ABBANDONARE UN BAMBINO: UN’AUTENTICA FORMA DI ABUSO
Di Luigia Belli
L’articolo 19 della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, firmata e ratificata a New York da 193 paesi, definisce l’abuso come “ogni forma di violenza, di oltraggio o di brutalità fisiche o mentali, di abbandono o di negligenza, di maltrattamenti o di sfruttamento”.
Di fatto l’abbandono di un bambino, che non a caso in Italia trova una sua specifica norma sanzionatoria nel Codice Penale (Delitti contro la persona), implica una forma di violenza giacché l’adulto deputato alla sua assistenza non costruisce o interrompe quella relazione di tutela e protezione globale che ne garantisce l’armonico sviluppo.
Tutti noi ci indigniamo quando vediamo in televisione immagini di bambini abbandonati, colte in chissà quale paese lontano dal nostro.

La realtà italiana, se conosciuta, non è meno drammatica. La Commissione Parlamentare dell’Infanzia, nella sua relazione del luglio 2004, ha evidenziato la carenza di dati ed informazioni esatte in merito alla situazione nella quale versano nel nostro paese migliaia di bambini fuori dalla famiglia. La stessa Commissione, per esempio, segnala che gli ultimi dati ISTAT in merito risalgono addirittura al 1998 e quindi non possono essere considerati completi; i bambini istituzionalizzati – se per Istituto intendiamo una struttura che accoglie un numero superiore ai 12 bambini – dovrebbero essere circa 2600, di cui oltre la metà ha meno di 11 anni. Si somma un folto gruppo di bambini – il cui numero oscilla tra 15.000 e 20.000 – che vivono presso comunità familiari o educative; si contano, infine, circa 10.000 bambini in affido. Da una rilevazione condotta dall’Istituto degli Innocenti di Firenze nel 1999, sappiamo che la prima causa di abbandono dei bambini è da addurre ai problemi economici della famiglia di origine. Non meno incisivi sono i problemi abitativi e/o lavorativi dei genitori.
La stessa incertezza avvolge la messa in opera della Legge 149 del 2001, che prevedeva la chiusura degli Istituti entro il 31 dicembre del 2006. All’assenza di un censimento esatto del numero degli Istituti presenti sul territorio nazionale, si è andata a sommare anche l’assenza di linee guida che indicassero le modalità di riconversione degli Istituti in luoghi capaci di riprodurre dinamiche di tipo familiare. A tal proposito, l’Istituto degli Innocenti ha evidenziato come a fronte della progressiva ed effettiva riconversione degli istituti che si è registrata, manca una fotografia chiara e nitida delle modalità di riconversione, per cui accade che spesso una semplice ripartizione fisica degli ambienti dell’istituto in strutture simili ad appartamenti ha soddisfatto i criteri della legge, senza rispondere però alle necessità dei bambini accolti.
A tal fine, Pasquale Andria, Consigliere dell’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e la Famiglia, rispetto alla chiusura degli Istituti in Italia, ha espresso la preoccupazione che si potesse verificare “un lifting degli istituti, ovvero le strutture che si rinnovano da un punto di vista cosmetico ed esteriore, lasciando inalterata la sostanza (…) Quando affermiamo queste cose, non vogliamo disconoscere il valore che storicamente l’assistenza, la storia dell’assistenza, ha avuto in questo paese come in altre parti; è che abbiamo una chiara coscienza che questo tipo di risposta è assolutamente insufficiente e, possiamo dire, addirittura distruttiva, rispetto agli interessi, che non sono solo di sopravvivenza, ma sono essenzialmente di crescita, della formazione del bambino”.
Storicamente l’Istituto, che alla data attuale non dovrebbe più esistere, è stato creato con il preciso obiettivo di prendersi cura dei bambini abbandonati dalle proprie famiglie e garantire loro la sopravvivenza, diversamente da quanto accadeva prima dell’avvento del Cristianesimo, quando il padre che non desiderava il proprio figlio lo esponeva al pubblico presso la “columna lactaria” e lì il bambino moriva di stenti o veniva preso da chi intendeva farne un prossimo schiavo.
Negli ultimi decenni, però, è stata universalmente riconosciuta l’importanza della relazione affettiva e personalizzata nella crescita e nello sviluppo del bambino, pertanto l’Istituto, in grado solo di soddisfarne i bisogni fisici, diventa un luogo carente ed incapace di garantire il riconoscimento di un diritto fondamentale del bambino: quello ad una vita e ad una crescita sana.

Gli studi di René Spitz, ancora, ci dimostrano ed illustrano le conseguenze di un’interruzione del dialogo all’interno della diade mamma – bambino provocata da un allontanamento della madre. Le carenze affettive legate all’assenza di una figura in grado di prendersi cura del bambino ostacolano in forma grave lo sviluppo dello stesso fino ad esporlo al rischio di una “depressione anaclitica”.
Entrambi gli studi, condotti già qualche decennio fa, sin da allora mettevano in luce una scala di valori chiara per il bambino. In quest’ottica, ovviamente, l’Istituto, nelle sue più svariate forme di accoglienza, non rappresenta la risposta adeguata per un bambino perché non è in grado, per la sua stessa natura e indipendentemente dall’impegno e dalla professionalità delle persone che vi lavorano, di soddisfare le esigenze affettive del minore. Come afferma lo psicologo Leonardo Luzzatto, l’Istituto rappresenta “una risposta funzionale alle necessità sociali dell’adulto”, piuttosto che a quelle del bambino.
Winnicot meglio di chiunque altro spiega come la rottura della continuità per il bambino possa implicare una “privazione” o una “deprivazione” e quali ne siano le drammatiche conseguenze. Quando il bambino perde un contesto fisico, relazionale ed emotivo, vissuto molto positivamente (una famiglia che si disgrega, una madre che si allontana, etc), viene “deprivato” e la perdita può provocare tanta rabbia e frustrazione da generare autentiche condotte antisociali. La privazione, cioè il fallimento delle prime “provvidenze fondamentali dell’ambiente” può avere come conseguenza l’annientamento dell’individuo.


Eppure, oggi, il fenomeno dell’abbandono non appare agli occhi dell’opinione pubblica come una reale forma di abuso e non trova nei mass media una voce adeguata per imporre la sua magnitudine.
Nel 2007, la Gfk – Eurisko ha condotto una ricerca sulla percezione del fenomeno dell’abbanono da parte dell’opinione pubblica italiana. Il risultato ha evidenziato aspetti variegati e contraddittori del problema ed ha messo in luce come l’abbandono e la conseguente istituzionalizzazione del minore siano realtà sconosciute ai più. Del campione di intervistati, solo il 48% percepisce l’abbandono come assenza di relazioni familiari, al punto che solo il 4% associa
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