giovedì 6 febbraio 2014

La violenza assistita,

La violenza assistita,

una forma di violenza “fantasma” sul minore.

 
 
 
Maria Silvia Carlone.
 

 
 
 
La violenza assistita costituisce ancora un fenomeno poco rilevato e denunciato. I vari centri antiviolenza e le case rifugio per le donne che subiscono violenza e i centri per la tutela e la cura dei minori vittime di abuso e maltrattamenti hanno fornito un grande contributo per favorire l’emergere del problema .

 
Il CISMAI (Coordinamento Italiano dei Sevizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia) dà una definizione esauriente di ciò che si intende per “violenza assistita da minori in ambito familiare”:
il fare esperienza da parte del/della bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica (percosse con mani od oggetti, impedire di mangiare, bere e dormire, segregare in casa o chiudere fuori casa, impedire l’assistenza e le cure in caso di malattia…)
violenza verbale, psicologica (svalutare, insultare, isolare dalle relazioni parentali ed amicali, minacciare di picchiare, di abbandonare, di uccidere, di suicidarsi o fare stragi…)
violenza sessuale (stuprare ed abusare sessualmente)
e violenza economica (impedire di lavorare, sfruttare economicamente, impedire l’accesso alle risorse economiche, far indebitare…)
compiuta su figure di riferimento o su altre figure significative, adulte o minori;
s’includono le violenze messe in atto da minori su altri minori o su altri membri della famiglia e gli abbandoni ed i maltrattamenti ai danni di animali domestici.
Di tale violenza il/la bambino/a può fare esperienza direttamente (quando essa avviene nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il minore è a conoscenza della violenza) e/o percependone gli effetti.
L’aspetto rimarchevole di ciò che è insito nel significato di “violenza assistita” non è soltanto il vedere i gesti di violenza, ma anche la costatazione di essa attraverso oggetti distrutti ed effetti fisici sul proprio familiare, e di conseguenza percepirne l’angoscia e la disperazione.
Secondo i dati Istat del 2006 sono state 690 mila in Italia le donne che hanno subito violenze ripetute da partner e avevano figli al momento della violenza . Il 62,4% ha dichiarato che i figli hanno assistito ad uno o più episodi di violenza. Nel 19,6% dei casi i figli vi hanno assistito raramente, nel 20,2% a volte, nel 22,6% spesso. Le donne che hanno subito violenza ripetutamente dal partner e avevano figli hanno anche dichiarato che nel 15,7% dei casi i figli hanno subito violenza dal padre: rarmente, nel 5,6%, avolte nel 4,9%, spesso nel  5,2%.
Molto complesso risulta l’accertamento delle prove attestanti questa forma di reato e di conseguenza la tutela delle vittime: sono necessari molti referti medici comprovanti gravi percosse, e le situazioni di violenza familiare risultano molto eterogenee da potersi ricondurre a standard ben definiti, per cui l’iter necessario per l’imputabilità è intriso di difficoltà non permettendo un intervento adeguato di tutela e cura dei minori nei tempi fondamentali per una crescita psicologica armoniosa.
In caso di violenza assistita alcune aree di sviluppo appaiono più compromesse di altre:
-legame di attaccamento
-adattamento e cometenze sociali
-comportamento
-abilità cognitive e problem solving
-apprendimento scolastico
Inoltre si riscontrano:
depressione, ansia, inquetitudine, colpa, bassa autostima, aggressività, crudeltà verso gli animali, tendenza all’atto, immaturità, difficoltà nel comportamento alimentare, alterazioni del ritmo sonno veglia, incubi ed enuresi notturna, scarse abilità motorie, comportamenti autolesivi, uso di alcool, più alta incidenza di allergie, infezioni del tratto respiratorio, cefalea, disturbi gastrointestinali, disturbi del sonno.
I bambini esposti a violenza domestica provano l’esperienza della confusione, oltre la paura e l’impotenza, vedono le figure di attaccamento da un lato terrorizzate e disperate, dall’altro pericolose e minacciose. Questi bambini provano l’esperienza di non esser loro riconosciuta questa sofferenza dai genitori. I genitori spesso riferiscono che i figli dormono in un’altra stanza e non sono presenti, o non capiscono. I minori testimoni di violenze vivono altresì il senso di colpa dovuto al privilegio di non essere loro stessi la vittima, e si percepiscono come responsabili  della violenza perché cattivi, e di conseguenza impotenti a modificare la situazione, fattori scatenanti sintomi depressivi, ansia, vergogna e disperazione.
I piccoli possono sviluppare comportamenti adultizzati d’accudimento verso uno o entrambi i genitori ed i fratelli e diventare protettori mettendo in atto a tal fine numerose strategie come andare a controllare che suona alla porta o rispondere al telefono per filtrare le telefonate del maltrattante, assumendo comportamenti compiacenti e dire bugie, ma anche imparare a dar ragione all’uno o all’altro genitore a seconda delle circostanze, o in base al fatto di stare in quel momento con l’uno piuttosto che con l’altro.
C’è una sorta di stravolgimento emozionale in queste piccole vittime, in quanto la normale espressione di sentimenti ed emozioni è trattenuta e ritenuta pericolosa, in quanto può scatenare violenza, e al tempo stesso certe condotte violente risultano perfettamente normali.
Altri aspetti rilevanti riguardano i figli che, dopo la separazione dei genitori, mettono in atto comportamenti violenti nei confronti della  madre o i fratelli, rievocando le gesta del padre violento, avendo appreso un modello relazionale distorto.
In alcune ricerche si rileva una più alta incidenza  negli adolescenti di comportamenti devianti e delinquenziali: la violenza  assistita è considerata una delle cause delle fughe da casa , del bullismo, della violenza nei rapporti sentimentali tra adolescenti e dei comportamenti suicidari.
L’educazione affettiva di questi minori in generale è impregnata di stereotipi in genere, connotati da svalutazione della figura materna e da disprezzo verso le donne o verso le persone viste come più deboli ma anche verso gli uomini che a tali stereotipi sembrano non adeguarsi.
Nella violenza domestica i bambini possono riportare anche danni fisici diretti perché colpiti accidentalmente o perché spinti o picchiati quando cercano di difendere la madre e/o i fratelli.
Poiché la violenza può essere perpetrata anche durante la gravidanza, dai dati di ricerca risulta che i figli delle donne maltrattate in gravidanza alla nascita presentano un peso più basso rispetto ai figli delle donne non maltrattate.
È riscontrato che senza un intervento finalizzato alla protezione fisica e psicologica ed alla cura degli effetti post-traumatici, i minori sviluppano problematiche comportamentali e psicologiche cronicizzate che si trascinano nell’età adulta quali ad esempio depressione, disturbi d’ansia aggressività, passività, somatizzazioni, sintomi dissociativi, abuso di sostanze e violenza fisica, psicologica e sessuale ai danni di partner e figli e/o di terze persone.
Da una ricerca (1998, in Milani e Gatti, 2005) condotta su 1265 bambini monitorati annualmente dalla nascita ai 18 anni di atà, emerge che i bambini esposti ad alti livelli di violenza familiare hanno mostrato una frequenza di questi comportamenti maladattivi da 1,9 a ben 6,1 volte più alta rispetto ai bambini non esposti a violenza; la ricerca rivela inoltre che , isolando gli effettivi altri fattori di rischio come il basso livello socioeconomico o un contesto sociale deprivato, l’esposizione alla violenza domestica sarebbe il fattore più rilevante nel predire un peggiore adattamento in et adulta ed in particolare maggiori livelli di ansia, problemi della condotta e dipendenza dall’alcool (Milani, Gatti, 2005)
In generale nella letteratura risulta che l’aver subito e/o assistito a maltrattamenti intrafamiliari è tra i maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di comportamenti violenti nella vita adulta:
- già negli anni ’80 (Strasss, Gelles, Steinmetz) era stato rilevato che gli uomini che hanno assistito a violenza domestica avrebbero 3,5 maggiori possibilità di diventare maltrattanti verso la partner.
- in una ricerca degli anni ’90 (Dutton e Hart) svolta nelle carceri è stato rilevato che gli uomini che avevano commesso crimii violenti in famiglia riferivano di aver fatto maggiormente esperienza di violenza, sia diretta che indiretta, nella loro famiglia di origine rispetto agli uomini che avevano commesso crimini violenti contro estranei e degli uomini che avevano commesso altri tipi di reati.
 Il CISMAI, recentemente, in una lettera aperta alle forze politiche e in continuità e ad integrazione di quanto fatto finora nel nostro Paese, ritiene necessario ad ogni livello di governo, un investimento attento ed efficace a favore di questi minori.
Dalla ratifica della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo avvenuta con la legge 27 maggio 1991, n.176 l’Italia ha compiuto passi avanti importanti verso l’affermazione del diritto dei minori ad essere protetti da ogni forma di violenza e sfruttamento. Non solo enunciazioni di principio, ma atti concreti, quali la legge 28 agosto 1997, n.285 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” che, grazie all’istituzione di uno specifico fondo per l’infanzia, ha permesso la creazione di sevizi e la sperimentazione di nuovi modelli di intervento in molte regioni italiane.
Tra le linee strategiche individuate dal CISMAI affinchè in Italia si rafforzi e consolidi una strategia di prevenzione primaria, secondaria e terziaria del maltrattamento e degli abusi all’infanzia, che sia trasversale a tutte le politiche di settore (settore sociale, sanitario, educativo, giudiziario, della comunicazione),  riporto alcuni punti rilevanti a proposito della violenza intrafamiliare:
- prevedere legislativamente che nei casi di violenza sulle madri, venga considerato nei percorsi giudiziari il reato di maltrattamento per violenza assistita perpetrata sui minori, una forma di abuso primario, tanto gravi sono i suoi effetti a livello fisico, psicologico, cognitivo e relazionale.
- per ciò che concerne la legge sull’affidamento condiviso (Legge 54/2006 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”), pur in accordo con il principio espresso della bigenitoialità e l’affermazione del diritto dei figli di mantenere un rapporto continuativo con entrambi i genitori durante e dopo la separazione, essa appare caratterizzata dal rischio di una pericolosa semplificazione nella misura in cui intende imporre un unico modello di affidamento per tutte le separazioni. L’imposizione dell’affidamento condiviso a due persone che si trovano ad affrontare una separazione consensuale con alti livelli di conflittualità, pone il rischio di produrre effetti quali innalzamento dela conflittualità stessa, strumentalizzazione dei figli e conseguente disagio tutte le volte in cui la condivisione della responsabilità genitoriale non passa attraverso una scelta spontanea e consapevole. In tale contesto legislativo è necessario che tra le circostanze concrete di esclusione dell’affidamento condiviso – dove cioè questo sia giudicato contrario all’interesse del minore- , rientrino i casi di abuso sessuale e maltrattamenti, compresa la violenza assistita del minore (anche se la decisione sull’affidamento dei figli avviene in un momento in cui non risulta accertata la responsabilità penale dell’autore del comportamento violento e pur nella salvaguardia del principio della presunzione d’innocenza).
 
 
 

Nessun commento:

Posta un commento