domenica 23 febbraio 2014

LA COMUNITÀ TERAPEUTICA: LUOGO DI VITA, LUOGO DI CURA





LA COMUNITÀ TERAPEUTICA: LUOGO DI VITA, LUOGO DI CURA

Anno 2, n.14, nov. 2002
Olivero,Maurizio



Terapia di Comunità
Rivista bimestrale di psicologia
www.terapiadicomunita.org
Rivista ufficiale della Comunità Terapeutica IL PORTO onlus
Via Petrarca 18 - 10024 Moncalieri(TO)
www.ilporto.org

Relazione tenuta  al Convegno interdisciplinare  “Andar per luoghi”
Università degli Studi di Torino, Facoltà di Architettura. 28 giugno 2002




   A partire dalla mia esperienza, vorrei riportare alcune riflessioni su un luogo abitativo particolare: la comunità terapeutica.
    Insieme ad alcuni concetti teorici utili per riflettere sull’utilizzo dei luoghi in senso terapeutico cercherò di raccontare la mia esperienza nel vivere il luogo “Comunità Terapeutica Il Porto”, in cui lavoro.

La Comunità Terapeutica
Il bisogno di avere radici è forse il più importante e il meno conosciuto dell’anima umana.
Difficile definirlo.
L’essere umano ha le sue radici nella concreta partecipazione, attiva e naturale all’esistenza di una comunità che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti dell’avvenire
S. Weil

    La Comunità è un luogo di cura ma è anche un luogo di vita.
La Comunità Terapeutica si configura come un laboratorio sociale che cerca di utilizzare una forma di stare insieme, la comunità appunto, per influire sul benessere degli individui e sviluppare o mantenere le risorse che hanno a disposizione. Questo modo di stare insieme prevede un’intensa esperienza di gruppo e la possibilità
di non perdere (o riacquistare) la gestione diretta della propria vita in tutti gli aspetti, anche quelli più minutamente quotidiani. Una comunità “sufficientemente buona” non garantisce che gli individui diventino maturi e solidi, ma può creare le condizioni perché ognuno possa sviluppare al massimo le proprie potenzialità e possa accettare il più serenamente possibile i propri limiti. Mantenere nel tempo la massima autonomia sostenibile: questo è il compito primario dell’istituzione.
   La comunità non è vista solo come luogo di cura ma come ‘agente’ delle cure. Nella Comunità Terapeutica il fare è sempre in primo piano e si propone di diventare parte integrante del progetto di cura. Spesso l’[1].
azione si rivela il solo linguaggio per poter comunicare con persone (i pazienti) che funzionano con processi mentali molto primitivi e per promuovere un processo di cambiamento del loro mondo interno
   Il cuore della terapia si fonda su una ‘clinica del quotidiano’, in cui ogni momento della giornata diventa un’occasione di apprendimento dall’esperienza. La funzione curante della Comunità è esercitata dalla “domesticità” che si può definire come:
“l’esperienza del vivere in un luogo riscoprendo soprattutto la dimensione degli atti, dei gesti, degli avvenimenti e delle emozioni della vita di tutti i giorni, attraverso negoziazioni, dinieghi, assenze, convivenze, contrarietà, condivisioni con gli altri ospiti e gli operatori, con il supporto di un contenitore, che a tutto questo conferisca, attraverso i percorsi della interpretazione e della significazione, una intenzionalità riparativa. Domesticità è quindi il porsi in termini di conoscenza e di riflessione il problema dei tempi e modi in cui si svolgono gli atti della vita quotidiana” (Rabboni 1997, p.144)

Particolarmente interessante a questo riguardo è la recente ricerca condotta sulla percezione della Comunità Terapeutica “Il Porto” da parte degli operatori e dei residenti. Dall’analisi dei dati raccolti emerge in modo significativo l’importanza terapeutica che assumono i momenti informali e il vivere la quotidianità, soprattutto per i residenti. (R. Piscopo, in  www.ilporto.org, Biblioteca 2001)


Lo spazio vissuto e l’abitare


Non c’è possibilità di confronto con la follia, e forse ancor più con i suoi esiti, in assenza di qualcuno che sia disposto ad avere nella mente i luoghi, i progetti e le persone; ad assicurare loro, quindi, memoria e identità, come coerenza e costanza nel percepire e nell’essere percepiti
Rabboni, 1997

   Per comprendere a pieno il ruolo svolto dall’ambiente che avvolge gli individui non è possibile limitarsi a pensare lo spazio unicamente a livello astratto e razionale, uniforme ed indifferente ai soggetti che ci vivono. Occorre soffermare l’attenzione su come lo spazio viene vissuto e sullo stretto legame che si intesse, giorno
dopo giorno, in uno scambio continuo, con il mondo interno dell’individuo che lo abita. Questo modo di concepire il rapporto dell’uomo con il suo ambiente è il cuore della sua condizione esistenziale. Secondo Heidegger abitare rappresenta l’elemento distintivo di quello che significa ‘essere un essere umano nel mondo’. Essendo un ‘mondo-progetto’ del soggetto, il mondo è costituito da cose che assumono senso e rilevanza a partire dal progetto e cioè dalla loro ‘utilizzabilità’ da parte del soggetto progettante.
   Questi concetti investono certamente alcuni aspetti dell’intervento terapeutico in comunità: sviluppare la sfera delle possibilità di immaginare, progettare lo spazio come proprio, dotandolo di un significato, è un atto che consente all’individuo di arricchire la propria esistenza (o contrastare l’esperienza di perdita di senso del mondo) e di ricomporre le proprie fratture esistenziali. Si può agire sullo spazio come sulla progettualità dell’individuo per rafforzare o sviluppare un rapporto positivo con il proprio luogo abitativo.
   Lo spazio vissuto è uno spazio ‘umanizzato’ in cui ci sono confini che ci permettono di sentirci ‘protetti’, al sicuro, e dove ‘l’intimità’ trova il suo posto. E’ nello spazio dell’abitare che l’intimità trova la sua decisiva espressione psicologica e umana, diventando un abitare percorso di affetti (Minkowski, 1971; Borgna,2002).
   Il pensiero sulla malattia mentale e l’architettura degli spazi sono sempre stati strettamente collegati. Esempi eclatanti sono la progettazione dei manicomi (un sistema a bracci e corpi collegati in cui sono suddivise le varie forme di follia, con il nucleo centrale per l’amministrazione, i servizi medici, l’esame e le terapie comuni. Cioè per l’ autorità dello psichiatra ) e la loro sistemazione geografica. Per allontanare l’eccesso di passioni e il disordine delle città, il manicomio avrebbe offerto l’ isolamento della campagna e il rassicurante accordo con i suoi cicli vitali (Morachiello, 1982).
   Nella cultura dell’ottocento, il manicomio si presentava come l’opposto dell’abitare, il luogo delle ‘eterotipie’ in sostituzione del luogo dei legami e degli affetti. Si connotava come non-luogo, spazio per non-storie, in cui si sospendevano il transito, l’andare per il mondo, l’entrare e l’uscire, il dislocare e lo spostarsi, come altra dimensione della crescita. (Rabboni, 1997)
   La spazializzazione del malato mentale e della cura sono state rette dalle classificazioni nosologiche della follia. Nel periodo dell’unificazione dello Stato Italiano il pensiero psichiatrico interpretava la follia come “un’anomalia patologica a cui predispone un’attitudine alla devianza”, fondando le terapie sulla rieducazione e rigenerazione svolte in un luogo isolato dal resto della società (Morachiello, 1982). Gli alienati erano distinti in base ai comportamenti innocui, ai danni organici, alle complicazioni pericolose possibili[2].
    Lo spazio comunitario si propone di creare luoghi dell’abitare, inseriti nella sfera dell’intimità, in contrapposizione a luoghi anonimi, non- luoghi che distruggono i legami.
In Comunità si stimolano i residenti a prendere parte alle attività, a condividere con gli altri i momenti della giornata, a coltivare le proprie passioni in modo da riavvicinarsi al mondo con maggiore fiducia. Coinvolgimento e cura dell’ambiente sono elementi essenziali per appropriarsi del proprio spazio e instaurare un legame con esso, come il tempo e la cura dedicati alla pulizia o al riordino della propria stanza.
Come ci ricorda il Piccolo Principe, creato dalla fantasia di Saint-Exupery, parlando della sua rosa:
“E’ il tempo che ho perduto per la mia rosa che ha fatto la mia rosa così importante”

I diversi significati dello spazio vissuto

   Come possono concorrere i singoli momenti della vita quotidiana, nell’ambito di un sistema di vita comunitaria, alla promozione del benessere di un individuo, ad un maggiore rispetto di sé, ad una maggiore autostima, ad una maggiore tolleranza dei bisogni altrui?
   Molto interessanti sono le riflessioni che Bruno Bettelheim riporta narrando l’esperienza di venticinque anni di lavoro alla Orthogenic School di Chicago, istituto per bambini, adolescenti e, in seguito, giovani adulti con
gravi problemi psichici. Bettelheim attribuisce molta importanza al ruolo dell’ambiente nel processo terapeutico, perché ha riscontrato risposte emotive molto intense anche a particolari apparentemente insignificanti della sistemazione fisica del suo istituto (Bettelheim, 1976).
   Il paziente riceve dei messaggi muti dall’organizzazione dell’ambiente, la cui continua e attenta cura è in stretta relazione con i bisogni e le caratteristiche delle persone con gravi problemi psichici, che portano come problema centrale l’assenza del rispetto di sé. Il fine principale della terapia è di restituire una genuina stima di sé ai residenti. Tutto l’ambiente deve quindi essere pensato e progettato per dare valore all’individuo.
  Più in dettaglio, la riflessione sui luoghi non può essere scollegata alle caratteristiche delle persone che li abitano. Lo spazio vissuto può assumere diversi significati in relazione alla strutturazione del mondo interno dell’individuo.
   I pazienti borderline non raggiungono il mondo circostante in modo da permettere all’oggetto di svolgere una funzione legante. E’ in gioco una turbolenza che determina delle increspature continue dello stato di coscienza, per cui il tempo non è mai sereno (Correale e all., 2001). Queste persone hanno bisogno di fermarsi, di stabilizzarsi e di rispecchiarsi in un fondo attendibile che sedimenti gradualmente, nel quale potersi riconoscere.  Lo spazio della presenza si articola secondo tensioni: qua-là, vicino-distante. Come nota Correale, nel disturbo di personalità borderline, tra la presenza e l’assenza non trova spazio la dimensione della lontanza. Manca una costanza dell’oggetto entro se stessi, che possa essere rievocato nei momenti di assenza. Il disturbo borderline è un disturbo della continuità: “Io non so che cosa diventerò”, “non so com’ero un momento fa”. Si ha la sensazione di rapportarsi con una persona che diventa subito qualcos’altro. E’ assente o deficitaria l’ipseità: un concetto elaborato da Paul Ricoeur e definibile come lo sfondo di memorie sensoriali e affettive, su cui vengono a collocarsi le esperienze del momento presente. La richiesta continua di conferme o gratificazioni può essere letta “come il desiderio disperato che dall’esterno giunga qualche forza capace di ridare un senso di coincidenza fra sé e senso di sé, fra identità ed ipseità, tra la propria vita vissuta per sé e la propria vita vissuta per gli altri” (Correale et all., 2001). Basta un nonnulla e immediatamente sembra che crolli tutta la progettualità, subentrando la risposta automatica della rabbia e della trasgressione.
   Tutta l’impalcatura della comunità (regole, orari, ritmi del quotidiano) è pensata per offrire una continuità che i pazienti borderline non hanno. La continuità dei tempi e degli spazi è un modo per presentare alle persone che le cose durano e raccontare la quotidianità, con la sua funzione tessitrice, diventa un importante fattore terapeutico. I borderline sono incapaci di godere il tessuto dell’intimità con il quotidiano, dal momento che è lacerato. La ricostituzione di uno sfondo psichico adeguato si verifica in base a ciò che si ‘fa’ piuttosto che in base a ciò che si dice. Gli effetti di ricostituzione del senso di sé sono una conseguenza dell’atmosfera globale dell’ambiente terapeutico. Tutto l’atteggiamento dell’istituzione deve essere orientato ad apprezzare e valorizzare l’ispeità. Una funzione essenziale è quella della presenza corroborata da un’azione che assuma le caratteristiche della testimonianza, della narrazione, della progettazione del futuro.
  
   Illustriamo il rapporto che si sviluppa con il luogo-camera da letto in Comunità di pazienti borderline con un esempio:

Stefania, 28 anni, è arrivata in Comunità circa un anno e mezzo fa dopo lunghi anni trascorsi tra comportamenti autolesivi, disturbi dell’alimentazione e ricoveri ospedalieri. Nei primi mesi il suo angolo di stanza si presenta piuttosto spoglio e disordinato. A volte, nei momenti di rabbia, si rifugia in camera dove mette tutto a soqquadro, strappa disegni o poster appesi. Mano a mano la stanza acquista sempre più vita, su tutta la parete Stefania appunta fogliettini su cui si invia dei messaggi di fiducia o delle riflessioni su sé stessa. Ella stessa colora le mensole e il comodino della stanza. Propone l’acquisto di una scrivania che piano piano si riempie di libri e viene abbellita da una vaso con dei fiori. Ultimamente, anche nei momenti di rabbia, Stefania preserva i suoi oggetti e la sua stanza, la quale sembra essere divenuta il contenitore delle sue ricchezze interiori come dei suoi momenti di tristezza.

   Anche per i disturbi schizofrenici come per i disturbi borderline il rapporto con lo spazio circostante risulta fondamentale. Probabilmente con un’intensità ancora maggiore e allarmante.
Lo schizofrenico è confuso su che cosa appartenga al suo Sé. Il più antico precursore dell’Io è il cosiddetto Sé-corporeo. Nelle fasi precoci della vita psichica, quello che il corpo può fare viene a essere sperimentato come quello che “io posso fare”. Gran parte di quanto accade all’interno della mente o del corpo è sperimentato dallo schizofrenico come avente luogo all’esterno. Poiché il suo corpo (e quindi il suo Sé) non ha confini definiti, le cose esterne diventano terribilmente importanti.
    Se l’edificio deve servire da confine vicariante temporaneo per un Sé che non ha ancora realizzato i propri confini, è importante che esso dia l’impressione di essere degno di assolvere questo compito. (Bettelheim,
1974). L’edificio deve sembrare allo schizofrenico doppiamente degno di fiducia perché egli lasci che il suo Io fluisca in esso. Questo avrà come conseguenza un rafforzamento dell’Io, in quanto egli potrà identificarsi con gli aspetti significativi del mondo esterno e costruire la propria identità personale.

   Riportiamo un esempio di rapporto con il luogo-camera da letto:

Luisa, una donna di 45 anni, arrivata in Comunità da due anni con una diagnosi di schizofrenia, ha sviluppato un rapporto con la sua stanza che illustra metaforicamente le condizioni del suo mondo interno e i cambiamenti avvenuti nel tempo. Al suo arrivo le è stata assegnata una stanza singola e Luisa ha progressivamente espulso dalla sua stanza tutti i mobili perché li sentiva minacciosi e ha cosparso i muri di scritte e disegni. Anche i suoi vestiti hanno subito la stessa sorte e la porta della sua camera rimaneva costantemente aperta. Attorno a sé Luisa non poteva che tollerare pochissimi oggetti, che periodicamente metteva in un sacco nero con l’intenzione di liberarsene. Dopo circa un anno Luisa ha espresso il desiderio di dipingersi la stanza, ne ha scelto il colore e ha accettato di avere un comodino con un mobile per i vestiti, che ha scelto con gran cura. Attualmente la stanza di Luisa ha un arredamento molto essenziale, ma si presenta pulita e accogliente. Luisa all’uscita dalla stanza controlla che la porta sia ben chiusa.
La stanza da luogo pericoloso si è trasformato in un luogo di rifugio

Il luogo Comunità Terapeutica Il Porto

   J’ai découvert une grande vérité. A savoir que les hommes habitent, et que le sens des choses change pour eux selon le sens de la maison
A. de Saint-Exupéry in Citadelle

La Comunità Terapeutica Il Porto si trova nel Comune di Moncalieri (Torino).
 Arrivando di fronte al Castello e proseguendo di qualche centinaio di metri, sul fianco della collina, si incontra il luogo in cui i residenti della Comunità sono ospitati.  La superficie del giardino della Comunità, che è di circa 20.000 mq, accoglie oltre alla casa patronale, un secondo edificio chiamato ex-Scuderie (in quanto un tempo vi erano le scuderie) che ospita l’Unità per residenti con  doppia diagnosi, l’edificio dell’atelier (un tempo la limonaia), la serra, il gazebo nel boschetto (che nel periodo estivo viene utilizzato come caffetteria).
   Varcato il cancello, un viale, leggermente in salita, porta il visitatore di fronte alla facciata di una Villa Patronale dei primi dell’800. Sul fianco sinistro si accede al suo interno. Nella casa è inscritta la storia di una famiglia nobiliare ottocentesca (la famiglia Della Cha), con i loro simboli forgiati nel ferro battuto delle porte, gli affreschi ai soffitti, i camini, la sala della musica, la sala del biliardo, la sala da pranzo, le cucine, le camere da letto patronali e della servitù.
L’edificio, al primo impatto, sprigionando un fascino  aristocratico, lascia un po’ intimoriti e disorientati. Avvolta in questa struttura antica e maestosa vive una realtà in continua trasformazione. Come a rappresentare gli intensi scambi emotivi che creano le basi per un cambiamento, anche la struttura della comunità e la destinazione degli spazi negli anni è cambiata e attualmente è in ulteriore trasformazione; un processo di manutenzione continua che evidenzia il ‘fare vita’ proprio di questa casa.  Un fare vita non stereotipato, che cerca di valorizzare le peculiarità e i tratti distintivi di ognuno, ovviamente senza perdere il dialogo con la realtà esterna in continuo mutamento. E’ questo il senso espresso da un  piercing di grandi
dimensioni, applicato ad un angolo della casa, che richiama una delle forme di espressione dei giovani d’oggi.
   Nel parco, risalendo il viale, sulla destra, il visitatore è accolto da una composizione artistica  chiamata ‘Trash’. Una rampa viola, costruita con sedie, letti, vecchi oggetti, a simboleggiare che nulla viene buttato via, ma può essere riutilizzato in modo diverso e originale per permetta di spiccare un salto verso l’esterno: alla estremità della rampa  si trova una bicicletta di color giallo. L’artista GianFranco Sena, che collabora alla vita della Comunità, ha costruito questa installazione anni fa, mentre venivano svuotate le cantine dai rifiuti accatastati negli anni.
    In questo ultimo anno, grazie anche ad una generosa donazione della Fondazione San Paolo, stiamo ultimando la trasformazione di una serra di inizio secolo in bagno turco. Abbiamo infatti pensato che possa essere importante avviare un lavoro sul corpo, e gli hammam nella cultura araba ed orientale costituiscono da sempre un luogo di riposo e di rilassamento.
       Il luogo Comunità si presenta quindi denso di profondi significati simbolici che partecipano al percorso di cura. La scelta dell’edificio in cui collocare la Comunità permette di rispondere nel modo migliore ai bisogni delle persone che vi abitano.
Per un paziente con problemi psichici, che spesso si sente ai margini della società perché non produttivo e portatore di sofferenze, vivere in un edificio che un tempo era abitato dalle persone più in vista della Città costituisce un forte messaggio sul suo valore. Anche l’età dell’edificio trasmette significati alle persone. Bettelheim pensa che la sensazione di sentirsi a ‘casa propria’ sia più facile trovarla in un vecchio edificio, in quando dà l’impressione di essere passato attraverso molte esperienze ed essere sopravvissuto (Bettelheim, 1974).

   Indirizzando l’intervento terapeutico allo sviluppo dell’attaccamento al proprio luogo di vita, alla ri-appropriazione e valorizzazione del proprio spazio, si può favorire lo sviluppo dell’autostima e di un senso di identità più stabile. Poter trovare un proprio posto, un luogo in cui potersi fermare per mettere in ordine le proprie cose (sia concrete che emotive) e poi riprendere il proprio cammino di vita (spesso accompagnati da altri) sembra essere un aspetto essenziale per chi, come le persone con gravi disturbi psichiatrici, da anni passano di luogo in luogo (casa, reparti psichiatrici, case di cura, altre comunità) portando con sè l’intollerabilità della propria sofferenza. Per dirla con Zapparoli, si cerca di fornire una ‘residenza emotiva’ alle persone che vengono ospitate.
   La Comunità Terapeutica Il Porto, come indica il suo nome, si propone di fornire un Porto sicuro e protetto a cui possono attraccare le navi reduci da lunghi viaggi, in cui si sono incontrate tempeste e privazioni. Una Casa - Porto, che prepara le navi per un nuovo e, si spera, più solido e sicuro viaggio.  Un
luogo di incontro, di scambio tra esperienze diverse, dove vengono accolte le delusioni ma si rinnova il desiderio di progettare nuovi viaggi, un crocevia in cui ognuno possa conservare la propria originalità e il proprio carattere.
   Pur consapevole della complessità e della profondità di questo passaggio, la Comunità cerca di proporsi non come uno ‘spazio’, ma come un ‘luogo’, di cui le persone si possano appropriare vivendolo. Nonostante i suoi residenti abbiano la possibilità di infondergli le loro caratteristiche uniche, la comunità rimane sempre un luogo di transito, in cui sostare per un periodo, per prepararsi ad andare altrove (che può essere il ritorno in famiglia, l’alloggio protetto dell’Asl, una propria abitazione).
   Per i residenti venire in Comunità significa spesso lasciare la casa dei genitori per costruirsi un proprio spazio; si tratta di un momento della vita importante e doloroso carico di molte ambivalenze e paure. E’ forte la dimensione emotiva della nostalgia, nelle sue diverse sfaccettature, che segna il cambiamento di luogo con diversi significati e il cui confronto è ineludibile. Ogni uomo nel proprio percorso di vita viaggia attraverso i luoghi: parte dalla propria casa, spazio condiviso, per andare in luoghi sconosciuti, fino a raggiungere la maturità quando si costruisce la ‘propria’ casa.
 Le persone che arrivano in Comunità spesso sono senza casa e senza luoghi propri, come dei viandanti disperati (a volte non solo a livello del proprio mondo interno). La loro vita è stata un andare e venire tra casa dei genitori, tentativi di autonomia, ricoveri ospedalieri, senza potersi soffermare in un luogo che fosse sentito ‘proprio’, sempre luoghi altri, dove ci si sentiva fuori posto. Lo spazio che la Comunità offre, la casa con le sue stanze e i locali comuni, si propone di diventare un luogo, in cui si possa posare il proprio zaino (carico di sofferenze ma anche di risorse) e preparare un bagaglio di viaggio più completo e solido.
    Continuando la metafora del viaggio, le persone possono entrare nella dimensione del ‘pellegrino’, sempre in viaggio ma con delle mete definite. Perchè questo possa accadere è necessario che per il viaggiatore il luogo ‘Il Porto’ diventi qualcosa che gli appartiene, dove si permetta di ‘sentirsi a casa’ e da cui possa iniziare a desiderare il mondo esterno, progettare la scoperta dell’ignoto, immaginare la fuga, sperare la libertà (V. Iori, 1988).
    Si tratta di un processo di appropriazione con profondi significati psicologici perché implica entrare in contatto con i significati simbolici del luogo-casa, inteso come immagine materna che avvolge, protegge e nutre.
Essere stranieri, essere estranei, vivere in un mondo che si fa improvvisamente in-conoscibile, è un’esperienza che ad ognuno di noi può capitare di fare nel corso della propria esistenza. Allo stesso modo, nel contesto di un’esperienza psicotica, ci si può sentire sradicati, estromessi, dalla patria interiore, dalla propria soggettività (Borgna, 2002). 
   E’ importante comprendere la percezione che ha il residente della sua permanenza in Comunità: spesso segna, come un’impronta invisibile, tutto il tempo dell’abitare questo luogo. Un conto è vivere la comunità come il luogo dell’esilio, allontanati dalla propria patria, la casa in cui si viveva o soli o con la propria famiglia, portandosi appresso un senso di abbandono. Diverso è sentirsi sradicati cioè senza una terra che ci possa ancora accogliere. Altro ancora, viversi nella condizione di rifugiati in cui si viene accolti in un luogo, alla
ricerca di una nuova ‘Casa’. Si tratta di situazioni correlate con la nostalgia, nelle sue diverse forme di espressione.
   Durante il percorso comunitario il senso dell’abitare a volte muta, segnalando cambiamenti profondi nel mondo interno delle persone (A volte i residenti arrivano ad affermare: “Non voglio più tornare a casa, è la casa dei miei genitori”).
Ci sembra interessante rilevare che riflessioni simili sono riportare da Ranzato partendo dall’esperienza di ricostruzione delle casa nel Kosovo. Nel corso dei lavori  di riparazione e di ricostruzione delle case emerge la loro carica simbolica che lega ogni uomo alla propria abitazione e che trova radici negli strati più profondi  dell’inconscio personale e collettivo. (Ranzato, 2002)        

Alcuni esempi del rapporto con i luoghi: la propria camera

    Gli spazi più significativi sono caratterizzati dalla connotazione affettiva più intensa. L’ambiente dovrebbe soddisfare i bisogni umani di risonanza emotiva, fantasia e gioco, di dominio. Oltre lo spazio fisico bisogna quindi prendere in considerazione lo spazio come viene vissuto, il mondo come viene vissuto soggettivamente carico di emozioni, affetti, fantasie. E’ questo spazio che definisce l’identità sia del luogo sia di se stessi. Parlare della propria camera (come della Comunità o della Casa) significa parlare di se stessi, della propria vita.
   La distanza vissuta con la propria camera è un aspetto molto importante da osservare perché ci fornisce molte indicazioni sul mondo interno delle persone. La camera in Comunità assume un significato particolare perché diventa il luogo-rifugio, sicuro, privato in contrapposizione agli altri luoghi della comunità vissuto, spazi di incontro con l’altro, luoghi ‘pubblici’, desiderati e temuti.
   Quanto è vicina o lontana la persona dalle proprie cose?.Come usano le stanze i residenti? Come le usano gli operatori? Che spazi per gli uni e per gli altri? Queste sono alcune delle domande che ci possiamo porre sui luoghi e la modalità di rapporto delle persone che ci vivono.
    Da circa un anno, due consulenti delle attività espressive, un artista ed un’infermiera, hanno avviato un lavoro di drammatizzazione ed elaborazione relativo alle modalità in cui i residenti vivono le loro stanze e la convivenza con altri residenti nelle medesime. Questi incontri sono chiamati ‘gruppi stanze’.  Concordi sull’importanza che assume il luogo-camera da letto si è pensato di proporre ad alcuni residenti degli incontri settimanali nella loro stanza, dove un consulente delle attività espressive accompagnato da operatore dellequipe faceva loro visita. Si è quindi operato un ribaltamento: non erano più i residenti che dovevano spostarsi nel luogo comune del gruppo o delle attività, ma erano gli operatori ad essere ricevuti nello spazio proprio del residente (o dei residenti, se la camera era a due o tre letti). I residenti hanno accolto con favore questo ribaltamento, e superati i timori iniziali di proporre un’attività intrusiva, ci siamo accorti che alcuni residenti erano molto attivi e partecipi in questo piccolo gruppo, vivendolo come uno spazio sicuro.


  Di seguito sono riportate alcune brevi osservazioni fatte dagli operatori sul modo in cui è vissuta la propria stanza da parte dei residenti:

Camera di Alessandro, uomo di 30 anni, con diagnosi di schizofrenia pananoide.

   Sin dall’inizio presenta l’atteggiamento della prima donna, ha bisogno di farsi pregare per più volte prima di farci entrare nella sua camera.
Al primo incontro ci fa ascoltare e ballare la musica che piace a lui e dice che in uno spettacolo lui vorrebbe fare la prima donna.
La camera di Alessandro si presenta spoglia, tutto è ritirato nei cassetti, non c’è nulla sui mobili, persino la radio è nell’armadio. Inoltre la stanza è piuttosto trascurata, con carta e mozziconi di sigaretta sul pavimento. Le lenzuola spesso sono sporche e gli operatori devono faticare molto per aiutarlo a cambiarle. Anche il suo aspetto è trascurato, capelli lunghi e sporchi, piedi con unghie lunghe e neri di polvere dato che cammina scalzo in stanza. Dopo due anni si notano dei cambiamenti di Alessandro con la sua camera e la cura di sé stesso. Ha chiesto agli operatori di andare al mercato dove si è scelto una lampada e uno specchio, che mostra tutto orgoglioso agli altri ospiti della Comunità. Ha, finalmente, chiesto di comprarsi un paio di ciabatte e permette che lo si aiuti a lavarsi i piedi e tagliarsi le unghie. La stanza non è un modello di pulizia, ma ora i mozziconi sono tutti raccolti in un angolo della stanza in forma circolare. Da un operatore si è fatto tagliare un po’ i capelli.

Sonia (28 anni, con diagnosi di disturbo di personalità) e Maria (20 anni, con diagnosi di disturbo di personalità).

   In una stanza con due residenti si discutono le modifiche che vorrebbero apportare a tale spazio e su come sarebbe il loro spazio ideale. Sonia sembra privilegiare il sobrio, l’essenziale ; Maria predilige il classico (molto pesante), misto di elementi infantili (il suo bar arredato con delle fiabe dipinte e scritte ai muri).

Stefano (38 anni, diagnosi di schizofrenia paranoide)

   Sembra avere un rispetto per la camera simile a quello che ha per la struttura che lo ospita ; assolutamente non immagina nessuna modifica da apportare ma è grato di avere questa camera singola (abbastanza spoglia). Il suo atteggiamento nei confronti della camera sembra sottolineare il suo bisogno di non disturbare per essere accettato


Camera di Gabriele (34 anni, diagnosi di disturbo ossessivo-complulsivo)

    Gabriele vive in Comunità da circa 8 mesi. Il suo angolo di stanza (divide la camera con altri due compagni) è molto spoglio e ad ogni oggetto è assegnato un posto preciso. Il letto deve aderire sia alla parete che al comodino, come i vestiti sono sempre ripiegati sulla stessa sedia. La stanza trasmette un senso
di tristezza e disagio. Lo spazio è pietrificato.

Enzo (35 anni, diagnosi di schizofrenia paranoide)  e Vittorio (37 anni, diagnosi di schizifrenia indifferenziata).
   Il lavoro con loro sin dall’inizio si presenta molto faticoso, è difficile trovare argomenti per agganciarli. A loro la camera va bene così, non vorrebbero apportare nessuna modifica quello che sembra apparire importante per loro è la sicurezza di poter mantenere per sempre un loro spazio in CT. (Enzo : “va tutto bene, io sto bene qui”).

Conclusioni

   Poter far vivere un luogo, impossessarsi di una casa (o della propria stanza) e investire simbolicamente su di essa, appropriarsi, attraverso l’aver cura, degli spazi sono processi con un forte valore immaginario e simbolico. Tre sono gli aspetti da tenere in conto nella progettazione e nell’utilizzo dei luoghi come strumento terapeutico:

  1. I messaggi simbolici che l’edificio comunica. I modi in cui un’istituzione è costruita e arredata devono convincere il paziente che questo è un posto in cui egli è veramente il benvenuto  (Bettelheim, 1974). L’accoglienza e l’intimità si concretizzano negli oggetti e nei luoghi.
  2. Quanto il gruppo degli operatori è consapevole del fatto che investire sui luoghi, sulla casa, sulla propria stanza è terapeutico e riesce a trasmetterlo nel rapporto quotidiano con i residenti
3.      I vincoli legislativi. Vincoli che naturalmente non possono essere elusi nel progettare e utilizzare un ambiente. E tuttavia rischiano di intaccare le dimensioni più intime e familiari degli ambienti (porte tagliafuoco, luci d’emergenza....)

   Nel pensare ad un ambiente terapeutico, ci sono molti aspetti da non trascurare, essendo carichi di [3], l’importanza del bagno (luogo in cui ci si prende cura del proprio corpo), gli spazi per sistemare i vestiti, il colore delle pareti, la personalità delle stanze, l’odore dell’edificio,il significato simbolico delle scale, quanto i caratteri architettonici invitano a essere toccati, il significato delle porte chiuse e delle chiavi.
significato simbolico: la quantità di spazio vitale, il livello del mobilio disponibile, gli spazi comuni e il loro arredo, la preparazione del cibo
   Vorrei concludere ricordando come Bruno Bettelheim, dopo gli anni trascorsi come deportato in un campo di concentramento tedesco, sia stato guidato dal pensiero che come si può costruire una organizzazione sociale con il potere di distruggere gli individui, altrettanto si può progettare una piccola organizzazione sociale, come la Comunità terapeutica, per recuperare alla vita individui distrutti. Questo autore ci offre delle indicazioni su come dovrebbe presentarsi un edificio che accoglie malati con problemi psichiatrici:
“Essa non dovrebbe essere troppo piccola, perché in tal caso darebbe l’impressione di una limitazione, né così grande da risultare schiacciante. Dovrebbe inserirsi in modo discreto e armonico nell’ambiente, senza perdere però la sua individualità. Dovrebbe avere un carattere proprio, ma non così forte da dare al paziente l’impressione di essere diverso ogni volta che vi entra o che ne esce. Dovrebbe essere abbastanza robusta e solida da darci un senso di protezione, senza aver l’aria di imporre restrizioni alla nostra libertà; una casa confortevole che è adatta per la vita come una vecchia scarpa è adatta per camminare. Essa dovrebbe esprimere una qualche grazia nel modo di vita, dovrebbe eliminare ogni senso di insicurezza senza imporre un senso di dominio e dovrebbe esercitare un’attrazione positiva nei confronti del nostro senso estetico. Dovrebbe esprimere un’unità, ma dovrebbe comprendere anche caratteri individuali ben delineati. Dovrebbe mostrarci un volto aperto e convincerci che all’interno di essa l’individuo è la misura di tutte le cose. Dovrebbe suggerire dignità e rispetto di sé, poiché sono questi i sentimenti di cui il paziente mentale ha soprattutto bisogno. (…) In breve, l’edificio dovrebbe invitarci a entrare. “ (Bettelheim, 1974)



Bibliografia

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Zapparoli G.C. (1987) La psicosi e il segreto  Torino, Bollati Boringhieri

 





[1] Rimandiamo all’utile concetto di Azioni parlanti elaborato da Racamier e al loro utilizzo nell’esperienza di Roccato con la Croce Rossa nel Kosovo. L’azione in questo contesto perde la sua connotazione di resistenza al pensiero e diventa veicolo di importanti contenuti comunicativi
[2] Per un ulteriore approfondimento di questo tema rimandiamo al lavoro di Foucault in cui si parla di “eterotipie” cioè luoghi anomali e introflessi che interrompono la continuità dei legami. Essi sono tali perché cristallizzano concetti e traducono in gesti produttivi un’ipotesi medica o morale. In questo tipo di logica l’architetto diventa l’esecutore empirico perdendo lo spazio per la figurazione
[3] Bettelheim (1974) ci ricorda che  “il modo in cui la tavola è apparecchiata, il carattere più o meno confortevole della sedia su cui si siede, la qualità delle stoviglie, tutto simboleggia lo spirito con cui si è ricevuti a tavola, se si è bene accolti, se si è considerati importanti, se il pasto sarà un’occasione di gioia”

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