se lo ritiene, può interagire
dinamicamente con le rappresentazioni degli altri. Silenziosamente, c’è chi
sposta un pezzo, chi aggiunge un personaggio, tutti tracciano linee sulla
sabbia con le dita (figura 6).


                        
Figura 6. La sand-box dopo la
condivisione attiva.


E’ sempre con un certo pudore che un paziente decide di dialogare con la
staticità iconica di una scena che non è la sua, e talvolta ci impiega
settimane, dal suo ingresso nel gruppo, per autorizzarsi a farlo. Allo stesso
tempo non è per nulla scontata la capacità, da parte di chi si vede manipolare
la propria rappresentazione, in maniera spesso imprevedibile, tollerare la
frustrazione che ne deriva.    Eppure il
gruppo trova sempre il coraggio di modificare almeno un po’ lo scenario, di
interrogarsi e comunicare, di esporsi al desiderio di trasformazione.


Camilla: “Io ho alzato in piedi la
bambolina di Paola, e le ho tolto le mani dalle orecchie… Così com’era, mi dava
fastidio. Non è più una bambina... Poi ho tracciato una strada tra la mia scena
e quella di Anselmo, perché anche a me è capitato di sentirmi bloccata da una
sorpresa che, in realtà, mi soffocava…”
   Anselmo:
Io ho allontanato l’orco, mi metteva ansia, lì. Al suo posto ho messo un uomo
disarmato… Ho anche fatto dei sentieri tra la mia scena e quelle di Camilla e
Paola… Così, mi è venuto di farlo.”
  Paola,
sorridendo, rivolta ad Anselmo: “Ma non
l’hai proprio tolto, è sempre là in agguato (indica l’orco, in alto al centro
della sabbiera).”

Conduttore: “Conosci le regole,
Paola. Non avrebbe potuto, neanche volendo: nessun partecipante al gruppo può
togliere dalla sabbiera ciò che è stato messo da un altro partecipante.”
  Anselmo,
sardonico: “Non so, forse avrei dovuto
seppellirlo?”
 (…)

Luna: “Chi ha tirato su il
cappuccio al mio omino pensieroso?”

Io-ausiliare: “Io. Così può vedere
che adesso c’è una stradina che porta fino alla mia rappresentazione.”
  Paola: “Io ho tolto il topolino di Anselmo dalla
stretta della vipera e l’ho messo in maniera che invece la cavalchi. Ho
tracciato un sentiero da lì alla bambolina perché anche a me piacerebbe essere
capace di cavalcare la vipera, invece di farmi mordere…”


Lo scambio continua ancora per qualche minuto, poi il conduttore chiede
come sempre ai partecipanti di pensare ad un “titolo” da dare alla storia che
anche oggi il gruppo ha raccontato attraverso la sabbiera:

Luna: “Consapevolezze
Costruttive”.

Camilla: “Sentire o non Sentire?”.

Io-ausiliare: “Emozioni
Ambivalenti”.

Anselmo: “Cavalcare la Rabbia”.

Paola: “L’Orco sullo Sfondo”.
Ogni titolo viene trascritto
dalla recorder e, su richiesta del gruppo, eventualmente commentato o chiarito.
Infine, il conduttore prova a dare un rimando conclusivo, sulla base del
materiale raccolto. L’intento non è tanto quello di dare un’interpretazione,
quanto piuttosto fornire una sorta di contenitore accessorio da usare,
all’occorrenza, per ritrovarvi tracce del percorso fatto durante la seduta.

Conduttore: “Oggi abbiamo iniziato
giocando a riconoscere, per così dire, il volto delle emozioni. E abbiamo visto
che non è poi così scontato riuscirci (…) Ma cosa succede quando cerchiamo di
riconoscerle in noi, le emozioni? (…) Allora, per esempio, può capitare di
sentirci stupiti perché qualcuno, che era sparito da tanto tempo, ci fa una
improvvisa telefonata – come nella rappresentazione di Camilla – ma in fondo in
fondo, avvertiamo anche la rabbia e la tristezza per il precedente abbandono.
Oppure ci si sente spaventati - ma anche arrabbiati come un orco - quando
qualcuno è nella posizione di farci ponderare le conseguenze delle nostre
fragilità. Certo è difficile, confusivo, e verrebbe quasi voglia di fare come
le tre scimmiette! O magari caricare un pochino delle nostre emozioni sugli altri
e fare come se fossero loro, anziché nostre.
Ma mi è sembrato che il gruppo abbia spontaneamente proposto
un’alternativa, e cioè costruire sentieri, per poter raggiungere ed essere
raggiunti, riconoscersi o differenziarsi, e infine, forse, capire un po’ meglio
cosa ci succede. (…) ”

  Dopo
aver congedato i pazienti fino alla settimana successiva, ha luogo il post-gruppo, durante il quale
conduttori ed Io-ausiliare visionano le “foto di scena” e condividono pareri
sui percorsi dei singoli nel gruppo nonché del gruppo nel suo insieme. In
questo caso, fra le altre cose, emerge una possibile lettura della dinamica del
gruppo, per la quale il gruppo stesso ha tentato di esprimere i propri vissuti
a fronte di un recente agito trasgressivo da parte di Paola, mentre
quest’ultima fatica un po’ ad assumere in merito un ruolo responsabile. Ci si
ripromette quindi di osservare l’evoluzione di queste dinamiche nelle sessioni
a venire.


3.
Prospettiva teorica e  modello di
riferimento


 La mente umana secondo gli psicodrammatisti
Inglesi
Holmes P. e Karp M. (1991),

3.1 Cenni su una prospettiva fenomenologica e
junghiana
                                                                                                                                      

Non posso affermare, in tutta onestà, di essere più che un modesto ma
appassionato spettatore dei percorsi del pensiero junghiano e fenomenologico
relativi alla psicopatologia, nel loro difficile quanto suggestivo intreccio
fra riflessione filosofica e prassi clinica.
Parimenti non posso negare che tali prospettive, magari nei loro
rudimenti, molto spesso permeino, in maniera talvolta nemmeno tanto
consapevole, la mia pratica professionale, soprattutto per gli aspetti inerenti
all’incontro con il paziente e alla dimensione diagnostica e/o prognostica.


Fin dalla sua fondazione jaspersiana la psicopatologia fenomenologica ha
rappresentato una disciplina “vocata ad interrogarsi sulla varietà, il senso e
la progettualità di mondi antropologici possibili, col compito di ricomporli
per poterli in qualche modo riabitare” (Muscatello, Scudellari 1998).

Già nel 1913 Jaspers scriveva: “Un nuovo orizzonte e una nuova ricchezza
sono sempre lì, pronti per essere acquisiti, ogni volta che, superando i
pregiudizi, si adotta l’atteggiamento fenomenologico. [...] Non ci
accontenteremo più, adesso, di povere categorie ma ci porteremo senza
pregiudizi verso i fenomeni, e là dove ne vedremo uno cercheremo di
rappresentarlo nella sua totalità” (Jaspers, 1913).
Una descrizione fenomenologica
senza pregiudizi presuppone quindi, per Jaspers, una capacità di apertura
elementare all’essenza incontrata, nel rifiuto di ogni spiegazione
aprioristica.

La fenomenologia si pone, da questo vertice osservativo, come un
percorso empirico e descrittivo che respinge la tensione verso la ricerca di
una realtà eidetica e trascendentale, tensione, questa, concepita invece in
qualche modo da Husserl fin dall’inizio.

Infatti, in maniera apparentemente antitetica, la fenomenologia nella
visione husserliana non si esaurisce mai in una semplice riproduzione
dell’esperienza o del vissuto, ma si sviluppa sempre al tempo stesso,  consapevolmente e metodicamente, verso
l’individuazione di una invariante eidetica e di una struttura trascendentale;
queste ultime intese come possibilità di risalire a strutture invarianti del
mondo psicopatologico. Ma la questione focale, come sottolinea Blankenburg
riferendosi a tale approccio, “consiste nel tentativo di accogliere
l’esperienza di un paziente in modo diretto, nel suo manifestarsi, e di
liberarla nella sua struttura
trascendentale (…) Con il concetto di organizzazione
trascendentale
non si vuole intendere alcun costrutto metafisico, bensì
l’insieme delle condizioni di possibilità di una vita in un determinato momento”
(Blankenburg 1971). Secondo questa prospettiva, quindi, la prassi clinica non
ci conduce tanto all’incontro con patologie viventi, quanto con esistenze,
collocate nello spazio e nel tempo, spesso irrigidite attorno ad un ventaglio
ristretto di possibilità di vita.

La psicopatologia fenomenologica, pur tenendo presenti le dicotomie,
soprattutto nel campo delle psicosi (derivabile/inderivabile, delirio/deliroide
ed altre ben note), se ne serve soltanto come di boe galleggianti che fungono
da riferimento alla navigazione clinica (cfr. Muscatello, Scudellar 1998i).
Essa è soprattutto sensibile alle sollecitazioni dei diversi percorsi
esistenziali, declinandosi, come abbiamo visto, come una fenomenologia genetica: “una fenomenologia diacronica che ricostituisca
la storia della vita, e non solo la storia clinica [...] al fine di cogliere
gli snodi strutturali di ciascuna esistenza” (Borgna, 1996).

In questa ottica i concetti (soprattutto quelli psicopatologici) non si
configurano più come rasoi infallibili e risolutivi che tagliano la realtà
clinica nei suoi punti di articolazione, ma piuttosto punto di partenza di
percorsi conoscitivi storicizzati, forse più complessi e faticosi.

Ma complessa e faticosa è l’epoca in cui viviamo, dove l’attribuzione di
senso, che orienta le esperienze individuali e l’incontro con l’altro, appare
essere il problema principale; la scarsa tenuta della concezione di ordine e
disordine come poli conflittuali apre alla considerazione del valore essenziale
della loro dialettica alla vita sociale ed individuale.
    L’approccio “debole” nei confronti degli
assunti nomotetici della psicopatologia (come di altri campi dello scibile) e
soprattutto l’incontro con l’altro da sé quale evento ermeneutico collocato
nello spazio e nel tempo intese come dimensioni empiriche ed esistenziali,
costituiscono un fecondo trait d’union
con un assetto di pensiero analitico.   

Mario Trevi (Trevi, 2000), individua nell’approccio ermeneutico uno
specifico della psicologia analitica junghiana, un elemento che la differenzia
dalle altre "psicologie". In Jung, infatti, è vivo il problema della
presenza ineludibile del soggetto ricercante nell’oggetto della ricerca
psicologica, "dell’interprete nei confronti del testo da interpretare,
riconoscendo che non c’è testo oggettivo, staccato e indifferente
all’interprete, ma che testo diviene qualsiasi testimonianza del mondo della
vita nel momento in cui un interprete l’assume nel suo orizzonte di
senso"(Ibid.).

Il messaggio della psicologia junghiana non è una dottrina, ma
un’apertura, e tale apertura si ripercuote sulla nozione junghiana di simbolo.
Scrive ancora Trevi : " Per Jung la psicologia è un atto di
interpretazione che, restando nell’ambito della storia e della finitudine, fa
arretrare, con altri simboli, i significati dei simboli che altri uomini hanno
costruito nel tentativo di comprendere quell’enigma che è l’uomo stesso. La
psicologia è dunque la continua costruzione di un universo di linguaggio
simbolico, o, per meglio dire, metaforico (il pensiero ricorre subito a
Binswanger 1991 e a Barison 1984, nda) che, mentre non pretende affatto di
esaurire l’enigma attorno a cui si travaglia, lo interpreta via via aderendo ai
limiti e all’intenzione dell’interprete, rispettando la storicità e la concreta
esistenzialità di quest’ultimo. La psicologia è linguaggio metaforico che
schiude di volta in volta un nuovo orizzonte di comprensione e immediatamente
ne riconosce i limiti, permettendo e al contempo appellandosi ad altri
possibili orizzonti di comprensione"(ibid.). Questo sembra tendere al
mutamento radicale del concetto medico di psicoterapia; essendo chiamati,
medico e paziente, ad interrogarsi reciprocamente, a farsi ognuno interprete
dell’altro. Ancora Trevi : "l’uomo è il testo che interpreta il suo
interprete; l’analizzando è il testo che occorre liberare, nell’atto
interpretativo, perché possa, interpretando l’analista, riacquistare ogni sua
originaria libertà interpretativa, che è la stessa possibilità che lo fonda
categorialmente come uomo integro e libero"(ibid.). Mi sembra di poter
ritrovare, in queste parole e in tutta la loro pregnanza di significato, i
concetti di dialogo ermeneutico e di verità ermeneutica, fondativi della
prospettiva teorica e della prassi clinica cui il presente elaborato si
riferisce.

3.2 Modello di riferimento: Psicodramma Analitico
Individuativo


Il termine psicodramma, dal greco psyche e drama (drao: opero, agisco)
nasce negli anni Venti dal pensiero e dall’opera di J.L. Moreno (1889-1974),
psichiatra e sociologo rumeno appassionato di teatro.

Moreno approfondisce percorsi di ricerca e di lavoro teatrale dapprima
in contesti socialmente disagiati e, nel 1921, fonda lo Stegreiftheater, il teatro
della spontaneità
, in cui attori improvvisati recitano episodi della vita
quotidiana. Fu grazie a questa esperienza e, in particolare, attraverso quello
che oggi è conosciuto come “il caso di Barbara” che egli matura le sue
riflessioni circa l’effetto catartico e terapeutico della rappresentazione
psicodrammatica. La scoperta dell’azione catartica, considerata dall’autore di
per sé terapeutica, apre a pieno titolo la strada allo psicodramma propriamente
detto. La catarsi diviene centrale nell’impianto concettuale di  Moreno, intesa (in riferimento alla visione
aristotelica enunciata nella Poetica)
come la possibilità di “liberare l’animo da siffatte passioni”. Ancelin
Schutzemberger osserva il processo catartico che avviene nello psicodramma come
una “libertà di espressione che permette di rivelare tendenze ignorate, mobilitare
ciò che era statico prendendone perciò coscienza, divenendo più accessibili al
cambiamento ed a nuovi ruoli”. Ciò, per l’Autrice alsaziana, è strettamente
collegato al poter comunicare le emozioni anche negative al gruppo, “sì da emettere in consonanza il proprio
essere in sé, essere per sé ed essere per gli altri
” (Schutzemberger,
1972).
Moreno usa la catarsi in senso
assoluto senza considerare il problema delle difese e delle resistenze;
l’accento è sull’attore, sull’esternazione dei suoi fantasmi interiori. Lo
scopo dello psicodramma moreniano non è quindi l’analisi dei conflitti, ma la
trasformazione degli stessi, che porta alla scoperta di nuovi significati
attraverso l’esperienza agita. Egli tentò di sistematizzare una teoria e definì
lo psicodramma come “la scienza che esplora la verità con metodi drammatici”
attraverso la “spontaneità e la creatività”.(Moreno, 1946-53)

Centrale diviene il concetto di ruolo, legato alla possibilità e alla
varietà di “parti e relativi copioni” che la persona acquisisce e interpreta
nel corso della propria esistenza. La personalità viene dunque teorizzata come
costituita da un insieme di ruoli, e la patologia può nascere nel momento in
cui tali ruoli diventano rigidi e incapaci di rispondere spontaneamente alle istanze
interne ed esterne.

Lo psicodramma classico ha fornito spunti teorici ricchi e stimolanti
che con il passare del tempo sono stati sistematizzati dalle differenti scuole
di formazione. Allo stato attuale esistono vari approcci allo Psicodramma, con
differenti regole e modalità esecutive-interpretative; tra di essi, lo Psicodramma Analitico Individuativo
(PAI) è quello sul quale mi sono maggiormente formato e sperimentato negli
ultimi anni.

Questo particolare modello di psicodramma, in quanto analitico, si pone l’obiettivo di elevare chi lo pratica ad una migliore
comprensione del suo essere attuale attraverso la consapevolizzazione delle
radici storiche, personali e transpersonali, che ne sono alla base. Si propone
altresì di far emergere le parti non integrate nel complesso dell’Io (ruoli
interni o complessi autonomi) e portarle a dialogare con la coscienza. In
quanto individuativo, ha la finalità
di sviluppare le possibilità di vita (vedi
supra), integrare le funzioni parziali e gli aspetti della psiche verso la
prospettiva di una sintesi futura nel senso dell’attualizzazione del Selbst junghiano (cfr. Gasca 2003),
realizzando il significato unico ed irripetibile della propria esistenza: in
termini moreniani, divenire autore e regista del dramma della propria vita.

Uno dei tratti specifici che caratterizzano lo psicodramma analitico
rispetto ad altri modelli è lo svilupparsi del discorso del gruppo attraverso
la costante dialettica tra due piani: quello dell’espressione verbale e quello
della presentificazione drammatica. La narrazione verbale di un membro del
gruppo o del gruppo nel suo insieme attorno ad un evento, questione, conflitto
o sintomo viene costantemente riportata alla rappresentazione, col metodo
drammatico, di una scena concreta, riferibile ad un tempo e ad uno spazio
determinati della storia di uno dei presenti. Tutti questi aspetti evocano a
loro volta sentimenti, ricordi, considerazioni, associazioni negli altri
presenti, da cui scaturiranno le scene successive. Ciascuna scena drammatizzata
costituisce, per così dire, un punto focale per mezzo del quale vengono
evidenziati sempre nuovi aspetti della rete di significati, rapporti,
possibilità che continuamente si intesse tra i partecipanti, dentro di essi ed
attraverso di essi. Il gioco drammatico “attivando sia il registro delle
percezioni dei sensi che quello del corpo, sviluppa l’incisività delle
intuizioni conoscitive. Esse successivamente al loro accesso alla coscienza,
possono diventare strumenti di conoscenza della realtà interna ed esterna  e tradursi in progetti trasformativi
sperimentabili in altri contesti di vita. Solo sostenendo un dialogo continuo e
fluido con l’inconscio e la dimensione immaginale dei ruoli che esso ci
propone, possiamo acquisire la capacità e la libertà di sviluppare le funzioni
rimaste in arretrato e integrare le istanze personali differenti in
configurazioni originali, muovendoci in uno spazio ambiguo e equivoco, il mondo
dei simboli, al di là dell’asservimento a insegnamenti certi e/o modelli forti”
(Druetta, 1995).

In una seduta di psicodramma analitico individuativo, la
rappresentazione drammatica apre alla possibilità, per il protagonista del
gioco e per il gruppo stesso, di rapportarsi a momenti della propria
esperienza, in modo critico ed esplorativo, riattivando la tendenza a
sviluppare quelle parti di sé rimaste cristallizzate e opache. Non
rappresentandosi più se stesso e le relazioni con gli altri determinate da
schemi rigidi, ma dotati di possibilità di creare significato e direzione al
proprio agire, si attiva dunque un processo di differenziazione e di sintesi in
cui le diverse istanze personali acquistano una vita autonoma, “diventa così
possibile identificarsi con gli altri mantenendo il senso della propria
identità”. (Gasca,1992).

Questo è reso possibile attraverso la ricostruzione storica di come i
ruoli, con relative implicazioni dinamiche, si sono costituiti. Essi in genere
appaiono identici o complementari ai ruoli di persone significative nella
storia passata. Risultano essersi strutturati non attraverso un meccanismo di
introiezione, ma grazie all’interazione con tali persone nel mondo reale, con
le loro rappresentazioni del mondo fantastico, con il prodursi di una  risposta nuova e creativa a situazioni
implicanti conflitti, tensioni e staticità.

Inoltre, il lavoro di rendere esplicito il proprio agire avviene dando
voce a parti di sé non riconosciute perché non coerenti e non integrabili al
proprio modello cosciente, o ancora perché non sufficientemente differenziate e
sperimentate. Rendendo esplicito e visibile, attraverso le tecniche
psicodrammatiche, il modo in cui le situazioni si sono sclerotizzate, si può
rendere reversibile l’assimilazione di partenza, creando così le condizioni per
il cambiamento.

L’idea è  che la struttura
dinamica della personalità possa venir modificata dal rapportarsi a parti di sé
non riconosciute e non integrate. Tali parti, mediante la personificazione nel
gioco psicodrammatico, instaurano un rapporto dialettico tra loro e con il
complesso dell’Io, attraverso le scene. Esse, pur essendo solo rappresentazioni
rispetto alla  realtà obiettiva, sono
però reali esperienze nell’ambito delle dinamiche interiori e possono proprio
per questo apportare reali modificazioni negli equilibri tra le parti interne.

Lo psicodramma analitico individuativo, dunque, attiva quella che Jung
definisce funzione trascendente: ”quella funzione complessa che, composta di
altre funzioni della psiche, non si identifica con alcune di esse, né con la
loro somma, ma promuove il passaggio da un atteggiamento ad un altro, superando
fratture, scissioni e antitesi tra inconscio e coscienza, creando un contenuto
nuovo capace di incanalare le tendenze in contrasto in un alveo comune.”
(Gasca, 1995).


Un altro concetto fondamentale, fino a qui soltanto accennato, per la
comprensione del modello psicodrammatico analitico è quello di ruolo. L’unità strutturale e dinamica
evidenziata dal gioco drammatico, in cui confluiscono, come tanti elementi
parziali, codici verbali, concettuali e codici espressi da sequenze di immagini
o di azioni, è chiamata in gergo psicodrammatico il ruolo: “funzione che integra, coordina ed articola
l’insieme di modalità attraverso cui un individuo si rapporta ad una data
classe di situazioni e di contesti”
(Gasca, Gassau 1992).

Rispetto al mondo esterno i ruoli strutturano il modo in cui ciascuno
interpreta quello che percepisce e come interagisce con esso. Rispetto al mondo
interno i ruoli sviluppati da ciascuno nel corso di precedenti relazioni con
altre persone, nonché in egli stesso presenti come modelli comprensibili
dell’agire proprio e altrui organizzato, possono interagire tra loro e
presentarsi alla coscienza; questo ad esempio avviene nei sogni, attraverso un
vero e proprio teatro interiore. Il sogno, nell’ottica junghiana, viene infatti
considerato come un “teatro in cui chi
sogna è scena, attore, suggeritore, regista, autore, pubblico e critico insieme

nel quale le “figure del sogno sono
tratti personificati della personalità di chi sogna
” (Jung 1916-1948).

Secondo tale vertice osservativo, ripreso e sviluppato poi da Hillman
(1985), non solo il sogno, ma anche le rappresentazioni interiori di tutto
quello che si muove nell’inconscio possono essere compresi, per così dire, dal
di dentro, attraverso una logica teatrale.

Così anche le dinamiche latenti del gruppo possono concretizzarsi in una
scena, che essendo assimilabile ad una scena teatrale, viene recitata
assegnando le parti ai diversi membri del gruppo stesso, facendo rivivere ad
ognuno emozioni e sensazioni fisiche. Inoltre, l’assegnazione dei ruoli disvela
la rete di proiezioni ed intuizioni dei protagonisti. Vedersi attribuiti dalle
dinamiche del gruppo certi ruoli prevalenti spesso aiuta ciascuno a comprendere
meglio i ruoli che assume o si fa attribuire nella vita. Si può prendere
coscienza di portare con sé un determinato ruolo senza rendersene conto e
questa comprensione può aiutare l’individuo a sperimentare la possibilità di
assumere altri ruoli. I ruoli costituiscono cioè dei veri e propri mediatori
sia tra il mondo interiore e quello esterno, sia tra i molteplici aspetti e
livelli di struttura ed integrazione presenti in ciascuno dei due mondi.

Il livello più superficiale di analisi di ogni drammatizzazione ha
origine dal confronto diretto attraverso la molteplicità di codici attivati da
ciascuno dei membri del gruppo. Le modalità attraverso le quali protagonista,
Io-ausiliari e spettatori agiscono e percepiscono la situazione, nelle diverse
versioni della stessa scena dovute al cambio dei ruoli degli attori,
introducono una pluralità di punti di vista alternativi. Questi permettono di
esaminare l’evento in relazione ai suoi differenti significati possibili e agli
affetti da esso evocati.

Ma la dinamica che si attiva durante una sessione psicodrammatica si può
leggere ad un livello più complesso e profondo, noto come teoria dei ruoli: un esame accurato di quanto emerge in ciascun
gruppo per un certo tratto di tempo evidenzia infatti una triplice
corrispondenza. Da un lato, nel gruppo ciascuno dei presenti assume e/o
attribuisce agli altri dei ruoli attuali
o somatici
, sia nel modo di porsi ed interagire, sia attraverso le immagini
che, col raccontare o drammatizzare certe parti di sé, induce nel gruppo.

Contemporaneamente, la rete di ruoli attuali rispecchia e viene
rispecchiata dalla rete di consapevoli
ruoli del passato o sociali
, propri e altrui, che ha costituito le
relazioni della storia personale di ciascuno.

La prima e la seconda rete di ruoli interpersonali, inoltre, si riflettono
e corrispondono alla rete di ruoli
interni o immaginali
di ciascun partecipante. Questi possono essere intesi
sia come parti di sé, non assunte nel rapportarsi al mondo esterno, e talora
attribuite ad altri, ma non riconosciute come proprie, o ancora come complessi
autonomi o come funzioni o istanze strutturanti la psiche, quali sono
nell’ottica junghiana l’ombra e l’animus.

La scena giocata costituisce per così dire tutto quello che mette a
fuoco le relazioni tra tali tre polarità: il qui ed ora dello strutturarsi del
gruppo, emerso attraverso le scelte effettuate da ciascuno. Il formarsi degli
attuali modi di essere (interpersonali o intrapersonali) può, attraverso il
succedersi dei giochi evocati, venire ricostruito storicamente dal precipitare,
combinarsi e cristallizzarsi di ruoli propri o altrui presentatisi nel corso
dell’esistenza passata e, al tempo stesso, tale storia passata, ricollocata dal
gioco nell’orizzonte del presente, viene per così dire illuminata da una nuova
luce. I ruoli interni o intrapersonali poi si evidenziano attraverso le scene
proposte, principalmente quelle riguardanti i sogni, ma anche scene della
realtà diurna in quanto i ruoli intrapersonali determinano il modo in cui
ognuno vede, capisce, interpreta le altre persone per lui significative.
I ruoli intrapersonali sono così
attribuiti ad altri fuori di sé: personaggi della storia passata evocati e
membri del gruppo chiamati a rappresentarli. Nella serie di giochi
psicodrammatici il protagonista se ne riappropria, riconoscendoli come parti
proprie, attraverso il cambio dei ruoli o immedesimandosi nelle parti che, a
loro volta, altri membri del gruppo gli attribuiscono.

                                     
Figura 7. Modello del Triandolo
PAI (Giulio Gasca, 1992)


Quanto detto fin qui, riguardo il modello interpretativo della scena
nello Psicodramma Analitico Individuativo, si può ben rappresentare attraverso
lo schema triangolare qui sopra (fig.7).

Il vertice superiore indica le dinamiche di gruppo che possono anche
venir viste come i ruoli che ciascun membro assume in relazione a quelli che
attribuisce agli altri. Tali ruoli si esplicitano sia nell'interazione diretta,
sia mediante la narrazione e la drammatizzazione di specifici episodi della
vita di ognuno, sia ancora con lo stile con cui i membri del gruppo impersonano
i ruoli che vengono chiamati a rappresentare nelle scene portate da altri
partecipanti.

Il vertice inferiore destro rappresenta i vari ruoli che ciascuno ha
avuto nella sua storia passata o che hanno avuto persone per lui significative.
Le frecce che uniscono i due vertici rappresentano rispettivamente lo
strutturarsi dei ruoli assunti qui ed ora in gruppo col sommarsi, fondersi e
modularsi, per essere adeguate alle nuove situazioni, delle esperienze passate,
e il riemergere di ricordi attivati dalle particolari dinamiche del gruppo
terapeutico.

Il vertice inferiore sinistro si riferisce ai ruoli intrapsichici
(funzioni, modelli interiori, complessi autonomi) spesso rappresentati dai
personaggi dei sogni, delle fantasie e dei deliri. “Tali nostri ruoli interni
strutturano il mondo interiore, dando un senso al caotico fluire di
rappresentazioni, immagini e impulsi, allo stesso modo in cui i ruoli esterni
strutturano i percetti del mondo circostante in una realtà, dotata di
significato e costituita da relazioni interpersonali (Gasca, ….).

Le frecce a doppio senso del lato inferiore stanno ad indicare che tali
parti interiori si costituiscono prendendo a modello particolari aspetti di
persone incontrate nel mondo esterno e, a loro volta, attraverso un processo di
proiezioni e assimilazione, influenzano il modo in cui vediamo tali persone. La
stessa relazione biunivoca intercorre, come indicato dallo schema, tra ruoli
interni attivati dalla dinamica del gruppo in ciascun membro e ruoli
assunti/attribuiti di volta in volta nel gruppo stesso.










4.
Sintesi di tecnica psicodrammatica, sociodramma e metodica sandplay




4.1
Tecniche psicodrammatiche


Lo sviluppo del modello sopra esposto ha dato vita a tecniche di
conduzione della sessione e della rappresentazione scenica (vero fondamento
tecnico dello psicodramma) troppo varie e complesse per essere esposte
esaurientemente in questa sede. Tenterò comunque di sintetizzare alcuni aspetti
basilari delle tecniche più diffuse:
1)  
Il doppiaggio,
ad opera del conduttore, serve per rinforzare la struttura del ruolo di cui si
sta occupando, per introdurre aspetti esclusi (funzione inferiore), sostenere un’apertura evolutiva, avviare una
possibile integrazione della funzione soggettiva.
2)  
Il cambio
di ruolo
, finalizzato ad esplicitare la relazione (tipologia e qualità) tra
le parti interne del protagonista.
3)  
La sequenza
di scene dello stesso protagonista
, mediante cui si dà voce ai contenuti
inconsci, amplificando intuitivamente il tema profondo che cattura il
protagonista stesso.
4)  
L’articolazione
di scene di più protagonisti
, finalizzata allo sviluppo ed
all’attualizzazione delle dinamiche proiettive del gruppo, nonché alla
costruzione della costellazione delle funzioni interne, attive nel gruppo in un
dato momento, e loro elaborazione attraverso le immagini drammatizzate.
5)  
Le scene
virtuali
e transgenerazionali,
che offrono aperture verso contenuti interni resi quasi inaccessibili da
sedimentazioni inconsce che spesso continuano ad agire e direzionare scelte
affettive e orientamenti culturali.
6)  
Il doppio
è un ruolo di solito assolto dal conduttore o da un altro membro del gruppo che
sperimenta un forte senso di identificazione con il protagonista, e consiste
nell´affiancarsi a lui movendosi e comportandosi in modo molto simile. È una
tecnica che risponde a bisogni simili a quelli cui assolve il ruolo materno nei
primi mesi di vita: amplificare e dare risonanza a emozioni e bisogni ancora
troppo poco differenziati per potersi esprimere da soli. Il doppio dunque serve
ad intensificare e migliorare l´azione del protagonista e, spesso, aggiunge ad
essa nuove dimensioni, dando voce a tutto quello che il soggetto non riesce ad
esprimere.
7)  
Il soliloquio
è una tecnica che permette al protagonista di esprimere liberamente i suoi
pensieri, le sue emozioni e le sue impressioni, così come gli vengono in mente
e senza essere interrotto. Può essere utilizzata per fare
un´autopresentazione, la presentazione di un´altra persona, la descrizione di
una situazione, di un sogno o di un’immagine. Più spesso, però, il soliloquio
serve a rendere manifeste al protagonista e al gruppo emozioni che l´azione
psicodrammatica cela, agevolando la focalizzazione e l’assunzione di ruolo.
8)  
Lo specchio
è una tecnica che consiste nel realizzare una specie di controfigura del
soggetto e nel farla recitare al suo posto. In questo modo il protagonista può
rendersi conto dell´immagine che da di sé al gruppo, e quindi al mondo esterno.
Anche qui sono fondamentali le reazioni del soggetto al conduttore o all´io
ausiliario che funge da specchio.

4.2
Il sociodramma


Strumento specifico messo a punto da Moreno, il sociodramma si
caratterizza per avere come oggetto precipuo di attenzione il gruppo, considerato “nelle sue
dimensioni culturali, simboliche e di relazione tra i diversi ruoli presenti
nel gruppo stesso” (Dotti 2002). Pur mantenendo saldi i principi e le tecniche
proprie della metodologia psicodrammatica, l'intervento si orienta a dar spazio
ai ruoli collettivi e quindi
appartenenti al mondo sociale dell’individuo.

“La prospettiva sociodrammatica - dice P.Kellermann – è basata sulla
funzione generalizzatrice delle persone, descritta dettagliatamente dalla
psicologia della Gestalt. Vede il cervello come un’entità olistica,
auto-organizzante e formativa che rende le persone capaci di riconoscere figure
e forme intere piuttosto che come un insieme di linee e curve (…). Similmente
la narrativa sociodrammatica è sviluppata gradualmente in modo che riusciamo a
riconoscere alcune fra le tante relazioni tra i singoli eventi e a collegarle
in una unità coerente.” (Kellermann, 2007).

Si possono distinguere due livelli operativi di sociodramma: il
sociodramma come intervento sui ruoli collettivi, e il sociodramma come
intervento sul conflitto nodale del gruppo.

Il sociodramma come intervento sui
ruoli collettivi
è il classico sociodramma, così come è stato formulato da
Moreno (Moreno 1964). È un tipo di intervento che non si rivolge
necessariamente a gruppi precostituiti ma che si rivela efficace anche con
gruppi molto ampi. La condizione basilare di tale intervento è che il gruppo
sia accomunato da un interesse, da un obiettivo, o da una particolare
condizione sociale. Oggetto di lavoro ed indagine sono, infatti, gli aspetti
collettivi e culturalizzati dei ruoli, le ideologie e gli stereotipi sociali, e
le dinamiche relazionali del gruppo cui si rivolge. I vissuti personali entrano
nel sociodramma solo come variazione individuale, e quindi arricchimento, del
ruolo collettivo e cristallizzato.

Il lavoro si apre con una fase iniziale di riscaldamento finalizzata
all´emergere dei ruoli collettivi critici e dei temi di maggior interesse per
il gruppo in questione. A questa fase segue la rappresentazione, che sarà svolta
da una equipe di Io-ausiliari e dai partecipanti volontari; l´elaborazione
della scena segue le modalità psicodrammatiche (inversione di ruolo, doppio,
specchio, eccetera), favorendo la condivisione e la trasformazione del
materiale da parte del gruppo, e così il cambiamento.

Il sociodramma, così formulato, si è dimostrato un utile strumento anche
di formazione per grandi gruppi istituzionali. Tale metodica agevola nella
riflessione e nel confronto su tematiche importanti, nella maggior comprensione
delle dinamiche interne al gruppo stesso o tra gruppi diversi, e, infine, nella
sperimentazione e nell´apprendimento di modalità relazionali più adeguate, ai
fini di una convivenza pacifica e produttiva. Moreno lo riteneva
particolarmente utile per trattare i conflitti interculturali e come strumento
di ricerca antropologica. Oggi viene applicato in quasi tutti i campi, sia con
finalità diagnostiche che formative, ma anche come strumento di
sensibilizzazione sociale.

Il sociodramma come intervento sul
conflitto nodale del gruppo
, invece, deriva principalmente dalle
formulazioni e dalle esperienze degli psicodrammatisti della scuola argentina
(Pichon-Rivière,1985). In questo caso l´intervento è centrato sui vincoli
esistenti nei gruppi naturali (coppie, famiglie, comunità) e nei gruppi
strumentali (gruppi di lavoro, di apprendimento, etc.). Oggetto del sociodramma
sono i ruoli sociali sottostanti allo sviluppo e alle attività del gruppo, e
l´obiettivo è quello di rendere manifesti le dinamiche interne e gli eventuali
conflitti.

4.3 La sandplay therapy

  La
terapia con il gioco della sabbia è
frutto della ricerca clinica e dell’intuizione della psicologa svizzera Dora
Kalff (1904-1989), allieva di Carl Gustav Jung, e può inserirsi a pieno titolo
nel solco della Psicologia Analitica. La sandplay therapy è una metodica di
psicoterapia analitica che utilizza le risorse creative dell’individuo,
integrando il lavoro verbale con la produzione di immagini nei quadri di sabbia
che permettono di contattare ed elaborare tematiche conflittuali arcaiche.

Tale metodica utilizza come materiale una cassetta, contenente della
sabbia e numerosi oggetti. Nello spazio della sabbiera (sand-box) il paziente
ha la possibilità di rappresentare non solo contenuti inconsci della sua vita
personale, ma anche immagini riconducibili alle predisposizioni archetipiche
primordiali teorizzate da Jung. Il vassoio di sabbia si pone come spazio libero
e protetto all’interno del quale, dal confronto con gli elementi inconsci
personali e transpersonali che possono trovarvi rappresentazione, scaturisce un
processo di trasformazione psichica e
uno sviluppo più armonico della personalità, in linea con le
potenzialità dell’individuo.   Seguendo
gli scenari che emergono dal paziente, il terapeuta facilita il confronto tra
coscienza ed inconscio, favorisce l’integrazione psichica e il recupero del
rapporto con il Sé individuale originario.

La sandplay therapy fornisce un linguaggio simbolico anche a chi non ha
parole per esprimere il proprio malessere, consentendo di rappresentare il
mondo interno così come si è costellato. In questo modo, l’attività creatrice
dell’immaginazione strappa l’uomo ai vincoli che lo imprigionano nel
“nient’altro che”, elevandolo al ruolo di colui che gioca.

Lo stesso Jung enfatizza il ruolo creativo del gioco e
dell'immaginazione: " ... tutto il lavoro umano trae origine dalla
fantasia creativa, dall'immaginazione; come potremmo averne una bassa opinione?
Inoltre la fantasia normalmente non si smarrisce; profondamente e intimamente
legata com'è alla radice degli istinti umani e animali, ritrova sempre, in modo
sorprendente la via. L'attività creatrice dell'immaginazione strappa l'uomo ai
vincoli che l'imprigionano al nient'altro che, elevandolo allo stato di colui
che gioca. E l'uomo, come dice Shiller, è
totalmente uomo solo là dove gioca
. L'effetto al quale io miro è di
produrre uno stato psichico nel quale il paziente cominci a sperimentare con la
sua natura uno stato di fluidità, mutamento e divenire, in cui nulla è eternamente
fissato e pietrificato senza speranza" (Jung, 1959).

Francesco Montecchi sostiene che “il quadro che scaturisce dal
"gioco" viene utilizzato alla stessa stregua di un sogno o di una
fantasia, diversificandosi da questi per la tridimensionalità della scena”
(Montecchi 1983). Ed è la stessa Dora Kalff a rilevare l’attinenza tra la
metodica della sandplay therapy e lo psicodramma: “Un problema inconscio viene
recitato come un dramma nell'ambito
della cassetta della sabbia. Il conflitto viene trasposto dal mondo interno
all'esterno, e reso visibile.  Si tratta
qui della esperienza di vita del simbolo in uno spazio protetto” (Kalff, 1974.
Il corsivo è mio).


5.
Conclusioni: la funzione dei gruppi di realtà e dei gruppi di espressione
analogica nelle istituzioni terapeutiche e riabilitative

  Dopo aver riflettuto ed esposto sulla pratica
attuale, la teoria e la tecnica della drammatizzazione iconica in quanto
particolare dispositivo in uso nel “gruppo delle sabbie”, vorrei concludere il
presente elaborato provando a rispondere ad una domanda sulla quale - pur nella
sua spietata semplicità - credo ogni collega, che abbia avuto la fortunata
avventura di sperimentarsi nella clinica, si sia dovuto quotidianamente
interrogare: A che cosa serve? Ed in particolare, a cosa serve in una comunità
terapeutica ?
  Giulio Gasca rileva come, in moltissimi
luoghi deputati alla cura e riabilitazione di pazienti psichiatrici, si corra
il rischio di riprodurre quelle stesse dinamiche cronificanti (progressivo
stereotipizzarsi dei momenti relazionali, impoverirsi dei rapporti umani, la
spersonalizzazione degli individui trattati come oggetti tutti identici tra
loro) che determinavano la cosiddetta sindrome del paziente lungodegente
istituzionalizzato, e che la psichiatria basagliana dei decenni scorsi, con
un'analisi forse un po' semplicistica, faceva dipendere dall'istituzione
totale, espressione di una società gretta ed espulsiva (cfr. Gasca et al.
1999). Eppure oggi, a più di un trentennio di distanza, spesso si possono osservare
analoghi meccanismi, non solo in istituzioni tutt’altro che repressive ed
escludenti (alloggi protetti, comunità terapeutiche, centri diurni, etc.), ma
anche nell'alto grado di rigidità, stereotipia dei ruoli e immobilità
resistente al cambiamento proprio delle famiglie in cui i Servizi territoriali
sono riusciti a mantenere i pazienti stessi, talvolta grazie ad un'assidua
assistenza domiciliare.
  Una possibile
spiegazione si ritrova nella teoria psicopatologica - curiosamente al contempo
di sapore fenomenologico ed organicistico
-, che interpreta la schizofrenia ed alcuni gravi disturbi di
personalità come il manifestarsi, a livello del singolo individuo e
dell'immediato intorno relazionale, di una “insufficiente capacità (determinata
da diversi fattori biologici, psicologici, socio-culturali) di integrare nuovi
stimoli complessi in un sistema fluido, differenziato, capace di adattamento”.
Il sistema intrapsichico del paziente psichiatrico grave, come il sistema
interpersonale che con lui interagisce, oscilla perciò “tra situazioni
caotiche, in cui è possibile qualsiasi collegamento, senso, interpretazione
degli eventi, e situazioni rigide in cui un modello, dato una volta per tutte,
esclude il nuovo, il diverso”(Gasca 1999).
  Quello
che viene a mancare quindi è una sorta di spazio transazionale, un
elemento intermedio tra rigidità e caos, per così dire, tra la posizione di una medesima risposta per tutte le domante
del mondo
e quella del tutte le
risposte del mondo per una medesima domanda.
  Ecco allora che può essere utile uno schema
interpretativo del funzionamento dei gruppi terapeutici nelle istituzioni, che
li renda fattori specificamente atti a modificare la patologia caotico-rigida
che tanto spesso si riscontra fra i pazienti: quello della funzione dei segni e dei simboli.
  Il segno, riprendendo una definizione dalla
psicologia analitica (Jung, I tipi psicologici Opere Vol IV 1921), consiste in
un significante che designa qualcosa di completamente noto. Al contrario il
simbolo è un significante che rappresenta la migliore espressione possibile di
un dato di fatto ancora non del tutto conosciuto negli elementi essenziali.
Esso esprime la tensione ad una sintesi tra elementi incongruenti e
contraddittori legati a punti di vista parziali, sintesi che non può ancora
venir espressa in termini consapevoli e razionali.
  In quest’ottica diremmo che le psicopatologie
più acute, in primis la schizofrenia,
paiono caratterizzate dal fatto che i segni si depotenziano nella loro funzione
di segni. Allora il paziente fatica a valutare quale aspetto di una situazione
complessa sia rilevante rispetto allo specifico contesto in cui si muove; sul
piano logico, affettivo e del comportamento, ogni percetto e/o concetto vengono
afferrati da molteplici riferimenti contraddittori (vedi pensiero iperinclusivo di Cameron, 1939) fino a sfociare in una
diffusa ed angosciante confusione.
  Si può facilmente intuire che tale uso,
inefficace ed impropriamente simbolico, del segno è quello che si riscontra
tipicamente nei messaggi a doppio legame.
  Ancora Gasca (1999) fornisce un’interessante
lettura, nei termini della teoria dei ruoli alla base dello psicodramma
analitico individuativo, della natura del messaggio a doppio legame: “…vengono
formulate due o più richieste di "essere" in ruoli tra loro
incompatibili: tali richieste sono rigide, secondo la modalità che più avanti
descriveremo come progettualità cristallizzata, una progettualità incapace di
andare oltre il frammento del presente, di rendersi flessibile per articolarsi
e integrarsi in situazioni più complesse. In pratica colui che esprime il
messaggio doppio legame giustappone, senza essere capace di confrontarli, due
frammenti di ruolo incompatibili tra loro, ma senza essere in grado di
comprendere la loro incompatibilità. Questo aspetto genera un'incoerenza cioè
una situazione caotica, rispetto ai ruoli complementari con cui chi riceve il
messaggio dovrebbe rispondergli. Nel tipico doppio legame non è che il genitore
o il figlio vogliano evitare un conflitto (come avviene nella dissociazione e
nell'ambivalenza isterica ove due atteggiamenti opposti incompatibili non si
vogliono portare alla coscienza assieme: l'isterico è però in grado di
esprimere questa modalità nel suo linguaggio inconscio come dimostra il suo
comportamento finalistico e perciò evita il conflitto). Al contrario lo
schizofrenico (e il genitore schizofrenogenico, che è spesso a sua volta uno
schizofrenico compensato) non dispone di un linguaggio, nemmeno inconscio,
capace di esplicitare adeguatamente il conflitto: ne nasce la dissociazione
schizofrenica che non consiste nell'escludere opposti incompatibili, ma nella
carenza di legami associativi (sarebbe meglio dire logico-programmatici), per
cui aspetti obiettivamente incompatibili vengono insensibilmente mescolati.”
  Sono proprio l’angoscia ed il disagio
derivanti dall’essere in continuazione gettato nel guazzabuglio indistricabile
delle molteplicità interpretative del mondo e di se stesso, che spingono
progressivamente il paziente a sclerotizzarsi attorno a schemi stereotipati e
riduttivi, difensivamente avulsi da ogni ambiguità e complessità. In questo,
potremmo dire, consiste il passaggio dalla fase acuta alla cronicizzazione:
l’inattendibilità della funzione del segno che conduce a perdere la funzione
del simbolo.
  Nei termini della teoria dei ruoli (vedi supra Par.3.2), accanto alla dimensione
somatica, ciascun ruolo presuppone una dimensione sociale e una dimensione
immaginale. Quella sociale attiene
all'insieme di modalità di comportamento, aspettative e norme convalidate
consensualmente, che permettono un'interazione coerente con il collettivo: si
può pertanto dire che corrisponda al concetto di segno. D’altro canto, la dimensione immaginale rimanda alla pluralità di significati che l'immagine del
ruolo può assumere nel mondo interiore del protagonista ed è collegata col
mondo della trascendenza in senso fenomenologico, della creatività, della
ricerca di un senso: in altre parole, il concetto di simbolo.
Dunque
se, come detto, in molte forme acute di psicosi la dimensione sociale dei ruoli
del paziente va rarefacendosi, mentre la dimensione immaginale si fa via via
più invasiva e totalizzante, nelle stesse psicopatologie croniche (o
cronicizzate) è la dimensione immaginale a sfumare progressivamente, per essere
soppiantata da una socialità ipersemplificata, ridotta cioè ad alcuni ruoli
poveri e stereotipati, esenti da contraddizioni, oppure alla rigida dimensione
sociale di ruoli adattati alla pseudocomunità
paranoide
(Cameron, Magaret 1962) che, semplificando il suo pensiero
iperinclusivo con l'esclusione del confronto con la realtà, il paziente si è
costruito attorno.
  Dati questi presupposti, i messaggi a doppio
legame si configurano quale espressione, a livello familiare, di ruoli inizialmente
invasi da una dimensione immaginale irrealistica - il Paterno, il Materno, Il
Figlio Idealizzato, come ruoli commisti di aspetti contraddittori - e
successivamente riportati a una dimensione pseudo-sociale stereotipata e
riduttiva. Sfumata così la funzione simbolica, e con essa la capacità di
accettare la fantasia e l'ambiguità come distinte dalla realtà, ma anche come
suggeritrici di nuove soluzioni sperimentabili nella realtà stessa, il sistema
familiare e quello intrapsichico del paziente divengono del tutto incapaci di
elaborare sia il messaggio a doppio legame, che le tensioni e le aspirazioni
che l'hanno generato.
 
  Sulla base di tutte queste premesse, nonché
delle mie personali osservazioni cliniche, si possono distinguere, per
funzionamento ed obbiettivi specifici, due tipologie di gruppi terapeutici che
risultano particolarmente adatti ed incisivi nei luoghi di cura per pazienti
psichiatrici (cfr. Gasca 1989).
  Una tipologia è costituita dalle riunioni che agiscono a livello di realtà
concreta (borse lavoro, preparazione del pranzo, attività sportive, assemblee
organizzative, etc.). In tali riunioni inizialmente si richiede ai partecipanti
un impegno estremamente semplice, pragmatico e verificabile in termini di
risultati immediati. In questo modo, ai segni viene restituita la funzione di
segni, mediante la predisposizione di un contesto privo di complessità e
ambiguità, in cui i pazienti, a partire dalla dimensione somatica possono
recuperare la dimensione sociale dei propri ruoli. Operatori esperti e ben
formati potranno quindi fare in modo che la dimensione segnica e sociale si
traduca, contestualmente e progressivamente, nel riaddestrare il paziente a una
sempre maggiore complessità di rapporti e di progetti, e si sviluppi senza perdere
di vista il mondo interiore e la dimensione simbolica del paziente stesso.
  Operando in questo modo, le riunioni
finalizzate al pragmatismo delle realtà di vita costituiscono un intervento
sinergico con il secondo tipo di gruppi: i gruppi
di espressione analogica
(arte-terapia, musico-terapia, espressione
corporea, sociodramma, psicodramma… gruppo delle sabbie). Essi costituiscono lo
spazio per il pensiero divergente, le sue possibilità molteplici, la sua
flessibilità creativa. E’ importante che questi dispositivi gruppali siano
condotti con profondità analitica, ma attraverso immagini, anziché parole. E
ciò perché, inevitabilmente, l’espressione verbale si traduce in una sintassi
categorica e spesso  riduttivamente
dicotomica (sano-pazzo, giusto-sbagliato…), mentre la dimensione analogica
evoca un mondo in cui la realtà soggettiva e l'inconscio del paziente possono
liberamente confrontarsi con altre soggettività ed altri mondi (di altri
pazienti e operatori). Condividendo così la molteplicità dei significati - e
messo tra parentesi il principio aristotelico di non contraddizione - si
possono formare una struttura e dei riferimenti collettivi che portano a
differenziare ed elaborare schemi coerenti.
  Auspicabilmente, i simboli che, impoveriti,
venivano travisati come segni, ritrovano così la loro funzione simbolica e,
attraverso di essi, il mondo interiore viene riportato alla realtà della
coscienza gruppale e collettiva. Si forma quindi uno spazio condiviso in cui
l’individuo apprende a vivere come libertà costruttiva quella fluidità
dell'esperienza che in precedenza esperiva come ambiguità angosciante.







Note
Biografiche

Luca
Freiria
è
psicologo, psicoterapeuta e psicodrammatista di orientamento analitico. Libero
professionista e attualmente consulente presso la Comunità Terapeutica “Il
Porto Onlus” di Moncalieri, dove svolge attività clinica e conduzione di gruppi
terapeutici dal 2004. Socio dell'Istituto Torinese di Psicologia (I.T.P.),
dell'Associazione EMDR-Italia e del Centro Italiano di Ipnosi
Clinico-Sperimentale (C.I.I.C.S.), è assegnatario per l'anno accademico in
corso (2013-14) della docenza per la didattica complementare presso Università
degli Studi di Torino, Laurea Triennale per Educatori Professionali, corso di
Psicologia dello Sviluppo, sede distaccata di Savigliano (CN).







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