giovedì 6 febbraio 2014

ABBANDONARE UN BAMBINO: UN’AUTENTICA FORMA DI ABUSO

ABBANDONARE UN BAMBINO: UN’AUTENTICA FORMA DI ABUSO

Di Luigia Belli

L’articolo 19 della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, firmata e ratificata a New York da 193 paesi, definisce l’abuso come “ogni forma di violenza, di oltraggio o di brutalità fisiche o mentali, di abbandono o di negligenza, di maltrattamenti o di sfruttamento”.
 Di fatto l’abbandono di un bambino, che non a caso in Italia trova una sua specifica norma sanzionatoria nel Codice Penale (Delitti contro la persona), implica una forma di violenza giacché l’adulto deputato alla sua assistenza non costruisce o interrompe quella relazione di tutela e protezione globale che ne garantisce l’armonico sviluppo.
Tutti noi ci indigniamo quando vediamo in televisione immagini di bambini abbandonati, colte in chissà quale paese lontano dal nostro.
Ma il fenomeno dell’abbandono, e della conseguente rottura dei legami affettivi del bambino, non è un fenomeno circoscritto ai paesi poveri. E’ un fenomeno globale, che interessa da molto vicino anche le realtà dei paesi industrializzati e che si impone come un’autentica emergenza quando si leggono i numeri: 145 milioni di bambini nel mondo privi di cure genitoriali!
La realtà italiana, se conosciuta, non è meno drammatica. La Commissione Parlamentare dell’Infanzia, nella sua relazione del luglio 2004, ha evidenziato la carenza di dati ed informazioni esatte in merito alla situazione nella quale versano nel nostro paese migliaia di bambini fuori dalla famiglia. La stessa Commissione, per esempio, segnala che gli ultimi dati ISTAT in merito risalgono addirittura al 1998 e quindi non possono essere considerati completi; i bambini istituzionalizzati – se per Istituto intendiamo una struttura che accoglie un numero superiore ai 12 bambini – dovrebbero essere circa 2600, di cui oltre la metà ha meno di 11 anni. Si somma un folto gruppo di bambini – il cui numero oscilla tra 15.000 e 20.000 – che vivono presso comunità familiari o educative; si contano, infine, circa 10.000 bambini in affido. Da una rilevazione condotta dall’Istituto degli Innocenti di Firenze nel 1999, sappiamo che la prima causa di abbandono dei bambini è da addurre ai problemi economici della famiglia di origine. Non meno incisivi sono i problemi abitativi e/o lavorativi dei genitori.
La stessa incertezza avvolge la messa in opera della Legge 149 del 2001, che prevedeva la chiusura degli Istituti entro il 31 dicembre del 2006. All’assenza di un censimento esatto del numero degli Istituti presenti sul territorio nazionale, si è andata a sommare anche l’assenza di linee guida che indicassero le modalità di riconversione degli Istituti in luoghi capaci di riprodurre dinamiche di tipo familiare. A tal proposito, l’Istituto degli Innocenti ha evidenziato come a fronte della progressiva ed effettiva riconversione degli istituti che si è registrata, manca una fotografia chiara e nitida delle modalità di riconversione, per cui accade che spesso una semplice ripartizione fisica degli ambienti dell’istituto in strutture simili ad appartamenti ha soddisfatto i criteri della legge, senza rispondere però alle necessità dei bambini accolti.
A tal fine, Pasquale Andria, Consigliere dell’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e la Famiglia, rispetto alla chiusura degli Istituti in Italia, ha espresso la preoccupazione che si potesse verificare “un lifting degli istituti, ovvero le strutture che si rinnovano da un punto di vista cosmetico ed esteriore, lasciando inalterata la sostanza (…) Quando affermiamo queste cose, non vogliamo disconoscere il valore che storicamente l’assistenza, la storia dell’assistenza, ha avuto in questo paese come in altre parti; è che abbiamo una chiara coscienza che questo tipo di risposta è assolutamente insufficiente e, possiamo dire, addirittura distruttiva, rispetto agli interessi, che non sono solo di sopravvivenza, ma sono essenzialmente di crescita, della formazione del bambino”.
Storicamente l’Istituto, che alla data attuale non dovrebbe più esistere, è stato creato con il preciso obiettivo di prendersi cura dei bambini abbandonati dalle proprie famiglie e garantire loro la sopravvivenza, diversamente da quanto accadeva prima dell’avvento del Cristianesimo, quando il padre che non desiderava il proprio figlio lo esponeva al pubblico presso la “columna lactaria” e lì il bambino moriva di stenti o veniva preso da chi intendeva farne un prossimo schiavo.
Negli ultimi decenni, però, è stata universalmente riconosciuta l’importanza della relazione affettiva e personalizzata nella crescita e nello sviluppo del bambino, pertanto l’Istituto, in grado solo di soddisfarne i bisogni fisici, diventa un luogo carente ed incapace di garantire il riconoscimento di un diritto fondamentale del bambino: quello ad una vita e ad una crescita sana. 
Il famoso esperimento sulle scimmie di H. Harlow, psicologo sperimentale, ci aiuta a comprendere la gerarchia di necessità del bambino davanti ad un abbandono. Ricorderemo che Harlow chiuse in una gabbia   alcune scimmiette, dopo averle separate dalla madre. Infilò nella gabbia due “madri sostitute” artificiali: una “madre” metallica che erogava latte da un biberon e una “madre” di peluche sprovvista di latte. Lo studio del comportamento dei primati evidenziò che i cuccioli preferivano trascorrere la maggior parte del tempo con la madre sostituta di peluche e si dirigevano dalla madre sostituta metallica spinti solo dalla necessità di cibo, ma senza instaurare con lei nessun tipo di vincolo. Alcuni primati addirittura si recavano dalla madre metallica solo a seguito di uno stimolo esterno, preferendo rimanere accovacciati a ridosso del peluche per soddisfare la propria necessità di contatto e di affettività.
Gli studi di René Spitz, ancora, ci dimostrano ed illustrano le conseguenze di un’interruzione del dialogo all’interno della diade mamma – bambino provocata da un allontanamento della madre. Le carenze affettive legate all’assenza di una figura in grado di prendersi cura del bambino ostacolano in forma grave lo sviluppo dello stesso fino ad esporlo al rischio di una “depressione anaclitica”.
Entrambi gli studi, condotti già qualche decennio fa, sin da allora mettevano in luce una scala di valori chiara per il bambino. In quest’ottica, ovviamente, l’Istituto, nelle sue più svariate forme di accoglienza, non rappresenta la risposta adeguata per un bambino perché non è in grado, per la sua stessa natura e indipendentemente dall’impegno e dalla professionalità delle persone che vi lavorano, di soddisfare le esigenze affettive del minore. Come afferma lo psicologo Leonardo Luzzatto, l’Istituto rappresenta “una risposta funzionale alle necessità sociali dell’adulto”,   piuttosto che a quelle del bambino.
Winnicot meglio di chiunque altro spiega come la rottura della continuità per il bambino possa implicare una “privazione” o una “deprivazione” e quali ne siano le drammatiche conseguenze. Quando il bambino perde un contesto fisico, relazionale ed emotivo, vissuto molto positivamente (una famiglia che si disgrega, una madre che si allontana, etc), viene “deprivato” e la perdita può provocare tanta rabbia e frustrazione da generare autentiche condotte antisociali. La privazione, cioè il fallimento delle prime “provvidenze fondamentali dell’ambiente” può avere come conseguenza l’annientamento dell’individuo.
Il mio lavoro mi ha portato negli anni ad avere molti contatti con adolescenti che da anni … alcuni dalla nascita, vivevano istituzionalizzati. Spiccava la “naturale” tendenza a rubare e il furto, anche degli oggetti più insignificanti, era un gesto ormai comune all’interno dell’ambiente “istituzionale” nel quale vivevano. L’uscita dall’Istituto, al compimento della maggiore età, rappresentava per molti l’ingresso immediato nel mondo della micro criminalità. Winnicott, parlando della tendenza antisociale, sostiene che il bambino quando ruba, non vuole le cose che ruba, ma è alla ricerca di qualcosa a cui ha diritto. Il ricovero del bambino privo di cure genitoriali in strutture di accoglienza diverse da un contenitore familiare, anche quando all’inizio è previsto come fase temporanea, si trasforma molto spesso in lunghi anni di permanenza in strutture pedagogicamente non idonee. Spesso chi di competenza non agisce con la solerzia che il caso meriterebbe, spesso si rimane incastrati nell’intricata maglia burocratica di farraginose indagini, spesso molte autorità dimenticano la priorità che toccherebbe al “superiore interesse del minore”: il risultato per migliaia di bambini nel mondo è quello di una infanzia interamente trascorsa in una struttura di ricovero. Posto che il ricorso all’istituzionalizzazione di un bambino abbandonato è dannoso e dovrebbe rappresentare l’ultimo doloroso ripiego, se ne deduce che quanto più si protrae la permanenza del bambino, tanto più proporzionatamente aumenta la gravità del danno arrecato. Le carenze affettive provocano nel tempo effetti altamente negativi sull’evoluzione psichica e, spesso, anche su quella fisica, e tali effetti possono spesso pregiudicare il minore in forma irreversibile, restituendo alla società giovani problematici a cui, loro malgrado, è stato arrecato un danno. La consapevolezza di essere rimasti vittime di un abuso “istituzionale” sta spingendo in questi anni molti giovani (ne abbiamo attualmente esempi concreti in Bolivia e in Brasile) a chiedere un risarcimento allo Stato per la violazione del diritto che avevano a crescere nel seno di una famiglia sostituta.
Qualunque sia la attuale forma di accoglienza, sarebbe auspicabile che il bambino viva effettivamente una situazione transitoria che lo porti in tempi ragionevoli a recuperare il proprio diritto a vivere e crescere all’interno di una famiglia, sia essa quella di origine o una famiglia sostituta. E’, infatti, solo all’interno del contenitore familiare adeguato che il bambino potrà soddisfare tutte le esigenze per una crescita equilibrata, è solo in figure di attaccamento certe e stabili (“la madre sufficientemente buona”) che potrà identificarsi e trovare quell’affettività e quella protezione di cui ha bisogno per svilupparsi in forma armonica.
Eppure, oggi, il fenomeno dell’abbandono non appare agli occhi dell’opinione pubblica come una reale forma di abuso e non trova nei mass media una voce adeguata per imporre la sua magnitudine.
Nel 2007, la Gfk – Eurisko ha condotto una ricerca sulla percezione del fenomeno dell’abbanono da parte dell’opinione pubblica italiana. Il risultato ha evidenziato aspetti variegati e contraddittori del problema ed ha messo in luce come l’abbandono e la conseguente istituzionalizzazione del minore siano realtà sconosciute ai più. Del campione di intervistati, solo il 48% percepisce l’abbandono come assenza di relazioni familiari, al punto che solo il 4% associa


Lilium Soc. Coop. Sociale a.r.l. ONLUS - 

Sede Legale: via Verdi, 18 - 66020 San Giovanni Teatino (CH) Italia
www.cooplilium.it
P.Iva/C.F./Reg. Imprese: 02081170694 - Reg. Imprese di Chieti - REA: 150621 - Albo Soc. Coop.: A119138 - Capitale sociale: € 5.5000,00 i.v.
tel./fax Uffici Amministrativi +39 085.9431044 /  +39 085.9431264  - tel./fax Ass. Sociali 085.9431296 /  +39 085.9431929 

sito web: www.cooplilium.it - mail: info@cooplilium.it - marketing@cooplilium.it - assistentisociali@cooplilium.it

Nessun commento:

Posta un commento