Hannah Arendt, l’ebrea che scandalizzò il mondo mostrando la “banalità” dello sterminio nazista
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Gennaio
27, 2014 Luigi Amicone
Nel film magistrale di Margarethe Von Trotta i quattro anni in cui la
filosofa perse gli amici e la reputazione raccontando il processo Eichmann e la
“burocrazia” della Shoah. Proiezione straordinaria per i lettori di Tempi
IN SALA CON TEMPI
Il settimanale Tempi invita i lettori a una proiezione straordinaria del film “Hannah Arendt” di Margarethe Von Trotta.
Appuntamento martedì 4 febbraio alle ore 21 presso l’Uci Cinema Bicocca. Scrivete all’indirizzo redazione@tempi.it per prenotare il posto in sala. Presentandovi con una copia del settimanale pagherete il biglietto d’ingresso soltanto 5 euro
Il settimanale Tempi invita i lettori a una proiezione straordinaria del film “Hannah Arendt” di Margarethe Von Trotta.
Appuntamento martedì 4 febbraio alle ore 21 presso l’Uci Cinema Bicocca. Scrivete all’indirizzo redazione@tempi.it per prenotare il posto in sala. Presentandovi con una copia del settimanale pagherete il biglietto d’ingresso soltanto 5 euro
Non abbiamo capito nulla se pensiamo che il “Giorno della Memoria” sia un
momento di esorcismo collettivo, utile a suscitare tutt’al più una 24 ore di
emotività, compassione e simpatia per gli ebrei. Una volta, quando i
palestinesi iniziarono a disonorare le loro bandiere lanciando ragazzi
imbottiti di esplosivo contro altri ragazzi colpevoli soltanto di essere israeliani,
aprendo così una nuova era di empietà totalitaria (a cui qualcuno ha offerto
giustificazione e finanche ammirazione), Alain Finkielkraut scrisse che in
Occidente il peggiore antisemitismo non si manifesta nei rozzi “naziskin”. Ma
in quanti, soprattutto a sinistra, sono pronti a sciogliersi nella
commiserazione per gli ebrei morti, ma non per gli ebrei vivi. D’altra parte,
per fare vera “memoria” uno deve chiedersi: ma da che pianeta è venuta quella
genìa di belve che pianificò ed eseguì materialmente l’Olocausto? Erano
marziani? Mostri? O cos’altro erano? Diavoli? Niente di tutto ciò (e nemmeno
naziskin), risponde l’ebrea Hannah Arendt raccontata nel film di Margarethe Von
Trotta.


Ecco, per capire e tramandare una memoria veramente viva e veramente efficace della Shoah, sostiene la Arendt che ci viene magistralmente narrata da una grande regista e dalla strepitosa sceneggiatura di Pam Katz, bisogna ricordare e tenere sempre bene a mente questa terribile verità: per la prima volta nella storia, milioni e milioni di esseri umani inermi furono trucidati, gasati, arsi nei forni, resi polvere al vento, non per lo scatenamento di un odio irrefrenabile e apocalittico divenuto follia di massa. Ma per una grigia teoria che ha cominciato col marchiare un certo gruppo religioso e sociale, impedendogli di fare cose che fanno tutti (lavorare, salire su un autobus, scrivere, insegnare, educare secondo la propria coscienza, identità e cultura). A un certo punto, la teoria ha finito per tirare le conseguenze e ha spalancato le porte all’inferno come normalità impiegatizia. Le uccisioni di massa diventano un affare di normale procedura e organizzazione di Stato (nel caso, con tipica determinazione teutonica). Massimo impiego di poteri impersonali, straordinaria perizia logistica e immenso dispiegamento di mezzi e uomini.
Possiamo immaginare cosa
c’è dietro la possenza di una macchina statale impiegata nella deportazione,
uccisione e cancellazione delle tracce di sei milioni di persone? Sì, se
ascoltiamo Eichmann a Gersualemme: «Sì, avrei ucciso mio padre, l’avrei fatto
se mi avessero dato l’ordine di farlo». In effetti, l’1 settembre 1939, Hitler
ordina di ottemperare immediatamente al decreto legge che, nell’agosto dello
stesso anno e con tutti i crismi medico-legali e pareri delle eminenti Corti
tedesche deputate al caso, autorizzava gli organi dello Stato, medici e
funzionari della sanità, a dare “la morte per grazia” ai malati mentali e
incurabili. A quel punto si era trovata la “soluzione” anche per gli ebrei (in
precedenza si era pensato di imbarcarli e spedirli in Madagascar).
Un’impresa “industriale”
I russi entrano a Treblinka nel luglio 1944. Verosimilmente, è la data degli ultimi “carichi”, ultimi “trasporti”, ultima fase dello sterminio di un popolo. Dunque, occorsero meno di cinque anni per trasportare, uccidere, incenerire, occultare sei milioni di persone. Facendo i conti a spanne, si è trattato di una colossale impresa “industriale” realizzata all’incredibile media di oltre un milione di uccisioni l’anno, centomila al mese, più di tremila al giorno, centocinquanta all’ora. Quasi tre persone uccise ogni minuto. Per cinque anni. E mentre caricavano treni e facevano sparire gli ebrei, i tedeschi dovevano affrontare la vita quotidiana, la guerra, l’offensiva su tutti i fronti delle potenze alleate; dovevano far sparire gli ebrei e nel contempo combattere al fronte, fare la spesa e caricare i treni, vestire i bambini e avere gli incubi per il bambino ebreo della porta accanto che loro stessi avevano denunciato alla Gestapo.
I russi entrano a Treblinka nel luglio 1944. Verosimilmente, è la data degli ultimi “carichi”, ultimi “trasporti”, ultima fase dello sterminio di un popolo. Dunque, occorsero meno di cinque anni per trasportare, uccidere, incenerire, occultare sei milioni di persone. Facendo i conti a spanne, si è trattato di una colossale impresa “industriale” realizzata all’incredibile media di oltre un milione di uccisioni l’anno, centomila al mese, più di tremila al giorno, centocinquanta all’ora. Quasi tre persone uccise ogni minuto. Per cinque anni. E mentre caricavano treni e facevano sparire gli ebrei, i tedeschi dovevano affrontare la vita quotidiana, la guerra, l’offensiva su tutti i fronti delle potenze alleate; dovevano far sparire gli ebrei e nel contempo combattere al fronte, fare la spesa e caricare i treni, vestire i bambini e avere gli incubi per il bambino ebreo della porta accanto che loro stessi avevano denunciato alla Gestapo.
Anche solo riandare alla
situazione della Germania di fine anni Trenta del secolo scorso e alla
tempistica dell’Olocausto fa rabbrividire. Eppure dice Eichmann: «Non ho torto
un capello a un ebreo, smaltivo carichi in via amministrativa». Questo è il
brand del male per il quale un’ebrea, filosofa e storica tedesca rifugiata in
America, conia il termine “totalitarismo”. Qualcosa che non si era mai visto
prima. Qualcosa che si sarebbe rivisto nel comunismo di Lenin, Pol Pot, Mao Tze
Tung e oggi in Corea del Nord. Qualcosa – nazismo e comunismo – di cui ha
scritto il romanzo definitivo Vasilij Grossman.


Nel caso di Hannah la questione è più seria e complicata. Voleva capire. E in più, aveva anche un motivo molto personale per approfondire la comprensione di certi fatti. Forse a guidare la cocciutaggine di Hannah (o “arroganza”, come ripetono nella pellicola i suoi detrattori) fu il pensiero del doppiopesismo con cui da una parte venne unanimemente condannato il suo “re nascosto e segreto” (l’amato Martin Heidegger) per la sua adesione al nazismo. Dall’altra era scesa una spessa coltre di silenzio sulle responsabilità di certi capi dell’ebraismo nella collaborazione con gli aguzzini degli ebrei. Argomento che durante il processo a Gerusalemme, a parere di Hannah, venne «deliberatamente e inspiegabilmente evitato». Dopo di che, ebbe certamente le sue ragioni Kurt Blumenfeld, definitivamente perduto come amico: «Hannah, questa volta hai esagerato».
Ed eccoci dunque al secondo corno spinoso del film di Von Trotta: nelle sue
corrispondenze da Gerusalemme e da altre ricerche che Arendt aveva svolto in
Europa (poi rifluite nel libro La banalità del male), erano emersi fatti
che dimostravano l’avvenuta collaborazione all’Olocausto di alcuni capi di
agenzie e consigli ebraici. Oltre che nei dialoghi, nel film questa tragedia è
evocata dall’immagine di repertorio in cui si vede uno spettatore al processo
che interrompe con urla e invettive la deposizione di un rabbino ungherese.
L’amico e teologo Gershom Scholem scriverà in proposito ad Hannah: «Ho
ammesso che il problema è abbastanza reale. Perché, allora, il tuo libro
dovrebbe comunicare una sensazione di amarezza e di vergogna così forte che non
riguarda il contenuto, bensì l’autore?». Ecco, prosegue Scholem le cui parole
nel film vengono messe sulla bocca di Kurt, «nella tradizione ebraica c’è un
concetto, difficile da definire e tuttavia abbastanza concreto, che conosciamo
come Ahabath Israel: “L’amore per il popolo ebraico”. In te, cara Hannah, non
ne trovo traccia».

Comunque sia, questo è il clima che fa da cornice al viaggio di Hannah a
Gerusalemme e alle sue corrispondenze e riflessioni sulla Shoah. In definitiva,
è un vero peccato che la proiezione in Italia di questo film distribuito da
Nexo Digital e Ripley’s Film sia prevista solo nei giorni 27 e 28 gennaio.
Dovrebbero poterla ascoltare e vedere tutti la storia di una donna che ebbe
contro il mondo perché il mondo pensava che lei, famosa e brillante ebrea in
carriera, sarebbe andata a Gerusalemme per scrivere ciò che il mondo si
aspettava che lei scrivesse. Spettacolo dell’orrore, indignazione per il
mostro, compassione per gli ebrei. Hannah fece molto di più. Guardò in faccia
gli autori del male e mostrò che non è difficile essere come loro.
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