domenica 23 febbraio 2014

IL MODELLO DEMOCRATICO DELLA COMUNITÀ TERAPEUTICA: METODOLOGIE ED ESITI


IL MODELLO DEMOCRATICO DELLA COMUNITÀ TERAPEUTICA: METODOLOGIE ED ESITI


Anno 4, n.20, maggio 2004
Norton,Kingsley

Terapia di Comunità
Rivista bimestrale di psicologia
www.terapiadicomunita.org
Rivista ufficiale della Comunità Terapeutica IL PORTO onlus
Via Petrarca 18 - 10024 Moncalieri(TO)
www.ilporto.org


Lettura magistrale tenuta il 16 novembre 1999 presso la Sala Primo Levi – Moncalieri

per iniziativa di:
Comunità Terapeutica “Il Porto”

col patrocinio di:
ATC - Associazione per la Terapia di Comunità
Regione Piemonte
ASL 8 - Chieri

L'Henderson Hospital è una nota Comunità Terapeutica che insieme al Cassel Hospital ooccupa un posto di
primo piano nello sviluppo di questo genere di istituzioni per la cura della malattia mentale. É legata indissolubilmente a Maxwell Jones, allievo del Prof. Henderson, il quale fu uno dei padri del Movimento delle Comunità Terapeutiche, e che la diresse dal ’46 al ’59. Successivamente è stato diretto da J. Stuart Whiteley.
Col passare degli anni, l'Henderson ha saputo adeguarsi all'evoluzione dei tempi e sta vivendo oggi un periodo d'espansione all'interno del National Health Service, conservando tuttavia l'orientamento originario di stampo psicosociale che ha saputo integrare costruttivamente psicoterapia e socioterapia. Dal 1989 è diretto da Kingsley Norton.
Kingsley Norton è un analista di formazione junghiana che ha pubblicato molti lavori sull’International Journal of Therapeutic Community. Uno di questi ha per titolo “La cultura dell‘ indagine: la sua conservazione o la sua  perdita (1992)”, e tratta dei processi di conoscenza fondamentali per la vita di una comunità.
Un'ampia descrizione ed una sintesi storica dell'esperienza di questa Comunità sono reperibili agli indirizzi internet:


PRIMA PARTE: LA METODOLOGIA

Introduzione

Nella prima parte del mio intervento vorrei parlarvi del modello di trattamento dell’Henderson Hospital per pazienti affetti da gravi disturbi della personalità, mentre nella seconda parte del mio intervento mi soffermerò su alcuni risultati delle ricerche che abbiamo condotto nella nostra comunità.
In Inghilterra il  trattamento dei disturbi gravi di personalità rappresenta un problema molto serio, poiché è evidente che i risultati ottenuti con i trattamenti terapeutici in ospedale e nei centri territoriali sono insoddisfacenti. Gli operatori che lavorano in ospedale sono spesso confusi, perplessi ed ansiosi: le condotte distruttive di questi pazienti suscitano forte preoccupazione, e molto spesso costituiscono la motivazione principale del ricovero, così come le loro dimissioni dall’ospedale. Quando successivamente vengono nuovamente trattati ambulatorialmente, gli operatori dei servizi territoriali sono anch’essi perplessi ed ansiosi e desiderano che questi pazienti siano ricoverati nuovamente.
L’incoerenza di questi trattamenti non può che aumentare lo stato di confusione dei pazienti, i quali si trovano talvolta a ricevere grande sostegno e calore umano, mentre in altre circostanze devono confrontarsi con un approccio molto rigido e contenitivo. Purtroppo questi pazienti hanno molta familiarità con l’incoerenza, avendola vissuta per lunghi periodi durante gli anni della loro crescita; per questo motivo un atteggiamento oscillante e incoerente da parte di coloro che li hanno in cura è a loro fin troppo noto, e non rappresenta uno stimolo alla riflessione che possa indurre un cambiamento del proprio assetto comportamentale patologico.
Per questi motivi è nata l’esigenza di una struttura intermedia che si situi tra l’ospedale ed i servizi territoriali. Questa struttura avrebbe dovuto necessariamente proporre un intervento diverso per tali disturbi, alternativo alla scissione tra un atteggiamento accogliente e sostenitivo ed uno autoritario e punitivo. Tale approccio doveva cogliere e accettare la fragilità esistente nel paziente, e concentrarsi al tempo stesso sui comportamenti patologici consolidati.
Nelle Comunità Terapeutiche si lavora per manipolare l’ambiente psico-sociale al fine di produrre dei cambiamenti realisticamente auspicabili negli individui. Con il termine “ambiente” intendo riferirmi all’ambiente interpersonale nella sua totalità, che si compone di tutte le persone che ci vivono e lavorano.
Il punto cruciale riguarda le responsabilità: la responsabilità del trattamento non è assunta unicamente dai terapeuti, ma è preoccupazione e dovere di tutti i membri della comunità, in particolare dei pazienti. Un altro punto cruciale è che i pazienti vengono coinvolti  in lavori veri che sono fondamentali per sostenere il microcosmo rappresentato dalla Comunità Terapeutica.
Pare che i pazienti vivendo in questa micro-società abbiano tipi di esperienze diverse rispetto a quelle che hanno avuto quando vivevano nella macro-società, nella società esterna. Come già ho ricordato prima, questi pazienti sono molto abili nel suscitare dei comportamenti estremi e polarizzati negli operatori: fanno sì che le
persone  mettano in atto un rifiuto o si coinvolgano eccessivamente nella loro cura. Nella misura in cui gli operatori si adeguano a questi ruoli, indotti dai pazienti, viene a stabilirsi una dinamica relazionale molto familiare la quale, non introducendo elementi nuovi, non spinge i pazienti a pensare. Al contrario un ingrediente essenziale del trattamento consiste proprio nel creare un ambiente che, rappresentando una sfida per il paziente, lo obblighi a pensare. Non un pensare esclusivamente cerebrale, intellettuale, ma un pensare collegato ai sentimenti.
Mantenere viva una cultura di questo tipo è tutt’altro che semplice, e gli operatori devono lavorare molto per conservarla; a questo scopo l’ organizzazione sociale della comunità terapeutica è fondamentale. Entrerò nei particolari di questi due aspetti.


1 - L’Henderson Hospital

La Comunità

L’Henderson è una piccola struttura delle dimensioni di un comune reparto ospedaliero inglese: dispone di 29 posti letto e l’ispirazione terapeutica vuole coniugare interventi socioterapici e psicoterapici.  Non si praticano terapie farmacologiche, né terapie individuali, vi è un numero quasi pari di donne e di uomini e la durata massima di permanenza è di un anno, con una media di 6-7 mesi.
I residenti sono per la maggior parte single senza lavoro, e molti di loro sono stati sottoposti sia a trattamenti ospedalieri che ambulatoriali; un terzo circa ha avuto trattamenti psichiatrici fin da bambino.
La maggior parte dei pazienti ha effettuato un forte abuso di alcol e di sostanze, non necessariamente nel momento dell’invio, ma durante i periodi precedenti ella loro esistenza. Parecchi sono i casi di autolesionismo e i tentativi di suicidio; circa la metà, sia uomini sia donne, hanno subito abuso sessuale, circa un quinto ha vissuto l’infanzia fuori della famiglia (orfanotrofi o altro).
Un altro modo di analizzare il gruppo dei pazienti è considerarli dal punto di vista della classificazione diagnostica del DSM IV: borderline è la diagnosi più diffusa, seguita da disturbo paranoico e istrionico; lo schizotipico e l’antisociale seguono quasi con la stessa percentuale.


Il Personale

Abbiamo tra i 25 – 30 operatori clinici, di cui quasi la metà sono infermieri; 6 sono terapeuti sociali e generalmente sono giovani psicologi o sociologi che vengono da noi per acquisire un’esperienza clinica e perfezionare la propria formazione. Il personale infermieristico e i terapeuti sociali lavorano di notte, nei week-end e fanno alcuni turni durante il giorno: in questo modo si cerca di minimizzare la scissione fra gli operatori che lavorano solo di notte e quelli che lavorano solo di giorno, da cui potrebbero conseguire atteggiamenti e pratiche contraddittorie.
Ci sono poi quattro medici, due consulenti e due operatori giovani, una capo infermiera con esperienza “senior”, un'assistente sociale e un arteterapeuta per le attività creative.
A questi va aggiunto il personale che compie ricerca, il personale amministrativo e una persona che si occupa delle pulizie. I residenti sono coinvolti nella pulizia dei locali insieme a questa persona.
Inoltre esiste un’altra équipe di operatori che si occupa di costruire e mantenere una rete di rapporti tra la comunità e il territorio esterno alla comunità.


Dimensioni

Personalmente ritengo che una comunità debba ospitare idealmente fra i 20 – 30 residenti, per diverse motivazioni; una di queste risiede nel fatto che un gruppo sufficientemente numeroso di residenti rende possibile l’esercizio di quella funzione di sostegno reciproco di cui parlerò in seguito. Oltre a ciò, vi è un altro aspetto importante: per aiutare le  persone a ristabilire un certo livello di socializzazione, è necessario fornire loro una situazione nella quale possano fare esperienza di una dimensione gruppale con caratteristiche “sociali”, ed una più di tipo familiare. Poichè con 10-15 persone non è possibile fornire questa doppia esperienza, ritengo che il numero sia molto importante; d’altro canto, se si supera la trentina si può incorrere in problemi di contenimento e gestione. Una strutturazione che prevede dai 20 ai 30 pazienti potrebbe costituire la dimensione ideale: quello che definirei un “gruppo medio”, a metà tra il piccolo gruppo  e il grande gruppo.


Durata del trattamento

È importante soffermarsi sull’aspetto specifico della durata del trattamento. I pazienti che ospitiamo sono soliti aver vissuto una esistenza molto instabile: “raggiungere la destinazione senza riuscire a dedicarsi al viaggio” è una definizione che esprime efficacemente la loro incapacità di concepire il passaggio del tempo e anticipare il futuro. Nonostante ciò sembrano essere in grado di concepire l’idea di poter rimanere in un posto per un anno. Inoltre ritengo che sia importante il fatto che vi sia un termine definitivo, date le difficoltà dei residenti ad investire nella comunità e a stabilire delle relazioni interpersonali stabili: potrebbero spaventarsi di fronte a un rapporto aperto, senza un termine prefissato.
Anche per gli operatori può essere utile sapere che la durata del trattamento non supererà l’anno, in particolare quando si trovano a lavorare con alcuni pazienti molto difficili da sostenere per un lungo periodo.
Talvolta gli operatori sono dell’idea che un anno sia persino troppo, ma visto che il termine è stabilito fin dall’ inserimento siamo in grado di aiutare i pazienti a pianificare una conclusione del percorso e l’uscita dalla comunità.


L’ambiente Terapeutico

Buona parte dei nostri pazienti ha messo abitualmente in atto comportamenti distruttivi precedentemente all’ingresso in comunità. Per indurre i pazienti a non danneggiare se stessi, gli altri, gli oggetti propri od altrui è necessario dar loro una alternativa e sostenere il loro sviluppo sano: ritengo che sia fondamentale poter riconoscere in loro dei punti di forza e non solo la loro patologia perché il trattamento possa avere possibilità di successo.
L’obiettivo è fare in modo che le persone trovino delle condizioni attive, di affezione a sé o agli altri, per affrontare i propri problemi emotivi; così facendo possono entrare in contatto con i propri sentimenti ed esprimerli verbalmente.
E’ quindi necessario creare un ambiente interpersonale che non ripresenti le contraddizioni e le incoerenze di cui parlavo prima. A tal fine non è sufficiente avere uno psicoterapeuta a disposizione dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17  che agisca in modo coerente, e neppure un terapeuta coerente all’interno dell’ora che passa col paziente; è invece necessario, se possibile, offrire coerenza non solo per questo tempo, ma per tutte le ventiquattrore, e per tutta l’utenza in modo ampio.
Poiché il paziente prima o poi lascerà la comunità terapeutica, è molto importante che l’ambiente della comunità sia il più possibile simile all’ambiente esterno, in modo che qualsiasi cambiamento adattivo equipaggi il pazienti preparandolo a vivere al meglio anche all’esterno.
E’ quindi auspicabile che i pazienti portino nella comunità terapeutica i propri problemi interpersonali e personali e abbiano la possibilità di manifestarli, solitamente nel gruppo, prima di poterli verbalizzare. In questo senso la comunità terapeutica con pazienti affetti da disordini della personalità è molto diversa
dall’ospedale psichiatrico tradizionale dove questi sintomi verrebbero rimossi o con le regole, o con i farmaci.
Nella comunità terapeutica incoraggiamo la manifestazione dei sintomi, favorendo  l’esplorazione del loro significato profondo. Questo allo scopo di stimolare esperienze creative e nuove che rendano il paziente maggiormente consapevole di quello che avviene nell’ambito delle relazioni interpersonali.
I  pazienti molto distruttivi o autodistruttivi possono rappresentare un grosso rischio per la comunità. Per questo motivo è necessario identificare rapidamente i comportamenti etero o autolesivi, anche in circostanze nelle quali sono meno evidenti. All’Henderson Hospital abbiamo soltanto due operatori che fanno il turno di notte: per questo si fa grande affidamento nella collaborazione dei pazienti, affinché venga continuamente esercitata una funzione di contenimento e controllo.
Dovendo i pazienti divenire più attivi nella propria terapia, gli operatori rinunciano a parte dell’ influenza esercitata dal proprio ruolo.  A tale fine devono avere fiducia nei propri manager e supervisori che li sostengono in questo modello organizzativo innovativo.
E’ molto importante quindi che l’ambiente circostante, ed in particolare quello gestionale e dei servizi invianti, sia consapevole delle modalità di funzionamento e di lavoro della Comunità, condividendone gli obiettivi.


Organizzazione della giornata in comunità

L’organizzazione della giornata all’Henderson Hospital è così schematizzabile:

- 8,50 Passaggio di consegne:  i due operatori che hanno lavorato la notte aggiornano gli operatori che arrivano la mattina (circa dieci).
- 9,15 Riunione di comunità: Si svolge dal lunedì al venerdì con tutti i pazienti e gli operatori presenti.
-10,30 Resoconto staff: gli operatori si incontrano per fare il resoconto di quello che è accaduto nella Riunione di Comunità, in termini di dinamiche e di interazioni di gruppo.
-11,00 Piccoli gruppi terapeutici: hanno luogo tre volte la  settimana, e vengono condotti da più operatori
contemporaneamente.
-12,00 Incontro staff: gli operatori si riuniscono per parlare dei gruppi appena effettuati.
-12,15 Pranzo
-13,00 Staff meeting: subito dopo il pranzo ogni giorno c’è la riunione degli operatori. Vi prendono parte due supervisori esterni, e con regolarità viene utilizzata anche per esplorare i problemi esistenti nel gruppo degli staff.
-14,15 Gruppi di lavoro non verbale. Si tratta di gruppi di arteterapia, di psicodramma, o che si articolano attorno ad attività pratiche quali il giardinaggio e la manutenzione dei locali.
-16,15 Incontro staff: gli operatori e i co-terapeuti dell’èquipe si incontrano per parlare dei gruppi.
-17,00 Passaggio consegne: viene effettuato il passaggio di consegne ai due operatori della notte, con il coinvolgimento di tutti i pazienti.
-21,15 Summit

Questa organizzazione ha tra i suoi scopi quello di evitare gli incontri casuali tra i membri dello staff. Per altro può accadere che, in ogni momento nel corso delle ventiquattrore, si renda necessaria una riunione di emergenza a cui devono partecipare tutti i pazienti e tutti gli operatori. In tale eventualità, questa riunione viene convocata dai tre residenti anziani i quali costituiscono un collegamento tra i residenti e gli operatori, e che in queste occasioni svolgono anche una funzione di sostegno e contenimento; essa interrompe qualunque attività che ho appena descritto.
All’interno di questo programma, che si ripete per ogni giorno della settimana, le persone “devono” necessariamente interagire; così facendo si incontrano uno con l’altro letteralmente e metaforicamente. In tal modo l’essenza della sintomatologia interpersonale dei pazienti si manifesta appieno, connotando fortemente la vita della comunità.
In un setting spazio-temporale così definito, la psicoterapia è l’occasione offerta ai pazienti perché curino la propria patologia relazionale, sviluppando insight e strategie nuove per affrontare le diverse situazioni problematiche. Se riescono a sviluppare tali strategie per affrontare i problemi, hanno la possibilità di applicarle nel resto della giornata, all’interno della comunità e nei gruppi. Persone che non sono consapevoli dei propri sentimenti e li agiscono, possono così entrare in contatto con le emozioni del loro mondo interno.
 L’essenza di questo progetto terapeutico può riassumersi nella seguente definizione: “Da agire senza sentire,  si passa a verbalizzare sentendo”


La gestione della crisi

All’Henderson Hospital non viene fatto uso di psicofarmaci. Vi è però un sistema di sostegno umano esercitato dai pazienti più che dagli operatori, che noi abbiamo mutuato dall’ospedale psichiatrico, riadattandolo ai nostri obiettivi terapeutici. In particolare di notte, quando molti dei nostri pazienti attraversano momenti di forte malessere, il sostegno può assumere forme diverse: ad esempio un paziente può dormire per terra nella stanza assieme al paziente che sta attraversando un periodo di difficoltà, o il paziente sofferente può prendere il proprio materasso e unirsi ad altri pazienti,  in alcuni casi dormendo assieme a loro per terra sui materassi. Oppure coppie di pazienti svolgono turni di veglia della durata di due ore nei pressi dalla camera del paziente che sta male.
Talvolta questo tipo di supporto è sufficiente ad aiutare un paziente a superare una psicosi transitoria; più raramente capita che qualcuno se ne debba andare perché ha una psicosi che non risponde a questi metodi di contenimento,  e necessita di un trasferimento in un ospedale e di una terapia farmacologica.
L’applicazione di questo metodo al contesto italiano è ostacolata, secondo me, da una forma di pregiudizio ideologico, più che da motivazioni concrete che la rendono irrealizzabile. È possibile realizzare questa
metodologia di intervento nel momento in cui si riconosce che, a prescindere dal livello di compromissione psicopatologica, sono presenti aree funzionanti e risorse preziose nei pazienti.
Certamente un approccio di comunità terapeutica per pazienti psicotici necessita di una serie di modifiche nell’applicazione pratica di questi principi: ritengo che l’orario, la struttura, la cultura debbano essere necessariamente diversi. Comunque sono convinto che l’istituzione vada concepita come un complesso unico, lavorando perché gli  ingredienti terapeutici si armonizzino.
Anche in Inghilterra tuttavia,  vi sono operatori della salute mentale che non tengono nella dovuta considerazione l’ambiente totale dell’istituzione, sia rispetto alla sua valenza terapeutica che a quella antiterapeutica.

La riunione di comunità

I nostri pazienti hanno una grande capacità di negare i propri problemi; questo può suscitare molto disagio e sofferenza nel gruppo di persone di cui entrano a far parte. La riunione di comunità è un luogo privilegiato per affrontare questo malessere, e un momento fondamentale che la caratterizza è costituito dal feedback sugli avvenimenti che si sono verificati nel corso della notte e del giorno precedente.
Il fine è che le persone, i pazienti che hanno un senso molto discontinuo di sé e degli altri, riescano a stabilire dei collegamenti non solo tra il pensare e il provare dei sentimenti, ma anche tra cause ed effetti. In questo modo possono divenire più consapevoli delle oscillazioni emotive e comportamentali che li pervadono, avendo una restituzione dal gruppo di quello che concretamente è accaduto loro nelle ventiquattrore precedenti, e migliorando la percezione di se stessi e delle situazioni di interazione nelle quali inevitabilmente si coinvolgono.
Tutti i residente nella comunità hanno dei compiti; i residenti più anziani, i tre che noi chiamiamo “Senior”, hanno tra l’altro il compito di presiedere la Riunione di Comunità. Nella riunione si svolgono le votazioni  e si organizza la vita giornaliera della comunità: si ricorda ad ognuno chi deve pulire la cucina, i piatti, e le altre attività che ogni giorno vengono stabilite.
In genere è evidente la tendenza dei tre “Senior” a far sì che la riunione si irrigidisca molto; talvolta lo stile della presidenza della riunione è così efficiente che non vi è tempo né per pensare né per provare sentimenti. Ne risulta una certa tensione tra gli operatori che cercano di aprire uno spazio per il pensiero e per i sentimenti, e i  pazienti i quali vorrebbero concludere rapidamente la riunione, a prescindere dall'importanza
della questione. Sia che si tratti di una questione banale, che di una questione importante e problematica, tutto viene focalizzato sulla destinazione e non sul viaggio.
Si tratta spesso di una riunione molto intensa ed è per questo che i pazienti talvolta dicono di odiarla. La maggior parte di loro vi partecipa molto regolarmente anche perché se non vi partecipano o perdono più di 10 minuti della riunione (che dura 1 h e ¼)  il giorno successivo devono affrontare una votazione in merito alla possibile loro dimissione. Una quota non irrilevante di residenti finisce col lasciare la comunità, non riuscendo ad adattarsi a questo livello di partecipazione e responsabilizzazione.

2 – Funzioni e processi di autonomizzazione e di democratizzazione in comunità

Selezione e ammissione dei residenti

La selezione dei residenti destinati ad entrare all’Henderson Hospital avviene in un gruppo allargato composto da nove pazienti e tre operatori, e la decisione finale viene presa con una votazione di dodici voti, uno a testa. I pazienti costituiscono una rappresentanza pari al 75% del gruppo, e la sopravvivenza dell’ospedale dipende dalla capacità dei residenti nel selezionare nuovi pazienti simili a loro. Per questi ed altri aspetti, i pazienti con disordini della personalità non sono diversi da noi nel prendere delle decisioni.
Attraverso il colloquio di selezione i candidati si rendono conto della vita della Comunità, delle sue regole; si stabilisce una sorta di contratto informale che spinge il paziente a vivere secondo le regole della Comunità. Tutto questo rappresenta una sorta di sfida rispetto al comportamento abituale di passaggio all’atto. D’altra parte l’aspettativa è di una loro partecipazione attiva alla vita della Comunità, coerentemente con la nostra impostazione volta a sostenere e sviluppare le parti sane di questi soggetti.
Questo è parte di ciò che viene sintetizzato dal termine “socioterapia” che si realizza soprattutto nei momenti di interazione informale, nel corso dei quali i pazienti possono sperimentare delle strategie più elaborate per affrontare i problemi interpersonali, piuttosto che mettere in atto comportamenti impulsivi e non simbolizzati.
In accordo con il nostro progetto terapeutico, i pazienti entrando in Comunità vengono coinvolti attivamente nelle attività necessarie all’esistenza di questa micro società.
Nella convivenza con altri 28 soggetti con personalità simili, inevitabilmente emergono dei conflitti che riattivano i comportamenti psicopatologici. In una prima fase i residenti si trovano in difficoltà, ma gradualmente diventano più consapevoli dei propri sentimenti e vissuti risvegliati dalla convivenza comunitaria, e attraverso il sostegno e il confronto rinunciano progressivamente alla tentazione di ripetere i consueti agiti. Questi sono gli obiettivi idealmente raggiungibili attraverso questa pratica terapeutica di comunità.
Il più delle volte i pazienti che presentano tratti paranoidi o schizotipici mostrano grande scetticismo verso la Comunità e i rapporti umani; mancano totalmente della fiducia negli altri e non sono particolarmente adatti alla vita in Comunità.
Il loro trattamento risulta particolarmente problematico, anche a causa della grande difficoltà che gli operatori incontrano nel ricercare un contatto empatico, trovandosi intrappolati in forti oscillazioni emotive e di stati d’animo.
Un ulteriore rischio è rappresentato dalla possibilità che si stabilisca una pseudo alleanza con il paziente. Talvolta alcuni residenti si propongono come pazienti modello, ma in realtà non esistono motivazioni valide né indicatori di cambiamento che inducano a dimetterli. Dietro una maschera di questo tipo può nascondersi in molti casi una forte componente aggressiva e autolesionistica; l’obiettivo dell’intervento comunitario è quello di far emergere questi aspetti, favorendo le espressioni sintomatologiche attraverso la creazione dell’alleanza terapeutica, senza che per altro scaturiscano in comportamenti violenti che potrebbe portare a dover prendere un  provvedimento di espulsione.
Concretamente trascorrono almeno tre mesi prima che i pazienti inizino a non ripetere i comportamenti abituali: la stimolazione suscitata dalla vita in comune riattiva le modalità comportamentali disfunzionali e le azioni impulsive, e talvolta questo si traduce in un attacco al contratto o in una violazione delle regole della Comunità, rendendo inevitabile la dimissione.

La dimissione

Come per le ammissioni, la decisione è assunta collettivamente: il voto dei pazienti incide circa tre volte più di quello degli operatori. Attraverso aspetti così reali, quasi tangibili, i pazienti che negli anni del proprio sviluppo erano privi di potere, ora se lo devono assumere o almeno si trovano nelle condizioni di doverlo fare.
La funzione garante della condizione di sicurezza interna alla comunità, è fortemente condivisa con i pazienti stessi: sono loro che hanno maggiormente peso nel valutare il rispetto del contratto stabilito con la comunità, e nel prendere in considerazione l’ipotesi di allontanamento di un residente che si è reso protagonista di gesti pericolosi per sé e per gli altri. Questa decisione viene presa nel corso della Riunione di Comunità della mattina, e anche in questo caso il gruppo che si assume l’onere di questa decisione attraverso una votazione pubblica, è costituito per il 75% da residenti.
L’infrazione delle regole principali della Comunità può essere uno dei motivi di dimissione precoce rispetto all’anno. Molte persone vengono dimesse e riammesse più volte nel corso di un anno. Si tratta di una dimissione tecnica, in seguito alla quale questi pazienti perdono  temporaneamente alcuni diritti, quale il diritto di voto; ma se qualcuno appicca il fuoco o mette seriamente a rischio la propria sicurezza o quella altrui, viene dimesso immediatamente.
Dopo sei mesi possono rifare domanda per essere riammessi; questa è la regola per chiunque abbia lasciato la comunità, altrimenti le persone si sentirebbero libere di andarsene in qualsiasi momento fino allo scadere di un anno. Il tasso di “drop-out”, di uscite anticipate, è di circa il 50% .

Democrazia

La democrazia viene praticata attraverso la delega di potere, quindi l’assunzione di potere, e certamente esercita i propri effetti nella gestione dei confini.
D’altra parte vorrei sottolineare due aspetti: innanzitutto il processo decisionale sull’ammissione e la dimissione viene gestito in collaborazione tra staff e residenti. Gli operatori non rinunciano totalmente alla propria responsabilità, e mantengono una responsabilità continua nella gestione; sebbene abbiano solo 1/3 del voto, sanno esprimere molto bene le proprie ragioni e sono in grado di persuadere gli altri.
Il secondo punto è che vi sono questioni che devono essere gestite in autonomia dagli staff, in particolare gli aspetti amministrativi. Talvolta i residenti sono coinvolti, ad esempio, nella formazione degli operatori, ma molte volte questo rientra nella attività che gli operatori fanno da soli.
I tre residenti che ricoprono la carica apicale, i cosiddetti “senior”, non presiedono l’assemblea di Comunità tutti e tre assieme: ognuno  la presiede in successione. Inoltre mantengono questa funzione soltanto per quattro settimane, non per quattro anni come alcuni leader politici. Quest’assunzione di potere ha anche degli aspetti compensatori perché si ha modo di realizzare una riparazione quando ci si assume delle responsabilità rispetto al gruppo dei residenti.
Talvolta la democrazia può votare e eleggere dei “leader” molto autoritari, se non addirittura dittatoriali, e questo può accadere anche nella nostra comunità terapeutica. In certi casi gli operatori consigliano di non votare qualcuno che viene valutato già molto capace nell’organizzarsi e nell’affrontare le situazioni. Oppure perché pensano che il paziente in questione potrebbe trattare il gruppo in modo poco umano e democratico. Ovviamente talvolta gli operatori sbagliano, e le persone che loro consigliano di non eleggere si rivelano essere molto sensibili e democratiche.
Molte delle persone che vengono da noi, in passato si sono opposte fortemente all’autorità. Se dopo i
primi tre mesi vengono eletti a ricoprire un ruolo di “senior”, molto rapidamente si rendono conto  di quanto sia difficile esercitare l’autorità in modo umano, e certamente i loro colleghi pazienti danno loro dei feedback quando si comportano in modo non democratico e rispettoso dei diritti di ognuno.
I residenti imparano molto durante le quattro settimane in cui hanno l’autorità, ma alla fine delle quattro settimane devono rinunciarvi e possono tornare a subirla. Se verranno nuovamente eletti, potranno esercitarla avendo sperimentato entrambe le condizioni.
Un altro elemento significativo è la tendenza dei residenti a generare molta burocrazia, come difesa per non affrontare problematiche personali di gruppo importanti.  Il ruolo degli operatori è di opporsi allo sviluppo di un sistema burocratico apparentemente efficiente e solido, riaffermando che l’aspetto importante è il processo che porta alla decisione, e non la decisione in sé.
Oltre a questo, i pazienti divengono più consapevoli attraverso il feedback  che non tutte le decisioni sono egualmente importanti; questo li aiuta a stabilire delle priorità nella loro esistenza rispetto a ciò che è importante e ciò che non lo è.






SECONDA PARTE: GLI ESITI



 La Ricerca all’Henderson Hospital

Ci sono delle difficoltà a compiere una ricerca con questi gruppi di pazienti perché sono persone che esprimono i propri sentimenti con disagio: ad esempio in molti casi hanno degli atteggiamenti contro l’autorità e non rispondono alla ricerca in modo collaborativo. Anche per questo motivo è difficile per i ricercatori effettuare delle misurazioni attendibili dei sintomi.
Poiché il trattamento è di lungo periodo, è necessaria un lungo periodo e molta disponibilità di fondi per raccogliere dati che siano rappresentativi. A questo si aggiungono le difficoltà implicate dalla somministrazione di prove casuali e controllate, perché il trattamento è molto complesso.
Alcuni ricercatori hanno lavorato per lungo tempo all’Henderson Hospital. In questa tabella potete vedere riassunti gli studi che sono stati svolti, alcuni dei quali hanno avuto una durata non indifferente.





Un riassunto degli studi sugli esiti dei trattamenti all’Henderson Hospital


STUDIO


N
DURATA DEL
FOLLOW-UP


CRITERI INDICATORI DI SUCCESSO

PERCENT. DI SUCCESSI

DESCRIZIONE DEL CAMPIONE

Rapoport (1960)


64

1 anno

Miglioramenti clinici dal momento dell’ingresso

41%

Tutti gli uomini dimessi

Tuxford (1961)


86

2 anni

Con possibilità di impiego
Nessuna recidiva

55%
61%

Tutti gli uomini con tirocinio lavorativo dimessi

Taylor (1963)


?

9 mesi

Con possibilità di impiego

60%

Uomini dimessi

Whiteley (1970)


112

2 anni

Nessuna recidiva
Nessuna re-ingresso
Nessuno di entrambi i precedenti casi

43.6%
57.5%
40%


Uomini dimessi

Copas and
Whiteley (1976)


104
87

104

2 anni


5 anni

Nessuna recidiva
o  re-ingresso


42%
47%

33.6%

Uomini dimessi

Lo stesso campione di 104 della prima riga

Copas et al. (1986)


Gruppo di controllo


194


51


3 anni
5 anni

3 anni
5 anni



41%
36%

23%
19%

Uomini e donne
dimessi

Gruppo di controllo di non ammessi

Dolan et al. (1991)

62

8 mesi

Miglioramento delle funzionalità psicologiche sulla scala SCL-90

55%

Uomini e donne dimessi
Dolan, Warren & Norton (1997)
70

67
1 anno
Cambiamento significativo nella sintomatologia dei Disturbi di Personalità Borderline rispetto al gruppo di controllo dei non trattati
42.9%

17.9%
Uomini e donne dimessi

Gruppo di controllo di   uomini e donne non ammessi

Molti di questi studi si basano su misurazioni sociali attraverso indicatori indiretti. Successivamente abbiamo utilizzato degli indicatori dei disordini della personalità che si basano sulla numerazione dei sintomi secondo una scala.
Includendo nel calcolo di questi dati anche tutti i “drop-out”, compresi i pazienti che si fermavano solo un giorno in Comunità, il dato relativo agli esiti positivi per i pazienti che si sono fermati per l’intero anno si colloca tra il 40 – 50%. Se si osservano invece i pazienti che si sono fermati minimo 9 mesi o più, si ha un aumento di questo dato correlato alla lunghezza della permanenza che passa al 60 – 70%.
Nel corso del trattamento vengono presi in esame vari aspetti per verificarne l’efficacia. A questo scopo vengono utilizzati strumenti di rilevazione differenti, come ad esempio la misurazione sintomatica di Hocckins e il BSI (Indice della Sindrome Borderline).
Di seguito sono riportati alcuni grafici che indicano le modificazioni di sintomi specifici in seguito al trattamento in comunità.


Livello dell’ansia

Questo grafico evidenzia una diminuzione significativa dell’ansia nei primi sei mesi. Tra il sesto e il nono mese di trattamento il livello dell’ansia torna a salire lievemente, probabilmente in virtù delle comprensibili paure suscitate dalle dimissioni imminenti. Nell’anno successivo alle dimissioni si ha invece un’ulteriore diminuzione




Condizione Borderline

Questa è una misurazione diretta dello stato “bordeline” effettuato utilizzando la scala BSI (Borderline Syndrome Index). Si evidenzia un declino statisticamente significativo dal momento dell’ingresso fino a un anno successivo all’uscita.
Osservate che c’è un lieve miglioramento graduale persino nell’anno successivo alle dimissioni.

Livello dell’autostima

In realtà il diagramma indica l’andamento della disistima, e rileva quindi un innalzamento dell’autostima, non una diminuzione.
Sembrerebbe che l’impegno per aiutare le persone a stare meglio dando loro fiducia abbia degli effetti favorevoli sul livello di autostima, come emerge dalle risposte dei pazienti ai questionari.
Comportamenti impulsivi e stati emotivi ad essi associati.

Questo grafico indica il comportamento impulsivo in 12 aree diverse tra le quali l’autolesionismo e l’eteroaggressività, comportamenti che il paziente ha manifestato prima di essere trattato da noi. Come vedete i pazienti che riescono a fermarsi in Comunità dopo i primi 3 mesi cominciano a non infrangere le regole e ad esprimere minore impulsività comportamentale.
Il grafico successivo conferma quanto si è detto rispetto alle modifiche indotte dal coinvolgimento nella vita di comunità: mentre i comportamenti impulsivi diminuiscono nei pazienti ammessi, anche in virtù del maggiore contenimento esercitato dal contesto comunitario, i vissuti emotivi che spingono i pazienti a mettere in atto i comportamenti impulsivi aumentano in un primo periodo, per poi diminuire in modo significativo nel corso del trattamento. Questo è dovuto alle interazioni che i pazienti ammessi in comunità devono sostenere, che inducono in loro una manifestazione degli aspetti psicopatologici.

Conclusioni

Vorrei concludere accennando ai costi del trattamento. Il costo sociale di 29 pazienti nell’anno precedente il  ricovero presso l’ Henderson Hospital è stato quantificato in un miliardo complessivo, ovvero 42 milioni di lire a paziente. Dopo il trattamento scende a 100 milioni complessivi e 4 milioni a paziente: praticamente il 90% in meno.
I pazienti che finiscono il programma all’Henderson, l’anno successivo fanno più uso della terapia ambulatoriale rispetto all’anno precedente. Al contrario tutti gli altri tipi di trattamento che utilizzavano negli
anni precedenti (ricoveri, terapie farmacologiche, ecc.) diminuiscono fortemente.

Forse questo è un indicatore di successo: i pazienti probabilmente incominciano a usare, attraverso l’ambulatorio, una terapia individuale con il proprio curante, mentre prima della permanenza all’Henderson questo tipo di lavoro era stato fallimentare.

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