sabato 22 febbraio 2014

IL MODELLO DELLA COMUNITÁ TERAPEUTICA: L’AREA INGLESE

IL MODELLO DELLA COMUNITÁ TERAPEUTICA: L’AREA INGLESE


Anno 6, n. 32, Aprile 2006
Marta Vigorelli




Terapia di Comunità
Rivista bimestrale di psicologia
www.terapiadicomunita.org
Rivista ufficiale della Comunità Terapeutica IL PORTO onlus
Via Petrarca 18 - 10024 Moncalieri (TO) 
www.ilporto.org

Introduzione



A partire dall’inizio degli anni trenta l’interesse sociale e scientifico per le dinamiche interne ai gruppi e alle organizzazioni acquista sempre maggiore importanza sotto la spinta della particolare congiuntura storico-politica e socio-culturale dell’epoca. La logica dell’efficienza produttiva in ambito industriale e militare, la malattia psichiatrica, l’ascesa dei regimi totalitari e infine la guerra concorrono, in diverso modo, a sollecitare l’uso del gruppo, e dunque la sua conoscenza, come strumento di intervento e di trasformazione.
In ambito psicoanalitico, questo mutamento dà origine a quella miriade di esperienze in istituzioni psichiatriche e non, in Europa, negli U.S.A., in America Latina, che cambiano radicalmente il modo di lavorare e pensare al rapporto individuo-gruppo-istituzione.

1. Gli esperimenti di Northfield

In Gran Bretagna,  per la fortuita e felice compresenza di autori come Wilfred Bion, John Rickmann, Elliot Jaques, Tom Main, Michael Foulkes, nacque l’esperienza della Comunità Terapeutica ad orientamento psicodinamico. Wilfred Bion, Elliot Jaques, Henry Dicks, Tommy Wilson, Harold Bridger, Isabel Menzies
Lyth, Eric Trist e John Sutherland ( che fonderanno in seguito il Tavistock institute of Humane Relations ), Tom Main, Clifford Scott, Millicent Dewar e Michael Foulkes vengono a costituire quell’ invisible college (l’espressione è di Henry Dicks) a cui si devono importanti esperienze istituzionali, e che ha posto le basi teoriche del movimento comunitario. 

L’invenzione della comunità terapeutica, come metodo comunitario e gruppale di prendersi cura della sofferenza psichiatrica, promuove un allargamento degli orizzonti teorico-clinici nella concezione della malattia, arrivando a coglierne così la radice e le complicazioni interpersonali e gruppali. Tutto questo ha un’importante ricaduta sul lavoro clinico che è chiamato a operare contemporaneamente su più livelli, tra loro interrelati: individuale, familiare e gruppale, fantasmatico e organizzativo; del rapporto individuo-gruppo e individuo-gruppo-istituzione.
L’evento bellico, con le pressanti esigenze di carattere collettivo che pongono l’accento sulla mutualità e l’utilizzo di ogni risorsa, la lotta ai regimi totalitari con la difesa dei principi di partecipazione attiva e di dedizione, la cultura militare inglese, sensibile alle dinamiche di gruppo e permeata di istanze partecipative, fanno da incubatrice ad una vivace sperimentazione di cui la storia dello Hollymoor Hospital rappresenta uno degli aspetti più importanti e significativi.
All’inizio della guerra molti psichiatri, analisti e studiosi di scienze sociali si arruolano nei Medical Corps dell’esercito e iniziano ad occuparsi di attività terapeutiche, non solo rivolte all’individuo ma anche al gruppo e alla cultura di un’istituzione. Sono gli anni in cui, nell’esercito inglese, per quanto riguarda sia le unità psichiatriche sia i reparti di combattimento, vengono adottati nuovi modi di pensare, provenienti in gran parte da Kurt Lewin e da altri psicologi della Gestalt riguardo al lavoro sui gruppi e con i gruppi.
Come nota Rayner, un’altra circostanza contribuisce ad alimentare una sensibilità verso le dinamiche grippali:

“Per anni, durante la prima parte del conflitto un grande esercito stazionava in Gran Bretagna, in attesa. L’addestramento era duro, ma occorreva combattere la noia di cui soffrivano i militari. Una modalità con cui la si affrontò consisteva nel consentire che ogni unità trascorresse parecchie ore alla settimana a discutere con i suoi ufficiali di avvenimenti attuali generali. Questa soluzione si rivelò l’unica
occasione in cui era permesso qualcosa di inaudito: i soldati erano liberi di discutere con i loro superiori e anzi erano addirittura invitati a farlo; vi era in questo un’uguaglianza nell’ambito dell’esplorazione con il pensiero. Molti ufficiali si opposero a tale pratica, poichè sembrava una innovazione sovversiva: Tuttavia essa ebbe successo in quel momento, perchè scacciò la noia e risollevò il morale”.


Gli “esperimenti” di Bion, Rickmann, Main e Foulkes nascono dunque in un ambiente militare, in cui è diffusa l’ abitudine al dialogo ed alla discussione di gruppo.
Il “primo esperimento di Northfield” ha come protagonisti Bion e Rickman, chiamati nell’autunno del 1942 a dirigere il Training Wing, cioè il Reparto militare di addestramento e riabilitazione, dedito alla cura dei soldati vittime di nevrosi di guerra, allo scopo di migliorarne il morale e di restituirli ai loro doveri militari. Entrambi hanno all’attivo significative esperienze di gruppo e conoscono e apprezzano la "field-theory" di Kurt Lewin. L’esperimento realizzato da Bion a Northfield e il suo impegno nei gruppi terapeutici e di supervisione alla Tavistock Clinic rappresentano dei tentativi per rispondere a questo interrogativo: come individuare prassi psichiatriche, che sviluppino il più possibile le risorse del gruppo portatore di uno scopo comune, in funzione del quale vanno valorizzati i singoli contributi individuali, e non viceversa.
Bion avverte che il gruppo, se si mobilita come totalità, attiva risorse e possibilità di gran lunga superiori a quelle messe in moto dalla cura del singolo. Da qui consegue la regola fondamentale per cui la terapia deve essere considerata sempre come un problema di gruppo e gli interventi del terapeuta devono dunque essere centrati sul gruppo. L’aspetto innovativo e rivoluzionario consiste proprio in questa lettura psicodinamica
della vita gruppale, intuendo che un gruppo ha ragione di esistere in quanto ha un compito, nei confronti del quale si sviluppano inevitabilmente tensioni contrapposte, alcune facilitanti ed altre ostacolanti la sua realizzazione. Pertanto Bion pensa che, per individuare ed eliminare le resistenze interne all’obiettivo dichiarato del gruppo, sia fondamentale sviluppare, all’interno del reparto, una situazione gruppale centrata sul compito, che per sua stessa natura fa scattare ed emergere anche le forze oppositive sotto forma difensiva (per esempio di attacco/fuga) consentendo di coglierle dal vivo e di affrontarle con gli strumenti della psicologia. Tali resistenze nel caso “primo esperimento di Northfield” assumono l’aspetto del caos, della sporcizia e dell’ammutinamento. Secondo questa logica, Bion aveva stabilito che tutti gli uomini effettuassero un’ora al giorno di addestramento fisico e fossero membri di uno o più gruppi destinati allo studio di un mestiere. A seconda degli interessi che di volta in volta si manifestavano, gli individui potevano formare nuovi gruppi per lo sviluppo di un’attività particolare. Si effettuavano riunioni giornaliere di tutti i pazienti, del personale incaricato e dei direttori, per la discussione dei programmi, degli eventuali problemi e dei provvedimenti da prendere. Quest’ultimo punto del programma è stato il primo passo per l’organizzazione di seminari terapeutici.


Bion e Rickman purtroppo sottovalutarono l’importanza delle resistenze sotterranee al progetto presenti a livello del gruppo dirigenziale dell’ospedale, il conflitto tra la cultura e il compito di impronta militare del gruppo da loro istituito e la cultura e il mandato dell’ospedale, orientati invece a privilegiare il benessere del singolo. Per questa ragione vennero presto sollevati dall’incarico.

Dalla riflessione sul campo di queste esperienze e di quelle alla Tavistock Clinic, Bion trae alcune conclusioni. Le sue tesi fondamentali sono le seguenti.

-      La gruppalità è intrinseca allo psichismo individuale: l’uomo è infatti un animale politico, che in un gruppo torna ad usare, per effetto di una massiccia regressione, dei meccanismi mentali primitivi, attraverso i quali perde la propria individualità e accetta di far parte di una collettività.

-      Il gruppo ha una sua mentalità di gruppo:  il termine designa l’attività mentale collettiva che si produce quando le persone si riuniscono in gruppo. E’ costituita dall’opinione, dalla volontà o dal desiderio

unanimi del gruppo in un determinato momento; è “un serbatoio comune a cui affluiscono anonimamente i contribuiti di tutti”, cioè disconosciuti a livello individuale, “e tramite il quale gli impulsi e i desideri, che questi contributi contengono, possono venire gratificati” (Bion, 1961, p.58) Essa può essere dunque in conflitto con i desideri, le opinioni o i pensieri del singolo individuo.

Il gruppo funziona pertanto come unità, benché i suoi membri non se lo propongano e non ne abbiano coscienza; nel contempo esso si articola in due livelli strutturali di funzionamento, che solo incidentalmente operano in maniera sinergica: il livello del compito, che si identifica con il gruppo di lavoro, ancorato alla realtà, e il livello primario e regressivo degli assunti di base, ad alto contenuto emotivo-fantasmatico.

-      Il postulato di partenza è che non esiste gruppo senza un compito consapevole, cioè un obiettivo dichiarato, in forza del quale le persone si riuniscono. La riuscita del compito dipende dall’analisi corretta della realtà esterna, dalla distribuzione e dall’attento coordinamento dei ruoli all’interno del gruppo, dal monitoraggio dell’azione sulla base dei successi e degli insuccessi, dal collegamento dei mezzi possibili con gli scopi prefissati, tutte operazioni che richiedono tolleranza della frustrazione, razionalità pragmatica e controllo delle emozioni. Nel gruppo di lavoro sono  dunque fondamentali la collaborazione, l’impegno e l’addestramento specifico e l’uso sistematico dei processi psichici secondari (memoria, percezione, giudizio e ragionamento). Qui il leader è colui che è capace di presidiare la realizzazione degli obiettivi e l’evoluzione di idee nuove, non negate, né espulse o bloccate.

Tuttavia è sufficiente la condizione di gruppo per far sì che le persone che, da sole, di fronte ad un problema si comportano in modo razionale, divengano difficilmente capaci di una condotta razionale collettiva. Da questa esperienza deriva il secondo enunciato della riflessione bioniana: gli individui, riuniti in gruppo, si trovano, sotto la pressione dei processi regressivi indotti, ad agire per “valenza”, cioè a condividere e a  operare in modo istantaneo e involontario secondo gli assunti di base. In altre parole, la cooperazione cosciente dei membri del gruppo, necessaria alla riuscita dei loro obiettivi, comporta inevitabilmente una circolazione emotiva e fantasmatica inconscia, che può paralizzarla o potenziarla. In questa prima fase della sua elaborazione Bion insiste soprattutto sull’opposizione tra gruppo di lavoro e gruppo in assunto di base, prefigurando una vittoria a lungo termine del primo sul secondo. Questa posizione viene rivista nella fase matura del suo pensiero (Bion, 1962).

-      Gli assunti di base sono: dipendenzaattacco-fuga e accoppiamento, che definiscono il modo di pensare e agire, nonché la leadership, dei gruppo di base corrispondenti.
Nel gruppo in “assunto di dipendenza” la fantasia vissuta da tutti i membri è quella di un gruppo che si r
accoglie e riunisce in attesa di protezione, conforto e difesa da un capo dal quale dipende e viene nutrito. Il gruppo chiede di essere protetto da un leader idealizzato, da cui sente potrà venire tutto il nutrimento intellettuale e spirituale, ed il gruppo  può vivere senza conflitti solo se il leader accetta il ruolo che gli viene attribuito, il potere e i doveri, che esso implica. Nell’assunto “attacco-fuga” il gruppo lotta contro sempre qualcosa o in difesa di qualcosa, individuando un nemico esterno e trovando  il suo leader in personalità paranoiche. Il leader collabora ad alimentare l’idea che esista una minaccia esterna da attaccare o fuggire. L’assunto di “accoppiamento” determina nei membri un sentimento di speranza e di attesa per l’avvento di un messia (ovvero un evento risolutore, un’idea nuova o un oggetto idealizzato) che dovrà nascere dall’unione di due componenti del gruppo, ma che in realtà non deve mai realizzarsi pena la scomparsa stessa dell’aura salvifica e profetica. Il leader è qualcosa o qualcuno non ancora nato. La coppia può stabilirsi tra due partecipanti che dialogano; il resto del gruppo assiste e presidia questo scambio, non esprimendo né rivalità né gelosia, perché pensa che dalla coppia nascerà il futuro leader, che libererà il gruppo dai sentimenti di odio, distruzione o disperazione.


-   In conclusione, la coesistenza tra gruppo di lavoro e gruppo di base è inevitabile e perenne e determina un conflitto che sempre ricorre e si rinnova all’interno del gruppo, permeandone l’organizzazione, cioè la cultura del gruppo.  Sorge dalla dialettica e dal conflitto tra la mentalità del gruppo e i desideri del singolo. Esso si esprime in vari modi: come conflitto tra l’idea nuova e il gruppo, fra l’individuo come persona e come membro del gruppo, fra compito e assunto di base. Non vi è invece nessun conflitto diretto tra gli
assunti di base, ma solo alternanza, “solo un passaggio dall’uno all’altro stato, che può essere effettuato con una facile evoluzione, oppure può essere determinato dall’intervento del gruppo razionale” (Bion, 1961, p.104). Secondo il pensiero di Bion, la società si è tutelata dagli assalti continui degli assunti di base, delegando la funzione di contenerli e manipolarli efficacemente istituendo tre “gruppi specializzati di lavoro”, Chiesa, Esercito e Aristocrazia, tre istituzioni con il compito di imbrigliare gli assunti rispettivamente di dipendenza, attacco-fuga e accoppiamento verso obiettivi socialmente accettati.


-      Nelle opere successive (1963, 1967), alla luce delle recenti teorizzazioni sulla mente e il pensiero,  Bion rilegge le dinamiche gruppali e organizzative in termini di rapporto tra istituzione e mistico,  superando la dicotomia tra gruppo di lavoro e gruppo in assunto di base. In questa nuova prospettiva, ciascun gruppo oscilla fisiologicamente tra la posizione di base  e quella di gruppo di lavoro, con la possibilità di integrare le due dimensioni, quella raziocinante e quella emozionale e fantasmatica, dell’esperienza individuale e gruppale. Le emozioni non sono più sentite solo come un intralcio all’operatività, ma costituiscono in certi casi una forza motrice propulsiva e mitopoietica, di cui il gruppo di lavoro è impregnato e portatore.


-      L’idea nuova, portata dal mistico, cioè l’innovatore e l’antesignano di nuovi percorsi, ha necessità di un contenitore, il gruppo, per essere accolta, fatta vivere ed evolvere. A sua volta, per questo fine, il gruppo deve dotarsi di strumenti stabili atti a consentire il contenimento dell’idea e la continuità dell’esperienza gruppale. Il gruppo tende dunque a darsi un’organizzazione e delle norme, trasformandosi in un’istituzione. L’istituzione, che sostituisce il concetto di gruppo di lavoro specializzato, ha dunque la funzione di accogliere e custodire il mistico che germina in lei e che si pone come nucleo ideativo-emozionale, creativo e vitale, intorno a cui si organizza la vita e la storia dell’istituzione stessa.

Siegmund Heinrich Foulkes psichiatra e psicoanalista inglese di origine tedesca, emigra a Londra nel 1933 per sfuggire alle persecuzioni naziste, divenendo didatta della Società psicoanalitica britannica. Formatosi a Vienna, lavora per breve tempo a Francoforte, dove si dice che abbia avuto dei contatti con la Scuola di Francoforte di Ricerca Sociale. Sicuramente viene a contatto con le idee di Wertheimer, elaborate dal suo epigono Salomon Asch (1958), così sintetizzabili: il gruppo non è solo una Gestalt esterna, sostenuta fisicamente dalla riunione di un insieme di persone, ma è anche contemporaneamente una Gestalt interna a ciascuna di essi, nella cui mente individuale si organizza la rappresentazione del gruppo di appartenenza, comprendente se stessi e gli altri: un insieme di "shared mental fields", nel quale sono simultaneamente presenti, e attivi, sia i soggetti che il loro gruppo. Qui conosce e frequenta Gelb e Goldstein, i due ricercatori gestaltisti che influenzano grandemente il pensiero e la pratica di gruppo di Foulkes. 
Agli inizi degli anni quaranta egli inizia le prime esperienze di  terapia di gruppo in Gran Bretagna (Foulkes, 1948). Quest’ultima esperienza gli consente di andare a Northfield (fra il 1943 e il 1946) come un autorevole esponente della terapia di gruppo (a questo tempo è “l’autorità nel campo”). Egli dunque arriva a Northfield, poco dopo la partenza di Bion nel dicembre 1942, e qui prosegue la sua attività e indagine sulla teoria e la tecnica di gruppo analitica, o gruppoanalisi, concepita sempre più come “una forma di psicoterapia praticata dal gruppo nei confronti del gruppo, ivi incluso il suo conduttore” (Foulkes, 1975). Sulla scorta di un background medico-analitico, peraltro più coerente con il regime ospedaliero, Foulkes vuole dare un’impronta psicoanalitica al reparto che dirige, ed è persuaso che attraverso l’intervento sulla comunicazione conscia e inconscia, i membri del gruppo possano trasformare il gruppo stesso in
un’esperienza terapeutica per se stessi: in quanto nevrotici interferiscono con la comunicazione nel gruppo, nel contempo tramite il gruppo imparano a comunicare e a socializzare nonostante i loro problemi relazionali. Insomma se Bion concepisce il gruppo sempre e solo in funzione di un compito, Foulkes lo considera sempre e comunque strumento terapeutico. Inoltre, per Bion la tensione è l’elemento naturale che occorre fare emergere e il terreno su cui lavorare, per Foulkes è invece indice di resistenza e conflittualità, che si devono allentare per permettere il fluire della comunicazione. Il suo contrasto con il regime dell’esercito, con il quale si era già scontrato Bion, che interpretava il trattamento come il compito militare di creare un morale alto, è evidenziato dal racconto apocrifo, secondo il quale Foulkes era solito iniziare i suoi gruppi con l’espressione: “mentre siamo nel gruppo non siamo nell’esercito” (comunicazione personale di Tom Harrison). Questa frase di Foulkes rende esplicito lo scontro tra due culture e due istituzioni, l’ospedale e l’esercito. Bion aveva sfidato la cultura ospedaliera come rifugio dalla vita per un recupero tranquillo, identificandosi con la sovrastruttura, l’esercito. Ed inevitabilmente l’ospedale, portatore di una cultura che dà la priorità alla salute dell’individuo, aveva trovato difficile accettare la proposta di Bion.


Per Foulkes tutta la psicologia diviene “psicologia sociale” e trova “nel gruppo il suo naturale strumento terapeutico” (1964). La personalità e la sua psicopatologia hanno una dimensione multipersonale, in quanto entrambe si costituiscono e acquistano significato nel contesto di network, cioè di reti dinamicamente interattive di relazioni, fra le quali riveste una peculiare funzione la rete della famiglia di origine. Rispetto a questi network, l’individuo si innesta e funge come punto nodale legato da processi transpersonali, il quali hanno luogo non solo a livello intrapsichico, né al solo livello dell’interazione (dimensione interpersonale), ma che attraversano, come comunicazioni inconsce interattive, tutti le persone appartenenti alla rete, sostanziandone la vita psichica e sociale.
La matrice personale o gruppo interno viene transferalmente riattualizzata in tutte le situazioni relazionali significative, quali il gruppo terapeutico, ove concorre alla formazione della rete comunicativa gruppale, o matrice dinamica. Il gruppo viene quindi visto come un sistema, originato dall’incontro dei sottosistemi rappresentati dai singoli membri e dall’analista stesso, che produce una rete di comunicazione inconscia che dà senso condivisibile a tutti i fenomeni e gli eventi che accadono e che è sempre il risultato della compresenza di quelle persone in quel preciso momento delle loro esistenze personali, private, sociali e professionali.

Il secondo esperimento di Northfield, “primo vero tentativo di strutturare volontariamente e non per caso, una comunità terapeutica come sistema aperto” (Harold Bridger, in Pines, 1988), nel biennio 1944-45, ha come protagonisti Bridger, Foulkes e soprattutto Tom Main.
Tom Main arriva a Northfield nel 1945. Egli analizza la crisi verificatasi e considera decisivo il fatto che Bion, nell’occuparsi delle difficoltà dei suoi pazienti, non abbia tenuto conto del conflitto generato all’interno dell’ospedale tra la cultura militare, da lui promossa, e quella istituzionale, di tipo medico-terapeutico,
oltrechè delle difficoltà dell’autorità dirigente, che non è stata attivamente coinvolta nel processo di cambiamento, a legittimare pratiche mediche con modalità militari. Main, precorrendo la teoria dei sistemi, è convinto che ogni trasformazione per potersi attuare richieda di lavorare dinamicamente con l’intera istituzione intesa come una comunità di sistemi interdipendenti: ogni sistema sovraordinato (l'ospedale, l’esercito) è in relazione gerarchica con i sistemi di livello inferiore (il reparto, il paziente) e ciascun sistema, soprattutto se l’obiettivo è la cura, necessita, per mantenere un sano funzionamento, di poter controllare, esplorare e modificare le proprie funzioni (Main, 1989) all’interno di questa rete di interrelazioni. Tutto questo richiede una costante disponibilità all’autosservazione, al confronto e al dialogo, che sono operazioni necessarie alla salute, anche nella vita quotidiana. E si rivela un compito complesso ma proficuo: il chiarimento delle dinamiche strutturali e dei ruoli ad ogni livello consente infatti di smascherare e trasformare evolutivamente i meccanismi difensivi istituzionali, socialmente accettati, fondati sulla scissione tra apparato curante e popolazione dei curati, o, in altri termini, fra attività e passività, capacità e inettitudine, autonomia e dipendenza, potere e impotenza, autorità imposta e cogestita. Questo atteggiamento mentale tende a diminuire l’angoscia e i conflitti e accresce l’efficacia, consentendo di porre la totalità degli aspetti domestici e ricreativi della vita di tutti i giorni al servizio del lavoro terapeutico. Scrive Main:


l’esperimento di Northfield (la Comunità Terapeutica) è un tentativo di utilizzare l’ospedale non come un’organizzazione gestita dai medici con l’interesse rivolto a una maggiore efficienza tecnica, bensì come una comunità con l’obiettivo immediato di una piena partecipazione di tutti i suoi membri nella vita quotidiana, il cui scopo ultimo è la risocializzazione dell’individuo nevrotico per permettergli di vivere nella società normale” (Main, 1946).

Questa affermazione, che costituisce la prima definizione ufficiale di Comunità Terapeutica, evidenza le due componenti principali del pensiero di Main: la prospettiva psicoanalitica delle relazioni d’oggetto e la visione sistemica dei processi organizzativi.

Nel 1947, nominato direttore del Cassel Hospital, un piccolo ospedale privato per la cura delle nevrosi, Main decide di realizzare il suo sogno di istituire una Comunità Terapeutica psicoanaliticamente orientata:
“una Comunità-Ospedale modello” che si autoesamini in tutte le sue strutture". Nel 1948 il Cassel entra a far parte del British National Health Service e la sede viene trasferita a Richmond, più vicino a Londra allo scopo di agevolare il training analitico dello staff, ritenuto da Main un prerequisito indispensabile.

La lettura in chiave analitica dei fatti individuali, relazionali e istituzionali costituisce infatti l'impalcatura teorica e metodologica del modello comunitario di Main. Si trattava di un'estensione delle osservazioni e delle sperimentazioni sviluppate in maniera embrionale a Northfield. Chi lavora al Cassel in questi anni ricorda il tentativo di qualcuno di opporsi ai metodi innovativi di Main, ma la grande maggioranza degli operatori rimane come catturata, oltre che dal suo carisma, dal continuo coinvolgimento a tutti i livelli e su ogni aspetto riguardante la vita dell'istituzione. Main aveva anche saputo conquistarsi il consenso del comitato direttivo dell'ospedale e del personale curante, trovando un’alleata importante nella capo infermiera, Doreen Weddel, una donna autoritaria e tradizionale che, "sedotta" dal suo fascino intellettuale, a poco a poco contribuisce in maniera determinante a una trasformazione nel modo di lavorare del corpo infermieristico, tanto che in seguito diviene ella stessa psicoanalista.

 Il setting del Cassel viene strutturato intorno a due aree distinte, ma interrelate:

·       lo spazio della psicoterapia, condotta da psicoterapeuti, prevalentemente medici di formazione analitica;
·       la comunità terapeutica, dove si svolge una precisa pratica di accudimento, detto “psychosocial nursing” (accudimento psicosociale), fondata sul pensiero psicoanalitico, in cui la comprensione non è fornita al paziente mediante interpretazioni, bensì con parole e azioni meditate e sollecitate. In questo spazio di vita e di lavoro ogni paziente ha un infermiere referente, la nurse, responsabile e riferimento principale di circa cinque pazienti.

Vi è quindi una separazione fra il mondo esterno dei ruoli sociali, dei compiti di lavoro e delle relazioni interpersonali e il mondo interno delle fantasie e dei sentimenti dei pazienti (Kennard, 1983), senza che tuttavia si generi conflitto fra finalità di trattamento e di riabilitazione. L’integrazione tra i due sistemi è garantita dalla “cultura dell’ indagine” (culture of inquiry), che anima ogni aspetto e ogni momento della vita ospedaliera e che “fornisce strumenti di indagine e riflessione sui problemi personali, interpersonali e intersistemici e lo studio degli impulsi, difese e relazioni così come sono espressi e strutturati socialmente” (Main, 1989). Questo continuo processo di riflessione sulle dinamiche dell’intera struttura, che coinvolge a vari livelli non solo i pazienti e l’equipe curante, ma anche il personale amministrativo e impiegatizio (segretari, cuochi, inservienti, i portieri, i giardinieri, ecc.) è un lavoro impegnativo e faticoso, ma che preserva tutti dal sentirsi apatici, annoiati o espulsi in un ambiente che concorre a tenere costantemente viva una cultura terapeutica.
Centrale è il concetto di milieu terapeutico: il paziente viene temporaneamente rilevato dal suo ambiente sociale insoddisfacente, conflittuale e a volte frammentato, e viene ammesso in un ambiente in cui ogni evento quotidiano viene finalizzato a scopi terapeutici. L’interazione continua con il personale e gli altri pazienti in piccoli e grandi gruppi, più o meno strutturati a secondo delle funzioni prescelti, consente di esaminare, contenere e confrontare le dinamiche disfunzionali e i comportamenti disturbanti dei pazienti. La loro patologia viene inevitabilmente agita all’interno dell’ambiente della comunità, ma le continue risposte date, che differiscono dalle risposte a cui sono abituati nel loro contesto sociale, li aiutano a ristrutturare il loro mondo interno e a trovare nuovi modi di essere con gli altri, e dunque con sè.
La comunità costituisce in questo senso un ambiente vivo e operante, nel quale i pazienti condividono esperienze e si assumono responsabilità reali, partecipano e conducono gruppi di lavoro e ricreativi. La funzione degli infermieri che lavorano con i pazienti non è quindi quella di psicoterapeuti di second'ordine, ma si avvicina ad una sorta di sostegno dell'Io del paziente, aiutandolo a riflettere sul suo comportamento,
sulle difficoltà che incontra e sulla forma di sostegno di cui può avere bisogno, valorizzando gli aspetti sani e adulti del paziente e il sostegno reciproco.

Sul versante della psicoterapia, ogni paziente è anche impegnato in un trattamento individuale ad orientamento psicoanalitico, dove si riflette sul mondo interno e si interpreta al paziente il transfert nei confronti del terapeuta, ma anche della nurse e di altre parti o dell’istituzione nel suo complesso. La psicoterapia si svolge due volte alla settimana in un setting abituale di cinquanta minuti, vis-à-vis, e possiede un certo grado di riservatezza. Main mette a punto un complesso sistema di supervisioni sia per gli psicoterapeuti che per la coppia terapeuta-nurse referente del programma di ogni singolo paziente: a questo livello viene presa in considerazione l'interazione fra i due sistemi. L'inesauribile capacità d'azione di Tom Main e la sua visione sistemica dei problemi, lo portano ad iniziative veramente originali per l’epoca, come l'istituzione dell'Unità Familiare che ospita madre e bambino o l'intera famiglia per focalizzarne i problemi relazionali, o l'utilizzazione delle psicoterapie brevi soprattutto nel campo delle disfunzioni sessuali, ma anche ad iniziative che travalicavano i confini dell'istituzione. Sul finire degli anni '50, Main comincia a pensare all'ospedale non solo come Comunità terapeutica autonoma, ma anche come risorsa per tutta la Comunità locale, sviluppando una rete di rapporti con medici di base, specialisti dell'infanzia e dell'adolescenza cui il Cassel offre supporto a livello istituzionale e formativo. Attualmente il Cassel è riconosciuto internazionalmente come un importante centro di trattamento, di formazione e di ricerca, specializzato nei disturbi di personalità, sebbene l’ istituzione abbia anche  attraversato momenti difficili quando Main si è ritirato dalla scena nel 1976. I successivi direttori, Alan Wilson, John Denford e da ultimo R.D. Hinshelwood, hanno dovuto fare i conti con problemi di ordine amministrativo oltre che coi nuovi orientamenti politici, volti a ridurre la spesa pubblica sanitaria, ma soprattutto, crediamo, hanno dovuto confrontarsi con il grande vuoto lasciato dalla personalità di Main.
L’unità di ricerca, costituitasi formalmente come entità separata nel 1995, promuove e coordina il lavoro di ricerca all’interno dell’ospedale, focalizzato soprattutto sulla valutazione empirica della efficacia della psicoterapia psicodinamica e del rapporto costo-beneficio all’interno del servizio sanitario nazionale (NHS),
in collaborazione con parecchie istituzioni del National Health Service e accademiche, tra cui the Psychoanalysis Unit presso l’Università di Londra, l’Imperial College e il Centro per l’economia di salute mentale all’Istituto di Psichiatria di Londra.

La visione istituzionale di Main non è univoca nel movimento comunitario inglese. Proprio negli stessi anni, e in modo del tutto indipendente prende corpo alla Merton Hill School annessa al Maudsley Hospital, vecchio e famoso ospedale accademico londinese, un’esperienza comunitaria, promossa da Maxwell JonesSpirito intraprendente, portato ad uno stile di vita gruppale, dotato di una forte carica di idealità e di una naturale tendenza alla leadership, Jones è uno psichiatra di formazione medica tradizionale, con interessi nell’ambito della psicosomatica.
Egli riscontra che i pazienti, soldati con disturbi emozionali, apprendono molto della propria situazione e migliorano se sono coinvolti in un’interazione reciproca e in discussioni con lo staff. Introduce di conseguenza una prassi clinica imperniata sulla discussione di gruppo sul “qui e ora” degli eventi del reparto e dell’ospedale, con la partecipazione sempre più larga del personale in un clima di libera comunicazione e di riduzione della distanza fra i ruoli. I risultati sono sorprendenti: si calcola che nei soli anni della seconda guerra transitano in questa struttura circa 2000 pazienti. Nell’immediato dopoguerra, Maxwell Jones riceve l’incarico di occuparsi della riabilitazione di alcuni fra i più disturbati ex-prigionieri britannici, ritornati dall’Europa e dall’Oriente con gravi paure di impotenza, di inefficienza e sensazioni paranoiche nei confronti delle mogli e degli ex-compagni di lavoro.
Ma è soprattutto all’Henderson Hospital, in cui ci si occupa del recupero di soggetti con gravi problemi di disadattamento sociale: crimini, violenze, aberrazioni sessuali, droga, alcool, ecc. di cui è direttore dal 1946 al ‘59, che egli viene a sviluppare il suo modello teorico e metodologico comunitario di stampo psicosociale, che negli anni della sua maturità tenta di riproporre in contesti diversi, anche al di fuori dei confini dell’istituzione (negli USA, in Scozia, in Canada). In pochi anni l’Henderson diviene la Comunità Terapeutica più nota in Inghilterra e un modello nel trattamento dei disturbi di personalità. Diversi sono i motivi della sua fortuna: il clima socioculturale del tempo, l’esigenza di nuove forme di trattamento, la particolare formula di principi e metodi che si prestano ad essere adottati da chi non ha uno specifico e approfondito training alle spalle (come invece viene richiesto agli operatori dello staff al Cassel Hospital a causa del suo marcato imprinting psicoanalitico), non ultimo il carisma personale di Jones.
Secondo questo autore (1952, 1968), la caratteristica saliente della Comunità consiste nel suo essere un sistema aperto, con un assetto egualitario e democratico, in cui “la responsabilità del trattamento non è limitata allo staff medico, ma riguarda anche gli altri membri della comunità, cioè i pazienti”, in cui il processo trasformativo avviene in ambiente gruppale con un focus sulle tensioni che nascono “qui e ora”; in cui, infine, l’unico obiettivo terapeutico è “l’inserimento dell’individuo nell’ambiente sociale e lavorativo all’esterno dell’ospedale, senza nessun altro ambizioso programma psicoterapeutico”.
Non è previsto un vero e proprio trattamento psicoterapico anche se Jones si mostra interessato allo psicodramma (Jacob Levi Moreno viene più volte invitato all’Henderson) e utilizza tecniche di role-play. Ad un certo punto del suo percorso, Jones è indotto ad un maggior interesse per la psicoanalisi dalle riflessioni sul lavoro che sta sviluppando e dalla natura dei problemi di molti pazienti di cui si occupa. Inizia anche un’analisi personale con Melanie Klein che tuttavia non lo porta ad intraprendere la carriera di psicoanalista. Quello che viene maggiormente valorizzato all’Henderson Hospital è il significato globalmente terapeutico dell’ambiente comunitario (in questo si può cogliere un’analogia con gli esperimenti di Northfield).
Gli ingredienti di questa metodologia sono essenzialmente tre: il community meeting, lo staff review meeting e la leaving learning situation. All’Henderson, infatti, pazienti e operatori si riuniscono quotidianamente in un ‘gruppo allargato’ per discutere dell’accaduto del giorno precedente ed analizzare qualsiasi problema o situazione si presenti, senza che l’équipe assuma una posizione predominante (role blurring). Si tratta di sollecitare i pazienti ad una partecipazione responsabile che aumenti la stima di sé e
permetta a ciascun componente del gruppo di apprendere quali percezioni e sentimenti stanno dietro alle condotte di ognuno, confrontate con quelle degli altri membri del gruppo (reality confrontation). Ogni riunione è seguita, subito dopo, dall’incontro di tutto lo staff per commentare le interazioni che si sono verificate e le reazioni stesse dei suoi membri (staff review meeting).

La living learning situation è sicuramente la strategia operativa più celebre fra quelle in uso all’Henderson. Consiste in una sorta di intervento di crisi, ogni qualvolta si profili la necessità, che coinvolge tutto il gruppo di persone (pazienti e operatori) implicate in essa, fino alla sua risoluzione. Jones la considera un’opportunità fondamentale di confronto diretto e di apprendimento delle difficoltà interpersonali e ritiene soprattutto utile la presenza dei pazienti nel gruppo, quando si verifica un momento di crisi o di difficoltà. La presenza dei pazienti esprime in maniera pregnante tutte le potenzialità terapeutiche insite nel setting comunitario, che si offre come un ambiente di vita e di esperienza in cui sperimentarsi nell’interazione con gli altri, nella condivisione delle responsabilità, delle decisioni e dei progetti e nell’apprendimento interpersonale, in un clima di accettazione della propria persona, di abbandono di attitudini e ruoli sociali fissi e di instillazione della speranza.
All’interno della comunità sono, infine, previste numerose attività occupazionali svolte in gruppo, con un referente eletto dai suoi componenti, affiancati dagli operatori in posizione paritaria. La gestione della casa è quasi per intero affidata ai residenti e le molteplici mansioni e incombenze vengono gestite mediante ‘comitati’ di vario genere. I componenti dello staff hanno un ruolo molto flessibile, senza che questo comporti una vera e propria confusione dei ruoli. Coerentemente a tutta l’impostazione, anche l’ingresso di nuovi ospiti passa al vaglio di una rappresentanza mista di operatori e pazienti, ed è sempre discussa preventivamente nella Riunione di Comunità.
Nel 1950, Jones decide di sottoporre la sua istituzione a una sorta di legittimazione attraverso l’analisi di un gruppo di sociologi, guidati dall’antropologo americano Robert Rapaport. Da questa collaborazione nasce un libro, Community as Doctor (1960), che non riscuote il plauso di Jones; al contrario, inizialmente lo irrita molto. Esso è poi diventato una specie di breviario per chi si interessa di comunità terapeutiche.
Da questa indagine emerse: 1) un conflitto all’interno dello staff fra due sottoculture, una tesa a raggiungere l’obiettivo di una riabilitazione del paziente, l’altra privilegiante una miglior conoscenza di sé attraverso il trattamento comunitario; 2) l’importanza della dimensione transferale anche nel rapporto paziente – educatore, il che pone la questione di un lavoro più esplicitamente psicoterapico; 3) il peso del carisma di Jones.
In effetti il peso del carisma di Jones è abbastanza indiscutibile, come attesta il fatto che, quando nel ’59 egli decide di lasciare l’Henderson per trasferirsi negli Stati Uniti, la comunità terapeutica ha una grossa reazione abbandonica e tutto lo staff si sente in qualche modo tradito, come sempre accade ai gruppi guidati da un leader carismatico. Dopo la sua partenza subentra un periodo di crisi, tanto che nel ’65, anno in cui arriva un nuovo direttore, John Stuart Whiteley, il Consiglio della Contea sta interrogandosi sull’opportunità di chiudere l’istituzione. Fortunatamente l’Henderson supera questa fase traumatica di transizione ed assume
una funzione guida per altre esperienze di Comunità, in Inghilterra e anche fuori del Regno Unito, contribuendo a dar vita ad un’Associazione internazionale di Comunità Terapeutiche (Association Therapeutic Community).

Sia Whiteley che Kingsley Norton, attuale direttore, proseguono e consolidano il tradizionale orientamento comunitario dandogli una veste metodologica sempre più rigorosa e al tempo stesso promuovendo un’intensa attività di ricerca, teorico-clinica epidemiologica e statistica, e di formazione e collaborazione con i settori della psichiatria generale, forense e con i servizi carcerari, operando nell’ambito dei programmi di misure alternative alla pena detentiva e di riabilitazione di soggetti a pericolosità sociale, nonché con i referenti per il governo e per le politiche sanitarie. Nel 1993, in seguito ad uno studio di verifica multidisciplinare condotta all’Henderson in cui emerge un bisogno di assistenza post dimissione sia tra i pazienti, sia tra i clinici di riferimento che hanno seguito il percorso residenziale dei pazienti stessi, viene istituita un’équipe di servizio esterno all’Henderson (Team di Servizio Esterno) per offrire sostegno nel passaggio di reinserimento sociale e nell’utilizzo dei servizi territoriali. Essa fornisce supporto anche nella preparazione dei pazienti all’ammissione, nel caso questi siano valutati compatibili con la struttura, ma non ancora pronti ad intraprendere un percorso residenziale, per esempio perché ancora in terapia farmacologia.
Nel 1998 il Governo centrale riconosce alla comunità lo status di servizio specialistico guida nel settore, concedendogli fondi per la sua attività istituzionale e sul territorio e per l’apertura di altre due strutture nel centro e nel nord dell’Inghilterra. Oggi l’istituzione è organizzata come comunità terapeutica con trenta ospiti (maschi e femmine) di età compresa tra i 17 ed i 45 anni, di cui la maggior parte soffre di disturbi di personalità e appartiene ad un segmento di popolazione “difficile” e “gravosa”. Essi sono sottoposti ad un trattamento residenziale intensivo della durata di circa un anno (la durata media è di 7 mesi).
E’ parere condiviso che due siano le ragioni del successo dell’Henderson, che spiegano come abbia potuto attraversare le turbolenze degli anni 60-80 e confrontarsi con le nuove tendenze della psichiatria, senza dover rinnegare la sua impostazione originaria e metodologica. Da un lato, l’Henderson si è specializzato nel trattamento dei disturbi di personalità (con esclusione quindi della patologia psicotica) per i quali sembra particolarmente utile il modello della comunità terapeutica. Dall’altro, ha sviluppato al proprio interno una linea di ricerca epidemiologica e teorico-clinica che gli ha permesso di conformarsi ai dilaganti criteri di accreditamento e valutazione, con un positivo riscontro in termini di credibilità, affidabilità e di accesso ai  finanziamenti pubblici. I cambiamenti nell’amministrazione e nei piani di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale Britannico, avvenuti nell’aprile 1991 hanno avuto un significativo e dannoso impatto sull’erogazione di trattamenti specialistici in strutture come l’Henderson Hospital. Prevale infatti una politica sanitaria particolarmente attenta a criteri di efficienza, in cui l’aspetto economico diviene un principio guida, facendo apparire la psicoterapia (e la psicoterapia residenziale in particolare) come un lusso molto costoso.
3. Il Tavistock Institute e la socionalisi inglese

In Inghilterra fin dagli anni ‘20 opera la Tavistock Clinic, un centro di psicoterapia psicoanalitica e di formazione per terapeuti, educatori, insegnanti, consulenti di coppia, medici di famiglia e assistenti sociali. Per tutti gli anni venti e trenta è considerata “il parente povero” della Società Psicoanalitica Britannica e viene anche bandita da Ernest Jones e Edward Glover. Con gli anni della guerra la situazione cambia sensibilmente. Alla fine degli anni ‘40 collaborano con la Clinica diversi psichiatri, psicoanalisti e psicologi sociali che durante la guerra prestano servizio nell'esercito occupandosi di selezione del personale militare, riabilitazione sociale dei reduci, trattamento delle nevrosi di guerra: tra loro, personaggi di rilievo come Rickman, Sutherland, Bridger, Trist, Main, Turquet e lo stesso Bion.
Al culmine di questa intensa sperimentazione la Tavistock Clinic sente la necessità di dividersi in due tronconi con due differenti filoni di ricerca. Tra i membri fondatori del Tavistock Institute possiamo annoverare: Bion, analizzato prima da Rickman e successivamente dalla Klein; Elliot Jaques, di formazione
kleiniana, esponente della socioanalisi inglese; Tommy Wilson, analista che ha dedicato la propria vita all’intervento nelle industrie; Trist, analizzato dalla Heimann, non segue l’iter per diventare analista, ma si specializza nella consulenza aziendale, assumendo la presidenza dell’Istituto e costituendo forse il rappresentante più eminente nel campo del pensiero e della teoria; Harold Bridger, psicoanalista.

Un gruppo,  interessato in particolare alla psicologia delle organizzazioni sociali, dà origine nel 1946 al Tavistock Institute of Human Relations, che diviene un centro di ricerca e consulenza, specializzato nell’analisi e in interventi sulle dinamiche relazionali in contesti istituzionali e organizzativi, sovvenzionato privatamente e ingaggiato da industrie e da altre vaste organizzazioni. La Clinica, che nel 1948 entra a far parte del neocostituito Servizio Sanitario Nazionale, rimane ancorata più all’area del trattamento psicologico e della formazione dei terapeuti, con particolare attenzione per la psicologia dello sviluppo infantile e adolescenziale, le difficoltà delle coppie e i problemi dell’educazione. Un capitolo speciale della storia della Clinica è l’approccio rivoluzionario impiegato da Michael e Enid Balint alla formazione psicologica dei medici di famiglia, da cui nasce una specifica modalità di training detta dei “gruppi Balint” (Balint 1957).
Sin dall'inizio collabora con l’Istituto uno dei più importanti esponenti della scuola gestaltica, Kurt Lewin il quale, in collaborazione con il Tavistock e con i National Training Laboratories di Betel negli Stati Uniti, fin dal 1949 porta a compimento il modello del T-group, uno dei primi gruppi esperienziali utilizzato per la formazione nelle organizzazioni e per lo studio delle dinamiche di gruppo (Lewin 1948, 1951). T-group costituisce l’ abbreviazione di Basic Skills Traning-group, e può essere reso nella lingua italiana in vari modi: gruppo di base, gruppo di evoluzione, gruppo centrato sul gruppo, gruppo di sensibilizzazione, o gruppo diagnostico. Nella formulazione originaria il T-group è una tecnica di apprendimento basata sull’esposizione personale in un piccolo gruppo, finalizzata sia all’acquisizione esperienziale dei concetti di base della dinamica di gruppo, sia alla realizzazione di un’adeguata consapevolezza delle personali modalità di porsi in relazione con gli altri. Nell’ipotesi della scuola lewiniana, i cambiamenti e gli apprendimenti realizzati mediante l’esperienza di gruppo dovrebbero trasferirsi nella vita sociale e professionale delle persone coinvolte, che diventerebbero agenti di cambiamento particolarmente efficaci e democratici.

Dall’incontro delle idee di Bion e di Lewin, e, in un secondo tempo, anche dal contributo fondamentale della teoria sistemica, nasce il primo modello di formazione alle relazioni di gruppo, che viene poi sviluppato dal Tavistock Institute come uno specifico programma di training: nell’ambito di tale programma la formula più innovativa è rappresentata dalle cosiddetta “Conferenza di Leicester”, seminario residenziale della durata di due settimane durante le quali i partecipanti esplorano le relazioni di gruppo, la leadership e l'autorità all'interno di gruppi di varia composizione e con compiti differenti, alcuni di tipo più emozionale ed esperienziale, altri con finalità più specificamente applicative (Miller 1989).
Le matrici teoriche del modello Tavistock, che è deliberatamente eclettico, sono principalmente due: la “socio-analisi”, e la teoria dei sistemi aperti, i cui concetti sono applicati in diversi campi, dalla modellizzazione delle organizzazioni sociali alla terapia familiare (von Bertalanffy 1968). Accanto a questi figurano gli apporti di altre discipline, quali le scienze politiche, economiche ed aziendali, la psicologia e la sociologia, che offrono importanti strumenti procedurali, di contestualizzazione dell’analisi e di orientamento della ricerca.
 L’approccio socioanalitico ai gruppi e alle organizzazioni nasce nell’alveo teorico delle psicoanalisi e sul terreno di una sua esplicita applicazione alle organizzazioni sociali. Sul piano teorico essa riprende e approfondisce sia gli spunti antropologico-sociali di Freud (1921, 1927, 1929, 1939), sia i contributi di M. Klein (sulle relazioni oggettuali precoci e sui meccanismi di difesa dall’angoscia), di D. Winnicott (sull’holding e lo spazio transizionale) di grande utilità per la comprensione dei processi trasformativi, e di Bion (in particolare sui gruppi e gli assunti di base). Questa elaborazione inizia negli anni Cinquanta con il lavoro di Jaques e colleghi, cui seguono numerose esperienze di intervento socioanalitico in altri tipi di organizzazione (ospedali, servizi sanitari,ecc.).

L’oggetto principale di indagine è quella che chiamano “l’organizzazione-nella-mente” (Lawrence (1979) e Armstrong (1997)cioè l’istituzione intesa come complesso degli aspetti soggettivi e intersoggettivi, che rappresentano il modo con cui un' organizzazione viene vissuta e pensata (o anche solo vissuta) dalle persone e dai gruppi che a qualsiasi titolo ne fanno parte o interagiscono con essa. Questi aspetti soggettivi, sostanziati da un tessuto emozionale fatto di sentimenti, miti, fantasie e relazioni interiorizzate e da specifiche angosce e difese, hanno il potere di influenzare i comportamenti concreti, le relazioni tra i ruoli, le prestazioni lavorative e a volte di condizionare pesantemente la stessa politica generale dell'organizzazione.
Vera Zagier Roberts in un noto articolo “Autorità è una parolaccia?” (1994), sottolinea questa duplicità intrinseca ad ogni organizzazione, che si costruisce sempre come sistema a doppio compito: uno è la propria missione istituzionale, l’altro è creare delle difese dall’ansia. Il lavoro umano, e di conseguenza le organizzazioni che lo realizzano, hanno dunque il duplice obbiettivo di produrre dei risultati in termini di merci, beni, servizi o idee, ma anche di soddisfare i bisogni inconsci delle persone, soprattutto quelli di appartenenza, di sicurezza e di identità. Tutto quello che può minacciare l’appagamento di questi bisogni è
generatore di intense angosce primitive di fronte alle quali nel sistema sociale si generano difese altrettanto primitive e massicce. Le istituzioni si organizzano in qualche misura anche e soprattutto come apparati difensivi contro queste angosce.

A questo proposito la teorizzazione socioanalitica (Jaques 1955, Menzies 1960, Obholzer e Roberts 1994) fornisce un’interessante chiave di lettura della psicodinamica delle organizzazioni sociali, quali le aziende produttive, la sanità e la scuola, applicando concetti, metodi e tecniche psicoanalitiche per comprendere, aiutare e trasformare le istituzioni sociali. Tutto questo è realizzato mediante il coinvolgimento attivo dei loro componenti in un lavoro di ricerca, analisi e cambiamento delle regole di funzionamento implicite dell’organizzazione di appartenenza.
Secondo Eliott Jaques (1955) i rapporti sociali presentano caratteristiche simili a quelle che improntano la relazione primaria tra il bambino e la madre, e i meccanismi di difesa messi in atto per fronteggiare l’angoscia emergente da tale relazione. Ogni istituzione presenta accanto alle funzioni e agli obiettivi di lavoro dichiarati, una seconda finalità inconscia che è quella di sostegno e difesa dei propri membri contro l’emergenza di angosce primarie. Attraverso il meccanismo dell’identificazione proiettiva, che consiste nel proiettare fuori di sé (soprattutto sulla struttura dei ruoli e dell’organizzazione) parti di sé e oggetti interni vissuti come pericolosi o danneggiati, i membri di un’istituzione mettono in atto un “sistema socialmente condiviso” di difesa dall’ansia paranoide e depressiva. Tale sistema viene reintegrato da ogni singolo membro attraverso il meccanismo dell’identificazione introiettiva, con la duplice funzione di rafforzare le difese individuali e di bonificare il compito primario dalle fantasie arcaiche presenti a livello inconscio. Il sistema protettivo così creato in condizioni fisiologiche protegge e presidia l’operatività organizzativa e consente o facilita il perseguimento degli obiettivi istituzionali. Ad esempio in una camera operatoria la sterilizzazione emozionale e la totale passività del paziente permettono all’équipe chirurgica di svolgere il proprio lavoro senza che gli operatori siano sommersi dall’ansia.
Più spesso però queste resistenze inconsce, finalizzate a tenere lontani l’ansia e il dolore, si rivelano ingannevoli nella misura in cui non mantengono uno stato durevole di sicurezza e serenità. Allora le ansie che sembravano dissolte finiscono col riemergere, ed in maniera subdola e silenziosa (in quanto le difese le hanno rese inconsce e del tutto inaspettate) determinando una situazione di crisi nell’istituzione e compromettendo il raggiungimento degli obiettivi di lavoro.
Secondo questo autore l’intervento socionalitico si rende necessario proprio in queste circostanze, e prevede un’indagine della realtà istituzionale a quattro livelli: 1) su quello che è manifesto; 2) su quello che si ipotizza, o presunto; 3) su quello che effettivamente accade; 4) sull’auspicabile, cioè sulle condizioni ritenute ottimali, ad esempio al funzionamento dell’organizzazione. L’intervento può essere attuabile soltanto in un clima di collaborazione per un lavoro comune volto a consentire all’istituzione un esame di realtà dei dati emergenti dall’indagine effettuata ai quattro livelli. Nella conduzione del lavoro i consulenti socionalitici devono assumere un atteggiamento improntato alla collaborazione, alla neutralità e alla non direttività.
Incoerenze organizzative, inadempienze gestionali, collusioni inconsce tra le parti in causa, vengono lette come sintomi in modo da mettere in luce quello che precedentemente era nascosto. Il confronto tra le fantasie inconsce socialmente condivise e i dati realistici dovrebbe consentire all’istituzione il recupero delle competenze operative e una maggiore capacità di “metabolizzare” l’ansia, riorganizzando il proprio apparato difensivo in termini più evoluti, in modo che riesca a funzionare meglio, a costare di meno, a non interferire col mandato istituzionale e ad offrire ai suoi membri quella misura di protezione dall’ansia che è loro necessaria per svolgere il proprio lavoro senza venirne danneggiati
In particolare, nelle istituzioni del servizio sociosanitario il contatto con la malattia, la morte, la nudità dei corpi, favorisce massimamente l’emergere di vicende fantasmatiche inconsce con il rischio che si verifichi quello che Hanna Segal definisce un’equazione simbolica tra simbolizzante e simbolizzato, con conseguente rafforzamento dell’ansia. Esemplificativo a questo riguardo è l’indagine che Isaac Menzies (1960) conduce sul servizio infermieristico in un reparto di un ospedale inglese, con funzioni di formazione. Per fronteggiare l’ansia sollevata dalla stretta analogia tra ruolo infermieristico e vicende fantasmatiche di lutto e distruzione, il reparto ospedaliero ha strutturato dal punto di vista funzionale, organizzativo e culturale un sistema sociale deputato alla difesa dall’ansia, fondato su un modello organizzativo rigido e parcellizzato. Il compito di tali difese è quello di proteggere e, dunque, impedire, ogni tipo di coinvolgimento emotivo nel rapporto infermiere/paziente. A livello organizzativo questo si esprime attraverso un’eccessiva frammentazione delle
mansioni affidate a persone diverse; in un forte prevalere della componente prescrittiva del lavoro a scapito di quella discrezionale; nel trasferimento frequente del personale da un reparto all’altro. La particolare organizzazione e definizione del lavoro che emerge, non essendo legata né alle caratteristiche del compito, né a criteri di efficienza e di razionalità, produce un’ansia secondaria testimoniata, tra l’altro da un elevato turnover del personale: chi non si uniforma a queste regole implicite è soggetto a spinte espulsive.

Il concetto-chiave di organizzazione come sistema aiuta a chiarire le complessa rete di interdipendenze tra interno ed esterno e tra individuo-gruppi-istituzione-ambiente. L’individuo, il gruppo, l’organizzazione possono essere descritti come sistemi delimitati da una membrana-confine che li separa l’un dall’altro ma al contempo ne permette gli scambi reciproci, operando come matrice dell’identità dell’individuo, della coesione gruppale e del sentimento di appartenenza dell’organizzazione

La funzione regolatrice che governa la permeabilità del confine e la natura delle transazioni tra il sistema e l’ambiente esterno è assolta a livello individuale dall’Io, che padroneggia i processi istintivi ed effettua l’esame di realtà. A livello gruppale e istituzionale è svolta dalla leadership, il cui governo si esercita non solo sulle transazioni attraverso il confine ma anche sui processi operativi interni al sistema, allo scopo di garantirne l’aderenza al compito primario dell’organizzazione (produrre merci e profitti, curare malati, educare persone, ecc.).
Un altro concetto fondamentale che il modello Tavistock mutua dalla concezione sistemica e applica alla vita organizzativa è quello di compito primario.
Il compito primario, che ha molti punti di contatto con quello che il linguaggio aziendale indica come mission o come core business è quello prioritario rispetto agli altri, quello che una qualsiasi organizzazione deve svolgere se vuole sopravvivere. I problemi istituzionali insorgono a volte laddove non solo i compiti non sono chiari, ma dove si verifica, spesso silenziosamente, un capovolgimento nella loro gerarchia, sicché un compito secondario diviene gradualmente più importante di quello primario. In altri casi le difficoltà nascono da un conflitto non riconosciuto o non risolto tra più compiti primari: è il caso delle organizzazioni cosiddette “a doppio compito” (dual-task) come ad esempio un ospedale universitario, in cui il compito primario di prendersi cura dei malati può entrare in conflitto con quello di pari rango rappresentato dalla formazione degli studenti in medicina.
Una panoramica del modello Tavistock non sarebbe completa senza un accenno alla questione cruciale dell’autorità e del potere, temi a lungo trascurati dall’indagine psicologica e divenuti invece aree privilegiate di studio nelle “Conferenze di Leicester”. In breve si può evidenziare come l’autorità e il potere consistano in generale nella capacità di prendere delle decisioni che vincolano o influenzano il comportamento degli altri. Mentre il potere è un attributo della persona, è una forza effettiva e dipende dalle sue risorse (il carattere, il prestigio sociale, il denaro, gli appoggi politici), l’autorità è un attributo del ruolo, è il riconoscimento di autorevolezza necessaria e sufficiente a un determinato ruolo perché possa essere esercitato. Da questo punto di vista l’autorità è funzione di un determinato compito istituzionale e la sua forza dipende da tre fonti principali: il conferimento dall’alto, ovvero l’empowerment da parte dei superiori; la “sanzione” dal basso, cioè il riconoscimento e la collaborazione da parte dei subordinati; l’ ”autorizzazione” dall’interno, cioè la legittimazione all’esercizio dell’autorità da parte delle figure parentali interiorizzate nel corso dello sviluppo personale.
Il modello Tavistock si è diffuso in diverse nazioni europee e fuori dell’Europa in vari Paesi di cultura
anglosassone, dando origine a nuovi filoni di studio e a una pleiade di istituti e organizzazioni consorelle o partner della “casa madre” inglese: in Inghilterra, accanto al Tavistock Institute e alla Tavistock Clinic, il Grubb Institute e OPUS. Un grande sviluppo ha avuto luogo negli Stati Uniti, dove la “filiale” americana del Tavistock, l’A.K.Rice Institute, ha creato una rete di centri molto attivi. Istituti e Associazioni legati al modello Tavistock sono presenti inoltre in Messico, in Israele, in Sud Africa, in India e in Australia (AISA). Una gloriosa rivista, Human Relations, nata nel 1948 col contributo di Lewin e di Bion, raccoglie tuttora il meglio del pensiero generato all’interno di
 questo modello e nelle sue adiacenze, perseguendo tenacemente la sfida originaria di tentare l’integrazione tra le scienze sociali ed economiche e la psicologia degli individui e dei gruppi.




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