domenica 23 febbraio 2014

CURARE LE PERSONE SENZA ESPROPRIARLE DELLA LORO SALUTE


CURARE LE PERSONE SENZA ESPROPRIARLE DELLA LORO SALUTE



Anno 2, n.8, febbraio 2002
Haigh, Rex




Per informazioni sulla Comunità semi-residenziale Winterbourne Therapeutic Community:
http://www.winterbourne.demon.co.uk/tc/index.html



Oggi tratterò principalmente due argomenti: il nostro Centro Diurno e il modello teorico cui noi facciamo riferimento per il funzionamento della nostra Comunità semi-residenziale.

1.      Winterbourne Therapeutic Community

Inizio spiegandovi come noi rientriamo nel sistema sanitario; io sono un medico psichiatra, consulente dei servizi psichiatrici e sono responsabile di una popolazione di circa 1.000.000 di persone. In realtà siamo  due psichiatri, responsabili della regione del Berkshire e  siamo affiancati da otto psichiatri per adulti che si occupano della psichiatria ambulatoriale, nella stessa provincia; per cui rispetto all’intera organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale siamo un centro piccolissimo.
La nostra comunità è un’insolita struttura di Centro Diurno che utilizza alcune caratteristiche innovative che si basano su due fondamenti teorici: la psichiatria sociale (M. Jones) e la terapia di gruppo (S.H. Foulkes, fondatore del London Institute di Gruppo Analisi).
La struttura edilizia è una piccola casa al centro della città, di tre piani, antica, ha venti piccole stanze, e noi, come comunità, occupiamo il piano terreno, dove c’è una cucina, la sala da pranzo e un soggiorno, e una grossa stanza al piano di sopra per le riunioni, e poi ci prendiamo cura del giardino.  Nel nostro edificio, metà è occupato dalla comunità terapeutica, l’altra metà da  servizi psicoterapeutici ambulatoriali, per la
psicoterapia di gruppo ed individuale. Sul nostro sito internet c’è una fotografia.
La casa è diretta da quattro operatori, due medici psichiatri e due psicoterapeuti.
Abbiamo una riunione d’ equipe, due ore alla settimana, che è estremamente importante; talvolta incontriamo dei rappresentanti del Servizio Sanitario Nazionale perché riteniamo che sia molto importante sapere quello che succede al di fuori e che loro sappiano quello che succede da noi, perché la nostra istituzione non viva troppo isolata dal contesto del lavoro dei Servizi.
Abbiamo quindici operatori clinici che lavorano, alcuni part-time e altri full-time; la somma del tempo di lavoro part-time e full-time arriva a quindici operatori. Tutti lavorano in parte nella comunità terapeutica, e in altri momenti con pazienti ambulatoriali. Tutti gli operatori posseggono due qualifiche: una nell’ambito della salute mentale, come psichiatri, psicologi, assistenti sociali, terapisti occupazionali e infermieri, e una seconda qualifica di training psicoterapeutico di terapia di gruppo.
La comunità accoglie un gruppo di diciotto pazienti che partecipano ad un programma comunitario completo (tutti i giorni dalle 9.30 alle 15.00), e  diciotto pazienti che partecipano ad un programma introduttivo e preparatorio,  incontrandosi una volta la settimana. Il Centro si occupa di persone che vivono da lungo tempo situazioni di difficoltà, che hanno avuto perdite precoci, traumi o problemi di abuso.
Tutta la vita del Centro si svolge tra  la riunione mattutina e quella pomeridiana di fine giornata;  quella mattutina dura un’ora e quella pomeridiana mezz’ora. A queste due riunioni siamo tutti presenti, operatori e pazienti, quindi a volte siamo circa trenta persone.
Poi vi sono molti altri momenti di lavoro di gruppo, durante la giornata e durante la settimana; due volte alla settimana vengono effettuati lavori terapeutici in piccoli gruppi, un giorno è dedicato alle  terapie artistiche e creative, un giorno alle terapie di analisi di gruppo ed un giorno ai gruppi di analisi transazionale; in realtà questo programma di tanto in tanto viene modificato.
I gruppi si tengono la mattina, poi c’è la pausa pranzo, il pranzo viene preparato da tutti i  partecipanti, operatori e semi-residenti, il che vuole dire che non abbiamo una cuoca, e poi le attività pomeridiane vengono scelte di settimana in settimana, prima della riunione pomeridiana che chiude la giornata.
C’è pochissimo tempo per sedersi e rilassarsi, il che è un gran peccato.

A proposito dei nostri rapporti con il territorio e la comunità circostante, dove noi siamo inseriti, lavoriamo attivamente con il territorio, abbiamo dei rapporti di collaborazione con i colleghi locali che organizzano dei corsi di formazione per i tirocinanti, e alcuni nostri membri della comunità partecipano a questi corsi; inoltre anche il centro di orientamento lavorativi è al corrente delle persone che potrebbero e avrebbero bisogno di trovare un impiego e quindi ci informano e sulle possibilità di trovare lavoro. E altre iniziative del genere.

A proposito delle relazioni con i familiari, noi facciamo pochissimo, non abbiamo praticamente rapporti perché le persone vengono da noi per conto proprio e per seguire una terapia personale,  per cui fino a questo momento non ci sono rapporti con le famiglie. Non abbiamo dunque nessun particolare coinvolgimento con le famiglie, però stiamo pensando di introdurre una giornata aperta, ogni tanto, una volta ogni qualche mese, per le famiglie; si tratta di una iniziativa che per ora non è stata ancora avviata. 

Qualcuno di noi ha detto che sono i pazienti a scegliere noi e non noi a scegliere i pazienti;  ed io penso che sia proprio così, sono i pazienti che ci scelgono in base al tipo di servizio che noi siamo in grado di offrire.
Descriverò cinque aspetti principali che caratterizzano il funzionamento della nostra istituzione.

1.1    Il programma di introduzione e preparazione o  “consenso informato vero”
Circa il modo in cui le persone prendono contatto e poi entrano nella nostra comunità occorre precisare che noi riceviamo molte più richieste dei posti di cui disponiamo. Di conseguenza abbiamo organizzato un servizio di accettazione nel quale le persone possono vedere dove probabilmente verranno e decidere gradualmente il loro percorso, se è una cosa che vogliono fare e per la quale vogliono assumersi l’impegno necessario.
La prima volta incontriamo le persone in piccoli gruppi, da tre a sei partecipanti,  e facciamo fare loro un giro del centro, dedicando più o meno un’ora per spiegare loro che cosa succede e come si vive nella casa. Questo viene fatto da due residenti della comunità e da due operatori. Se le persone vogliono proseguire, ci organizziamo affinché inizino a partecipare al cosiddetto Programma di Valutazione. Si tratta di un martedì pomeriggio tutte le settimane, che dura due ore e dove vengono condotti in sequenza due gruppi (con una pausa intermedia). Nel primo gruppo si svolgono varie attività di tipo sociale o organizzativo-amministrative, programmate la settimana precedente; nel secondo gruppo si tiene una Riunione di Comunità con i residenti, gli operatori, gli studenti e i visitatori.
La fase successiva consiste nell’organizzare e prenotare una settimana di frequenza, durante la quale il soggetto che vuole entrare in comunità partecipa come osservatore ad ogni giorno della vita dell’intera comunità. Nel fare questo ha tre referenti che lo seguono e che può incontrare all’inizio e alla fine di ogni giornata; i tre referenti sono un operatore e due residenti della comunità.  Se dopo questa settimana il soggetto desidera essere accettato in comunità, deve continuare a partecipare al Gruppo del martedì, finché si libera un posto. A quel punto deve organizzare la cosiddetta: Conferenza di auto-presentazione, che consiste in una mezz’ora nella quale la comunità ascolta il motivo per cui il soggetto desidera entrare, gli pone delle domande e vota se accettarlo o meno. Se viene accettato di solito incomincia immediatamente, per cui ritorna ancora un’ultima volta al Gruppo del martedì per congedarsi e rimane nel programma diurno che può durare fino a diciotto mesi.
Questa impostazione consente di avere la comunità sempre senza posti vuoti, sempre al completo: un aspetto molto positivo per i nostri amministratori, dal punto di vista economico. D’altra parte questa impostazione, offre la possibilità di osservare delle interazioni dinamiche interessanti che si creano tra il gruppo del Programma di valutazione e il Gruppo dei residenti della comunità.
L’intero processo di avvicinamento e accettazione rappresenta una valutazione molto equilibrata del fatto che qualcuno possa trarre beneficio dal nostro programma  terapeutico. Infatti, i candidati ci scelgono mediante questo processo passo a passo, e al tempo stesso noi scegliamo loro, durante la Conferenza di auto-presentazione. Se ci sono domande, dubbi, o ansie, sia da parte delle persone che desiderano entrare, sia da parte di coloro che dovrebbero accettarle, tutto questo viene attivamente discusso e fa parte del processo. Non credo esista un sistema più accurato e approfondito di consenso informato: tutte le componenti danno effettivamente il loro consenso a quello che viene deciso, e tutto questo in qualche modo vuole sottolineare come la terapia non sia qualcosa di dovuto o fornito, ma qualcosa che deve essere richiesto.
La zona di provenienza dei pazienti è sicuramente molto ristretta, perché, essendo un Centro semi- residenziale, i pazienti devono andare e venire da casa, quindi ci saranno un massimo di trenta, quaranta kilometri tra il centro e la loro abitazione.


1.2    Il sistema di sostegno al di fuori dell’orario della comunità diurna

Ora voglio descrivervi il nostro sistema di sostegno al di fuori delle ore in cui la comunità diurna funziona, che, per usare una frase sintetica, chiamerei “24 ore di contenimento con 6 ore di assistenza”. Titolo a cui non dovrei aggiungere altro perché è particolarmente espressivo.
Noi non abbiamo nessun operatore reperibile; anzi la reperibilità è a carico dei partecipanti, dei membri della Comunità, ed è una reperibilità reciproca. Si può affermare che sono i membri della comunità stessa che fanno questo lavoro e lo fanno meglio di un medico di guardia o di un medico generico: gli ospiti
svolgono questo lavoro meglio di noi. I partecipanti alla Comunità si conoscono molto bene, conoscono cosa stanno attraversando in quel momento, sono emotivamente coinvolti e quindi ricoprono una posizione  migliore della nostra.
In termini di orario, il Centro è aperto  dalle 9.00 del mattino alle 15.30 del pomeriggio, compresa una mezz’ora iniziale e una mezz’ora finale per l’arrivo e il ritorno a casa. Il primo gruppo e l’ultimo gruppo di ogni giorno, sono Riunioni di Comunità e  in quella del mattino, tra i vari punti nell’ordine del giorno, c’è sempre la verifica di come stanno tutti gli ospiti e di vedere se qualcuno ha avuto bisogno di qualche sostegno dall’ultima volta che ci siamo incontrati. L’incontro pomeridiano finisce sempre con cinque minuti dedicati a verificare se qualcuno ha necessità di sostegno. A volte le persone sono nel mezzo dell’ elaborazione di questioni difficili e si sentono particolarmente vulnerabili o di cattivo umore; in
altri momenti possono essere molto arrabbiati rispetto a qualche cosa che è successa tra i vari partecipanti alla Comunità; oppure potrebbero essere particolarmente isolati, chiusi e prossimi ad atti di auto-aggressività. In questa cosiddetta ‘fessura di sostegno’, cioè questi ultimi cinque minuti della giornata, possono chiedere quello di cui hanno bisogno agli altri partecipanti alla Comunità. Gli altri partecipanti, infatti, sanno chi ha avuto qualche difficoltà durante il giorno o chi è particolarmente silenzioso, e possono sempre chiedere loro se hanno bisogno di sostegno. Talvolta la Comunità richiede che le persone sottoscrivano un contratto con il quale si manterranno ‘al sicuro’ e, se sarà necessario, si rivolgeranno al sistema di sostegno reciproco. Solo quando questi aspetti sono stati verificati, in quegli ultimi cinque minuti si può chiudere la riunione e tutti si sentono a proprio agio per tornare a casa.
Possono aver luogo molte forme di sostegno, alcuni possono semplicemente essere molto stanchi e volere un passaggio a casa, altri potrebbero aver bisogno di un gruppo di sostegno con altri due partecipanti alla comunità, per parlare un po’ di qualche cosa, per qualche minuto prima di sentirsi bene e poter tornare a casa. Altri potrebbero aver bisogno di qualcuno che sia disponibile a ricevere delle telefonate più tardi, nel corso della serata, per cui il gruppo verifica chi è disposto e chi può ricevere  telefonate; le persone che vogliono contattarsi, e molti hanno i cellulari, possono scambiarsi il numero di telefono. Questa è la forma più comune di sostegno e, in effetti, talvolta la mattina successiva una notte particolarmente difficile possiamo discutere fino a dieci telefonate che si sono verificate la sera o il pomeriggio precedente. Talvolta però il sostegno telefonico non è sufficiente, e quindi la Comunità organizza quello che chiamiamo il ‘sostegno fisico’, nel quale almeno tre partecipanti alla Comunità si organizzano per andare a stare a casa, a trovare a casa qualcuno che si trova in difficoltà e, magari, rimanere con lui o con lei tutta la notte. I residenti possono sempre rifiutarsi di offrire il loro sostegno, se non si sentono sufficientemente forti.
E’ particolarmente importante che tutti i contatti di sostegno che sono stati fatti dopo la fine del Gruppo di Comunità del  pomeriggio vengano riportati e discussi nella Riunione di Comunità della mattina successiva. In questo modo tutti sanno cosa è successo agli altri e possono ascoltare i problemi che sono stati discussi nel lasso di tempo in cui si è offerto e dato sostegno ad altri. Ci sono molte altre cose in merito a questo sistema di sostegno, quali l’importanza della prima telefonata di qualcuno: spesso essa segna il momento di
inizio vero e proprio della terapia. Un altro aspetto importante è il modo in cui la Comunità sfida le persone che offrono troppo sostegno agli altri, invece di ricercarlo per sé, di quanto talvolta sia importante il rifiuto del sostegno a qualcuno, invece di fornirlo o riceverlo immediatamente.
Con questo sistema, e credo di poterlo dire con un certo grado di sicurezza, i partecipanti alla nostra esperienza di Comunità Terapeutica stabiliscono una rete di relazioni di sostegno per ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana, anche se fisicamente operatori e residenti stanno insieme soltanto sei ore al giorno per cinque giorni. Questo non sarebbe possibile se non fossimo un’unità sufficientemente piccola e che serve una popolazione locale che può viaggiare e venire da noi ogni giorno. Ritengo, inoltre, che la fine di ogni giornata e della settimana rappresentino per tutte le persone che sono con noi un momento importante nell’arresto delle regressioni maligne e di eccessiva dipendenza. Tutto questo rappresenta anche di per sé del materiale terapeutico importante.
Il nostro sistema di sostegno reciproco tra gli ospiti che sono reperibili ventiquattro ore al giorno, per cui si sentono sicuri  ventiquattro ore al giorno, anche se sono insieme soltanto per sei ore, è un po' la concretizzazione del principio del contenimento, di cui parlerò nella seconda parte del mio intervento.

1.3    Non utilizziamo nessuna terapia farmacologica;

Desidero illustrarvi come mai non usiamo terapie farmacologiche, specie considerando che più della metà delle persone che ci vengono inviate sono sottoposte a cure farmacologiche, spesso con dosaggi elevati.
Abbiamo una politica, una linea di condotta rispetto agli psicofarmaci che viene concordata tra gli operatori e i partecipanti alla Comunità, e periodicamente viene rivista. Attualmente questa linea di condotta stabilisce che nessuno può partecipare al Programma di Valutazione del martedì se sta assumendo neurolettici depo’, per esempio iniezioni di flufenazina. Se i partecipanti al Programma di Valutazione  stanno assumendo tranquillizzanti o farmaci ipnotici, benzodiazepine e neurolettici, devono interromperne l’ assunzione prima di frequentare la Comunità per la settimana di accoglienza. Se invece sono sottoposti a terapia antidepressiva, per esempio prozac e simili, devono interromperne l’ assunzione entro i primi tre mesi del loro periodo di terapia comunitaria. Se le persone hanno una storia di malattia bipolare grave e partecipano alla Comunità diurna a tempo pieno, possono continuare ad assumere degli stabilizzatori d'umore, quali litio, carbamazepina, ma devono essere disposti a discutere questo loro bisogno di continuare ad assumere farmaci. Altri farmaci che possono influire sull’umore, quali forti analgesici, devono essere messi in discussione nella Riunione di comunità. Queste sono le regole  decise dalla direzione della comunità e dagli operatori, alle quali tutti i residenti devono adeguarsi.
La teoria che seguiamo è che le persone non possono essere completamente responsabili di sé o per gli altri, se stanno assumendo dei farmaci, in particolare i farmaci più forti hanno un effetto diretto sullo stato di veglia e sul coinvolgimento emotivo; in realtà se i partecipanti alla comunità ritengono di aver bisogno di fare affidamento sui farmaci per poter mantenere la propria salute mentale  questo ha un impatto e un significato psicologico. La comunità ha sempre alcuni membri che hanno smesso di assumere massicce quantità di farmaci e sono proprio costoro che possono meglio di noi operatori, spiegare perché è così importante smettere di assumerli. Le persone possono essere saldamente tenute in una rete di relazioni, soltanto se si può avere una completa fiducia in tali relazioni; l’esperienza e una recente ricerca hanno dimostrato chiaramente che non c’è differenza nella probabilità che le persone completino il programma se sono state inviate da noi, mentre assumevano farmaci o meno, il che, a mio avviso, dimostra che è un elemento di sicurezza se i nostri partecipanti smettono, interrompono l’assunzione di farmaci  e cercano di utilizzare i processi interpersonali per ricercare un  cambiamento.
Forse dovrei spiegarvi che quanto ho precedentemente esposto è possibile in quanto noi trattiamo una
specifica popolazione, quella delle  persone affette da disturbi di personalità. Abbiamo molte persone che hanno una storia estesa di altre patologie mentali accanto a disordini di personalità di lunga durata. Però quando trattiamo persone del genere, esse si trovano in una fase di quiete della malattia mentale, non sono in una fase di psicosi attiva, non sono in una fase di intossicazione da alcool, o da sostanze, non sono pericolosamente magri, cioè in una fase anoressica, non sono così depressi da dover essere ricoverati; per cui devono trovarsi in una condizione, in una fase della loro condizione patologica o esistenziale nella quale sono in grado di venire da noi tutti i giorni e tornare a casa tutti i giorni. Noi abbiamo una visione longitudinale della loro storia, della loro salute mentale e non  una visione parziale, limitata alla sintomatologia di quel momento.
Per esempio attualmente abbiamo una signora che anni fa ha trascorso tre anni ricoverata in ospedale, e che ci è stata presentata come una persona terribile, estremamente distruttiva, particolarmente psicotica, per cui, in effetti, è stato necessario che trascorressero cinque anni dalla dimissione dall’ospedale perché lei riuscisse ad essere in grado di venire ed essere ammessa nella nostra struttura. La sua diagnosi era schizofrenia e psicosi schizo-affettiva, ma era una diagnosi errata; non possiamo trattare persone affette da schizofrenia, ma persone con disturbi di personalità gravi e che eventualmente hanno avuto brekdown psicotici.
Io comunque ritengo che i farmaci siano positivi e che funzionino, non appartengo a chi dice che i farmaci sono in assoluto negativi e non devono essere utilizzati, e ritengo che attualmente siano molto efficaci. Ma noi trattiamo una popolazione particolarmente limitata, un numero piccolissimo di persone rispetto all’intera popolazione psichiatrica, che, a mio avviso, sono state sovente trattate in terapia farmacologica in modo errato, nel senso che i dosaggi sono stati incrementati sempre di più e pertanto gli interessati hanno sviluppato un rapporto non sano con i farmaci.
Anzi, in realtà, noi abbiamo un altro progetto in mente, e cioè quello di aprire una nuova comunità terapeutica che sia a metà strada tra il reparto ospedaliero e la nostra comunità terapeutica, dove anche i farmaci possano essere somministrati, ma questo è un altro progetto.
Ancora una parola sui farmaci. Forse ci sono delle persone che dopo essere uscite dal programma avranno bisogno di ritornare ad assumere farmaci, anche perché durante il programma vengono intensamente tenuti dalle relazioni che si creano all’interno della comunità, e l’uscita alla fine del programma può richiedere loro di assumere nuovamente farmaci per riuscire a sopravvivere, ma nel corso del programma da noi non ne hanno bisogno. Parlando di cifre, negli ultimi cinque anni sono state tre le persone che hanno dovuto ricominciare ad assumere farmaci nel corso del programma, e hanno dovuto lasciare la comunità.


1.4   Come prendiamo le decisioni difficili.

Un altro aspetto importante della vita della comunità è relativo al processo decisionale  o dell' empowerment, cioè l’assegnazione del titolo di potere e della democrazia.
Il gruppo degli operatori è responsabile delle decisioni rispetto al funzionamento della comunità, ad esempio l’accettazione, la dimissione, il cosa fare quando le regole vengono violate e molte altre questioni di tipo comunitario e gestionale. Inoltre, è lo stesso gruppo degli operatori che prende le decisioni su come condurre i seminari didattici per medici e altri studenti di terapia di gruppo;  ci piace organizzare dei giochi di ruolo e insegnare agli altri come lavoriamo. Tutti questi aspetti riflettono un’apertura, un’introduzione della
realtà del sistema, in modo che siamo noi a decidere e a possedere le procedure che attuiamo; naturalmente ci sono dei limiti, come il bilancio amministrativo, gli aspetti legali e la deontologia professionale, ma la maggior parte delle cose può essere discussa e talvolta invitiamo degli esterni perché ne discutano con noi.
In realtà sono le decisioni  rispetto ai residenti quelle più difficili in quanto hanno un impatto emotivo maggiore e ora descriverò quello che facciamo quando qualcuno viola una regola. Un esempio potrebbe essere quello di qualcuno che mette in atto un comportamento autolesivo; quando questo viene riportato in una Riunione di comunità, avviamo una cosiddetta procedura di crisi. Ognuno nella riunione deve dire che sensazioni ha in merito e che cosa ritiene sarebbe opportuno fare. Il presidente dell’assemblea chiede anche una votazione per decidere il da farsi; può darsi che si traduca in un contratto scritto, oppure in una cosiddetta revisione, cioè una riunione di mezz’ora dove si discutono i progressi del singolo partecipante, una sospensione dalla Comunità per qualche giorno, o addirittura le dimissioni, o qualsiasi altra decisione che le persone prendono.
Dipende sempre dall’assemblea decidere e naturalmente tutti sono coinvolti emotivamente in un processo democratico nel prendere una decisione sul da farsi, con qualcuno che ha violato la regola. Se si discute di un’eventuale dimissione può trattarsi di una decisione molto difficile e responsabile, ma io credo che è proprio insistendo sul fatto che gli operatori non si assumono queste decisioni, che la comunità può percepire e sentire il proprio potere. Si tratta del potere di mantenere i propri confini e, possibilmente, il potere di migliorare e guarire.
Quando gli individui sentono di possedere una parte di questo potere, di esserne partecipi, sentono anche la responsabilità che questo potere comporta, gli uni verso gli altri: A quel punto possono fare esperienza di un senso autentico del loro posto tra gli altri: si tratta non soltanto di essere partecipi di un gruppo, ma anche di essere autonomi.
Tutto questo fa parte di un continuo tentativo da parte degli operatori di evitare di entrare in una logica paternalistica verso gli ospiti. Forse io ho tracciato un quadro idealizzato, perché l’aspettativa da parte delle persone di essere prese in cura, di avere qualcuno che sta dietro di loro, invece di prendersi cura di se stessi, continua ed il gruppo è sempre in lotta contro questi aspetti regressivi.
Credo che ci siano tre livelli che ci possono aiutare. Il primo è il livello degli operatori, il fatto che hanno una formazione psicoterapeutica, che è sempre una buona difesa rispetto all’essere intrappolati all’offrire continue cure; in particolare tutti i nostri operatori hanno effettuato una formazione di gruppo. Il secondo
livello è il livello dei partecipanti alla comunità che ogni volta che hanno capito il problema del paternalismo sono i più rigidi rispetto al paternalismo stesso, sono quelli che immediatamente lo colgono, dicono: “No, tu vuoi un passaggio a casa, ma invece puoi andare da solo, non è il caso che tu venga portato a casa”. Il terzo fattore è abbastanza esterno alla vita della comunità; in Inghilterra in questo periodo, si sta verificando una grossa e importante trasformazione sociale per i medici; in particolare si sono levate grandi ondate di critiche ostili rispetto ai medici, tutte le situazioni problematiche trovano immediatamente eco sui giornali, per cui i medici hanno dovuto rispondere a forti accuse di paternalismo. Uno slogan importante che è stato adottato dal Sistema Sanitario Nazionale è partnership nella terapia, nell’assistenza, per cui questo concetto di collaborazione, di modo che nessuna  svolga un ruolo paternalistico, è effettivamente molto presente nella situazione culturale contemporanea.

1.5   L’uscita dalla comunità ed il reinserimento dopo il programma terapeutico.

Al momento dell’uscita dalla comunità  è importante che le persone siano in grado di mantenere la loro responsabilità rispetto alla propria salute. L’unica barzelletta che conosco sulle comunità terapeutiche racconta di una persona in visita in una comunità che non riuscendo a riconoscere chi sono i residenti e chi sono gli operatori, chiede per l’ appunto come si faccia. Il residente che lo accompagna nella visita risponde: i pazienti sono quelli che stanno meglio e che prima o poi  se ne vanno.
In realtà, andarsene è difficile e doloroso per tutti, anche per noi operatori quando qualcuno che abbiamo imparato a conoscere  molto bene  si avvicina alla fine del periodo di permanenza dei diciotto mesi. Di solito le persone organizzano, progettano e pianificano questo momento molto tempo in anticipo; questo comporta definire e stabilire delle date, organizzare un pranzo speciale, che chiamiamo il “pranzo di fede”, e festeggiare per il periodo in cui un residente è rimasto con noi e farlo nel modo in cui il soggetto desidera che venga fatto.
Dopo essersene andati i residenti sono soli e devono trascorrere un periodo di sei mesi nel quale si chiede loro di non contattare nessun partecipante attuale della comunità. Le persone che hanno lasciato la comunità un anno prima possono partecipare alla festa di Natale e ad un viaggio estivo.
Devo raccontarvi una cosa: sabato scorso abbiamo organizzato una festa per il Millennio e abbiamo invitato le persone che erano state da noi negli ultimi cinque anni; la maggior parte di loro ci ha detto che era stato difficilissimo lasciare il Centro Diurno. Però, la carica ricevuta era così forte che avevano potuto utilizzare l’esperienza effettuata per fare qualcos’altro, cambiare la loro vita, iscriversi all’Università, trovare un lavoro. Pochissimi di loro, dopo l’esperienza da noi, hanno dovuto rivolgersi a dei servizi psichiatrici.
Alcune comunità terapeutiche inglesi hanno dei gruppi terapeutici per i residenti in uscita, in modo da poter continuare in qualche modo un "rifornimento" che riempia lo scarto tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’. Noi non crediamo in una cosa del genere: è quasi come ammettere un fallimento; in effetti se qualcuno finisce il programma e ha ancora bisogno di appoggiarsi, vuol dire che non è riuscito ad elaborare una sufficiente autonomia.
Sappiamo che delle persone formano delle reti di sostegno una volta che hanno lasciato la nostra Comunità Diurna, e attualmente i nostri ex-residenti stanno pensando di organizzare una forma di rete di sostegno in modo un po’ più organizzato. Essa, non è però costituita da operatori, ma da ex-residenti: possono mantenersi in contatto tra loro, svolgere delle attività e continuare ad usare le relazioni di amicizia che hanno stabilito e sviluppato. Anche se non più in un setting terapeutico, mantengono la loro autonomia, il loro stato di salute e la loro non-dipendenza dai Servizi psichiatrici; infatti molti di loro hanno una storia pregressa di frequenza dei Servizi.
Noi vogliamo sviluppare una modalità agevole, in modo che le persone chiedano aiuto ai Servizi psicoterapeutici se ne hanno bisogno, piuttosto che non ripassare attraverso l’intero processo di invio medico-psichiatrico. Si tratta di un’idea recente che ci è venuta in mente con gli attuali residenti che sono in comunità: non deve diventare un evitamento dell’inevitabile perdita della fine del programma. Piuttosto, se gli ex-residenti organizzano una rete di sostegno e la gestione è nelle loro mani e non nelle nostre, riteniamo che questo possa aiutare le persone a mantenere quelle cose che hanno imparato con noi.

Questa è la sintesi di quello che succede nella nostra comunità terapeutica diurna e penso che quanto esposto rientri nella filosofia delle comunità terapeutiche; poiché noi non siamo di tipo residenziale, abbiamo alcuni vantaggi e alcune libertà cliniche, forse facciamo più parte della vita reale delle persone, siamo meno esclusi dal contesto in cui vivono.
La Comunità Terapeutica semi-residenziale presenta però degli alti rischi e delle alte responsabilità: in effetti noi richiediamo molto, sia ai nostri partecipanti che a noi come operatori. Non è un’alternativa facile.

Avrei concluso la descrizione dell’organizzazione a Winterbourne; vorrei ora inrodurre una parte più teorica.



2.  FONDAMENTI TEORICI DELLA COMUNITA’ TERAPEUTICA


Ora vorrei descrivervi un modello di quello che accade nelle comunità terapeutiche e i fondamenti teorici che derivano dalla psicoanalisi e da altre discipline; non c’è niente di nuovo per voi, però questo materiale è semplicemente raccolto per dare la sostanza, in qualche modo, al lavoro che si fa nelle comunità terapeutiche.
Si tratta di una esposizione che attraversa cinque concetti teorici, collegati tra loro, che descriverò brevemente e presenterò come le qualità essenziali dell’ambiente terapeutico. Desidero esporre questi cinque concetti in una progressione evolutiva, dalla vulnerabilità e lo stato di nudità dell’attaccamento per passare agli aspetti materni e paterni del contenimento, alla socializzazione della comunicazione; poi passeremo alla lotta adolescenziale del coinvolgimento, per giungere alla posizione adulta e che possiede una titolarità di potere (empowerment) e della cosiddetta agency, che in realtà è la posizione del sé che investe la sede del cambiamento, e per i nostri pazienti la possibilità di dispiegare il proprio potere e la propria forza per produrre un risultato.

Ora vorrei spiegarvi rapidamente queste cinque posizioni e come trovano sostanza nelle comunità terapeutiche.

2.1   L’ attaccamento

Tutti gli individui cominciano la loro vita attaccati, tramite l’ombelico, all’interno della madre, con il sangue dell’uno che scorre nel sangue dell’altro.  Al momento della nascita questo attaccamento viene improvvisamente e irreversibilmente reciso: è la prima separazione, la prima perdita, con molte altre che la seguiranno.
Per il neonato che è fortunato questo legame fisico e fisiologico, gradualmente e senza interruzioni di continuità, verrà sostituito con un legame emotivo e nutritivo, che crescerà, si svilupperà finchè alcune delle sue caratteristiche saranno invariabilmente spezzate, perdute, modificate nell’inevitabilità dello sviluppo. Questo attaccamento precoce e sicuro fornisce all’infante un senso coerente del valore e dell’identità e lo protegge dalle ampie ferite e delusioni che potranno attaccarlo, attraverso le quali dovrà passare nel corso della sua vita successiva.
Per i neonati meno fortunati,  per i quali il processo non va tanto bene, il legame emotivo non è sicuro. John Bowlby descrive i problemi ad essa collegati in un attaccamento ansioso o in un attaccamento evitante; la teoria di Michael Balint tratta dello scollamento tra la madre e il bambino, per cui il legame non è sicuro e quindi neanche l’infante può sentirsi sicuro.
Quando questo tipo di disturbo è così fondamentale, primo compito del trattamento è quello di ricostruire un attaccamento sicuro e poi utilizzarlo per provocare, innescare dei cambiamenti nelle aspettative profondamente radicate delle relazioni e dei pattern di comportamento. La cultura in cui questo attaccamento deve avere luogo è la cultura dove i membri di una comunità possono chiaramente percepire un senso di appartenenza, dove  il senso di appartenenza viene apprezzato e dove i membri stessi si apprezzano, percepiscono l’apprezzamento. Questo può sembrare molto piacevole, molto bello; in realtà il mondo interno dei pazienti e dei membri della comunità terapeutica non è così facile.
Adesso scopriamo, lavorando con queste persone, che l’attaccamento viene ricercato potentemente, ma a
l tempo stesso temuto potentemente; si tratta di una lotta tra quello che Donald Fairbairn ha definito Io libidico  e Io anti-libidico, uno disperato e bisognoso e l’altro arrabbiato e rifiutante. Quando non si è venuto a sviluppare un terreno sufficientemente stabile tra i due, le richieste della realtà trovano risposta in reazioni emotive di rabbia, vergogna, umiliazione e dolore.

2.2   Il contenimento

L’esperienza di essere contenuti è a fondamento del sentimento di  sicurezza e della capacità di avere fiducia in sé, negli altri e nel mondo in generale.
Questa esperienza ha aspetti propri della cultura materna come di quella paterna; l’elemento materno è quello della sicurezza e della sopravvivenza di fronte alla sofferenza, alla rabbia, alla disperazione infantile. L’ aspetto  paterno ha invece a che vedere con la disciplina e le regole; si tratta sempre di sicurezza, ma di una sicurezza che deriva dal sapere quello  che è possibile per me e quello che non lo è. E’ proprio come conoscere i propri limiti e pertanto rafforzare i confini del Sé.
La comunità deve fornire pertanto la stabilità per contenere ansie primordiali e elementi disturbanti che rischiano di sopraffare la vita dei singoli o della collettività. In questo difficile equilibrio tra permissivismo e contenimento, vi è lo spazio in cui i singoli residenti possono manifestare i loro aspetti di ostilità, rifiuto ed isolamento.  Poi, quando la fase di incapacità di pensare è più placata, allora può iniziare  il processo di elaborazione e comprensione.
Non sto dicendo che l’agito non può mai essere permesso, ma certamente una comunità deve essere in grado di contenere i disturbi gravi, in modo da essere in grado di tollerare e poi elaborare emozioni violente, senza che questo pregiudichi il sentimento di sicurezza del singolo e della collettività. Penso che in una situazione nella quale vengono messi in scena gli aspetti più disturbanti , i partecipanti devono sapere dove sono i margini del palcoscenico per sentirsi al sicuro.
La differenza tra contenimento e holding è che il primo è principalmente una costruzione interna  ed  il secondo è  principalmente  una azione che deriva dall’esterno, ed in base a questo principio possiamo dire che  noi forniamo  sei ore di holding, ma ventiquattro ore di contenimento.
A questo punto credo sia importante ricordarsi di quello che Donald Winnicott denomina come  spazio transizionale: prima o poi si viene a creare uno scarto tra la madre e il neonato ma se il legame è sufficientemente sicuro, proprio in questo ‘spazio’ l’ infante prima, ed il bambino successivamente, potrà compiere nuove esplorazioni, giocare con nuove emozioni e nuove relazioni, ed in tal modo  acquisire un senso di identità autonoma. La comunità terapeutica può ricreare questa esperienza di uno  spazio transizionale  soltanto se è riuscita a riprodurre un legame sufficientemente solido e all'interno di uno stato di sicurezza che è fornito da un contenimento sufficiente stabile e forte. In una comunità terapeutica questo spazio di base può essere pensato con tutta la ricchezza, l'intensità e la varietà che sarebbe molto più difficile creare in altri generi di terapia. Questo spazio deve essere percepito come sicuro, in modo che vi si possano correre dei rischi; esso conterrà, inoltre, una grande gamma di persone che hanno esperienze diverse, opinioni, aspettative e atteggiamenti diversi; è un po' come se l'intera esistenza umana si svolgesse in questo spazio, in modo che in questo spazio possono crearsi le relazioni, possono essere messe in gioco e ci si può anche mettere nei guai.

2.3    Cultura dell’ apertura

Tom Main ha argomentato sostenendo che la cultura di un'unità o un reparto è più incisiva nel provocare trasformazioni nelle relazioni umane di quanto non lo sia la struttura. Ed in un saggio sul concetto di comunità terapeutica ha sostenuto che questa piccola organizzazione sociale trova i suoi fondamenti in quella che ha
denominato cultura dell’ indagine.
Desidero rifarmi al pensiero di Tom Main, ma per offrirne un ampliamento preferisco parlare di cultura dell’ apertura. Naturalmente questa rappresenta il cuore di quello che è la terapia, e cioè i trattamenti in cui si parla, dare parola alle cose e venire ascoltati. Ma tutto questo rappresenta una richiesta importantissima  a carico di persone così disturbate come gli ospiti di una comunità terapeutica, una richiesta di una comunicazione aperta, e una richiesta del genere non è affatto semplice da mettere in pratica:  costoro la devono volere e sentirsi sicuri quando la mettono in atto.
In una comunità terapeutica tutto questo  richiede un certo grado di certezza rispetto al fatto che la comunità accetterà e digerirà quello che qualcuno deve dire e non si offenderà o rifiuterà quello che viene detto.
Solo quando un partecipante o un membro della comunità si sente sicuro, può cominciare a osservare e a pensare alle difficoltà e alle esperienze potenzialmente difficili e dolorose. Credo che sia questo quello che Siegmund H. Foulkes intendesse dicendo che  "lavorare verso una forma sempre più articolata di comunicazione è identico al processo terapeutico stesso", vale a dire che il processo terapeutico non è soltanto un processo di comunicazione, ma è una vera e propria lotta per arrivare ad una posizione in cui si è in grado di comunicare. Questo è quello che si verifica quando il ‘sintomo del borbottamento’, che è autistico e di autoesclusione, può cominciare a venire articolato e compreso, perdendo così la propria forza di isolamento e di angoscia.
A proposito del valore del sintomo, questi è comunque una comunicazione. Foulkes credo che dicesse che il sintomo borbotta silenziosamente per essere sentito, percepito, e ritengo che la psicoterapia aiuti ad articolare le angosce e i disagi che sono dietro al sintomo, per cui il sintomo è molto espressivo e deve essergli dato il giusto valore.
Ma tutto questo si realizza sia attraverso il tentativo di comunicare, sia attraverso il processo stesso per cui si stabilisce una rete di relazioni nella quale la comunicazione ed il processo ad essa correlato possa r
ealizzarsi. L'analisi gruppale utilizza il concetto di matrice per indicare questo aspetto; effettivamente è nella matrice che può esistere una profondità di connessione, un senso di collegamento, laddove vissuti nascosti e bui possono venire esaminati e integrati.
Naturalmente tutti i gruppi terapeutici che facciamo si fondano sulla cultura dell’ apertura perché nei gruppi dove si parla molto, si comunica, si è aperti; ma in realtà  esso trova anche una concretizzazione nel fatto che facciamo copie di tutta la corrispondenza che abbiamo e le distribuiamo a tutti, come anche tutte le informazioni che riceviamo da consulenti esterni e visitatori, poi le mettiamo in comune con tutti, per cui non c'è niente che non è  conosciuto da qualcuno. Se per esempio c'è un litigio  in cucina mentre si prepara pranzo, questo diventerà un argomento da affrontare da tutti  nella terapia di gruppo.  Per cui l'intera esperienza è a disposizione per la terapia e non solo per il terapeuta che deve affrontare la situazione.



2.4   L’ illusione

Uno dei limiti della psicoanalisi è stato descritto come le altre ventitre ore, e cioè quel periodo di  tempo nel quale il paziente può essere nevrotico, disturbato e angosciato quanto desidera, senza necessariamente portare queste cose nella terapia. Paul Federn descrive l'importanza analitica del tenere a mente, l’ importanza che ha per i pazienti borderline , e si tratta in poche parole della produzione di un rendersi conto pressochè tangibile da parte del paziente che l'analista pensa a lui o a lei per le altre ventitre ore.
In una comunità terapeutica di tipo residenziale questo ‘tenere a mente’ viene concretizzato e reso tangibile in modo totale, non entro una fantasia, bensì entro una realtà; per ventiquattro ore al giorno tutte le interazioni interpersonali che sono condotte dagli ospiti della comunità appartengono a tutti; l'aspettativa che verranno utilizzate e comprese, in quanto parte del materiale della terapia, è diffusa a tutti e quindi non in contesto di isolamento, ma nel contesto reale e di prima persona nel quale le relazioni interpersonali sussistono.
Nel gruppo analitico dei pazienti ambulatoriali normalmente non è possibile vedere in modo accurato lo sfondo contro il quale il protagonista, la figura si definisce; ma in una comunità terapeutica è letteralmente impossibile allontanarsi da tutto questo.  Il coinvolgimento di tutti gli aspetti dell'esperienza dei partecipanti ai gruppi o la cultura del living learning è un altro riflesso dell'ambiente circostante e del contesto, in quanto parte indispensabile come materiale consistente.
In una comunità terapeutica ciascuno ha un contributo diverso ma vitale da offrire alla salute del ‘tutto’: l'aggregato di tutti gli elementi individuali è qualcosa che ha delle qualità proprie e costituisce un tutto, una complessità che equivale a qualcosa di più che non alla semplice somma delle parti. E' proprio il contrario di una visione del mondo di tipo individualistico e la ricchezza e la varietà della rete di relazioni tra i partecipanti con tutti i diritti e le responsabilità che comporta è di per sé una forza creativa e riparatrice: in altre parole è la matrice.



2.5   Agency*

L'altro principio di cui voglio parlarvi è questo termine probabilmente difficile da rendere nella lingua italiana.
Nel 1941 al Mill Hill Hospital, Maxwell Jones scoprì che i soldati affetti da disturbi emotivi erano di maggiore aiuto per gli altri colleghi soldati di quanto non lo fossero gli psichiatri. Nacque così una prassi molto simile alla discussione di gruppo sul qui ed ora degli eventi del reparto e dell’ ospedale.  A Northfield, nel 1943,  l'esperimento di Wilfred Bion venne interrotto dopo sei settimane, quando egli, per migliorare il morale dei soldati che avevano subito un breakdown emotivo, organizzò i primi gruppi di discussione, che tuttavia indirettamente produssero un aumento dei comportamenti indisciplinati nel reparto. Come è noto, Bion fu sollevato dall’ incarico e sostituito da Siegmund  H. Foulkes,  Tom  Main ed Harold Bridge.
Questi due luoghi rappresentano l'inizio delle comunità terapeutiche inglesi e quello che voglio sottolineare è 
che in entrambi furono lanciate delle sfide alla natura dell'autorità; costoro avevano certamente anticipato i tempi, penso che molte delle trasformazioni sociali dell’ ultimo trentennio abbiano minato alla base la nostra nozione di autorità tradizionale.
Ma per le comunità terapeutiche questa sfida è stata presente fin dall'inizio; non è molto diversa dall'idea di Carl G.Jung in base alla quale è l'inconscio del paziente a sapere dove guidare la terapia più che l'esperienza e la competenza dell'analista. Inoltre si accorda con l'idea generalmente accettata che la maggior parte del cambiamento terapeutico deriva dal lavoro che fa il paziente, e non tanto dal lavoro che fa il terapeuta.
Abbiamo anche a che fare con una forte tradizione che trova le sue radici negli insegnamenti di Harry Stack Sullivan e nei teorici della psicologia interpersonale, dove qualsiasi reificazione viene considerata autoritaria, distanziante e contraria all'instaurazione di uno spazio terapeutico soddisfacente.
Per utilizzare una terminologia della terapia di gruppo, esso va assolutamente contro i modelli della terapia individuale in gruppo e contro le tecniche di gruppo che coinvolgono soltanto interpretazioni del gruppo a livello di gruppo. In entrambe queste due posizioni c'e un' assunto, un'ipotesi soggiacente per cui è il terapeuta che sa, o almeno sa cosa sta succedendo, quindi ha delle informazioni che non sono a disposizione dei partecipanti al gruppo o che comunque vengono comunicate loro sotto stretto controllo del terapeuta.
Con il principio dell' agency,  le cose vanno diversamente: l'autorità è fluida e può essere messa in questione, non è fissata ma viene negoziata, e la cultura che ne risulta è una cultura di empowerment.  Si accetta una asimmetria, una differenza tra il terapeuta e il paziente, ma si rifiuta un'ipotesi automatica di superiorità. I membri partecipanti riconoscono che chiunque nel gruppo può avere argomenti per un cambiamento.


*  n.d.t.  Il termine agency è utilizzato per indicare una agenzia, come quella dei viaggi, una organizzazione, una squadra. Ma anche come una forza, una potenza che produce un risultato. Un modo di renderlo nella lingua italiana, per l’ ambito usato dall’ autore, potrebbe essere nuclei di cambiamento, o per il cambiamento.

Tutto questo va molto al di là dell'idea originale di una gerarchia appiattita o quello che una volta era chiamata democratizzazione, secondo Robert Rapoport; non è tanto un'idea alla moda o una linea di condotta politica imposta su una struttura o su un'unità; essa richiede assolutamente il riconoscimento
profondo del valore intrinseco di  ogni individuo, che può produrre un risultato. Non si tratta neanche di una teoria dell'armonia, per cui diremmo semplicemente che dovremo trovare questa forza dentro le persone, poiché comprende anche dinamiche fortemente distruttive di invidia, di odio che esistono in tutti noi e talvolta non sono raggiungibili.
Tuttavia, lavorare in questo modo presuppone la possibilità di un grado di intimità considerevole; si tratta di un'intimità che è sicura, aperta e terapeutica, e non spaventosa, buia e violenta.
Il modo in cui noi affrontiamo le situazioni difficili, come votiamo rispetto all'entrata, l'ammissione di qualcuno, l'allontanamento, questa è la dimostrazione del potere che hanno i membri della  comunità e del fatto che ognuno deve prendersi la responsabilità delle decisione che prende. Dal punto di vista del processo evolutivo in effetti noi notiamo delle persone all'inizio del loro programma che hanno grosse difficoltà, per esempio, a votare; verso la fine dei diciotto mesi essi sono
proprio quelli che spiegano ai nuovi arrivati perché è così importante, per esempio, votare. Quindi  ha avuto  luogo un processo evolutivo nel corso del programma.

Vorrei concludere tornando all'idea dello sviluppo emotivo secondario. Con questo termine rappresentiamo quello che intendiamo fare ricreando queste cinque condizioni nella comunità terapeutica. Ci sforziamo di fornire uno spazio psichico nel quale le cose che sono andate male o si sono bloccate nel corso dello sviluppo emotivo primario possono essere rivissute e rielaborate in questo spazio artificialmente creato, cioè lo spazio dello sviluppo emotivo secondario; naturalmente non sarà mai la stessa cosa di una buono relazione originaria madre-bambino,  o altrettanto buona e nutritiva, ma noi ci sforziamo di renderla la migliore possibile.
Sto tentando di descrivervi, di parlarvi dell'esperienza dell'ambiente, che vale ed è vera anche quando parliamo di altri setting, di altri ambienti, la scuola, l'ufficio, le aziende o il reparto ospedaliero, ma anche quando parliamo di famiglia, di comunità terapeutica, cioè qualsiasi setting nel quale un gruppo di persone sono impegnate emotivamente in qualche compito evolutivo.
Quindi, non sono aspetti che hanno a che vedere soltanto con le unità ospedaliere di tipo psichiatrico un po’ estranee da quelle che noi chiamiamo comunità terapeutiche, ma veramente hanno a che fare con la vita quotidiana e con la lotta, nel tentativo di soddisfare i bisogni che ognuno di noi ha.




Traduzione italiana a cura di Metello Corulli

Terapia di Comunità
Rivista bimestrale di psicologia
www.terapiadicomunita.org
Rivista ufficiale della Comunità Terapeutica IL PORTO onlus
Via Petrarca 18 - 10024 Moncalieri(TO)
www.ilporto.org


Direttore della Winterbourne Therapeutic Community
Presidente dell’Association Therapeutic Communities

Lettura magistrale tenuta il 23 maggio 2000
Sala Primo Levi Moncalieri

Nell’ ambito del ciclo “ Dedicato a …”
Organizzato dalla Comunità Il Porto

Patrocinio Regione Piemonte
Asl 8 di Chieri
ATC, Associazione per la Terapia di Comunità

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